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[Il testo che segue è la relazione di Sandro Magister al convegno di studio tenuto sabato 30 novembre e domenica 1 dicembre ad Anagni, nella Sala della Ragione, per iniziativa della Fondazione Magna Carta, sul tema: “A Cesare e a Dio. Chiesa e politica nei pontificati di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco”. Con in coda la replica di Magister al termine del dibattito].

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LA VISIONE POLITICA DI PAPA FRANCESCO

La visione politica di papa Francesco ha le sue radici anzitutto nella sua esperienza di vita, in Argentina.

Precocemente nominato, nel 1970, maestro dei novizi, l’allora trentaquattrenne Jorge Mario Bergoglio sposò in pieno la causa del ritorno in patria di Juan Domingo Perón, in quegli anni in esilio a Madrid. Divenne la guida spirituale dei giovani peronisti della Guardia de Hierro, presenti in gran forza nell’università gesuita del Salvador. E proseguì tale militanza anche dopo che nel 1973 fu sorprendentemente nominato superiore provinciale dei gesuiti d’Argentina, nello stesso anno del ritorno in patria di Perón e della sua rielezione trionfale.

Bergoglio fu tra gli scrittori del “Modelo nacional”, il testamento politico che Perón volle lasciare dopo la sua morte nel 1974. E per tutto questo si attirò l’ostilità feroce di una buona metà dei gesuiti argentini, molto più a sinistra di lui, specie dopo che egli diede in gestione l’università del Salvador, messa in vendita per sanare i bilanci della Compagnia di Gesù, proprio ai suoi amici della Guardia de Hierro.

Fu in quegli anni che il futuro papa maturò il “mito” del popolo come protagonista della storia. Un popolo per sua natura innocente e portatore d’innocenza, un popolo con il diritto innato ad avere “tierra, techo, trabajo” e che egli vede coincidere con il “santo pueblo fiel de Dios”.

IL “MITO” DEL POPOLO

Ma oltre che dalla sua esperienza di vita, la visione politica di Bergoglio ha preso forma anche dall’insegnamento di un maestro, come egli ha confidato al sociologo francese Dominique Wolton in un libro-intervista da questi curato, dal titolo “Politique et societé”, uscito nel 2017:

“C’è un pensatore che lei dovrebbe leggere: Rodolfo Kusch, un tedesco che viveva nel nordovest dell’Argentina, un bravissimo filosofo e antropologo. Lui ha fatto capire una cosa: che la parola ‘popolo’ non è una parola logica. È una parola mitica. Non si può parlare di popolo logicamente, perché sarebbe fare unicamente una descrizione. Per capire un popolo, capire quali sono i valori di questo popolo, bisogna entrare nello spirito, nel cuore, nel lavoro, nella storia e nel mito della sua tradizione. Questo punto è veramente alla base della teologia detta ‘del popolo’. Vale a dire andare con il popolo, vedere come si esprime. Questa distinzione è importante. Il popolo non è una categoria logica, è una categoria mitica”.

CON I “MOVIMENTI POPOLARI”

Dunque, secondo Bergoglio, ”ci vuole un mito per capire il popolo”. E lui questo mito l’ha raccontato, da papa, soprattutto quando ha convocato attorno a sé i “movimenti popolari”, definizione sua. L’ha fatto tre volte: la prima a Roma nel 2014, la seconda in Bolivia a Santa Cruz de la Sierra nel 2015, la terza di nuovo a Roma nel 2016. Ogni volta infiammando l’uditorio con discorsi fiume, di una trentina di pagine ciascuno, che messi insieme formano il manifesto politico di questo papa.

I movimenti che Francesco chiama a sé non li ha creati lui, gli preesistono. Non hanno nulla di visibilmente cattolico. Sono in parte eredi delle memorabili adunate anticapitaliste e no-global di Seattle e Porto Alegre. Il papa li identifica con la moltitudine dei reietti da cui vede prorompere “quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino del pianeta”.

È per questi “scartati dalla società” che Francesco preconizza un futuro fatto di terra, di casa, di lavoro per tutti. Grazie a un processo di loro ascesa al potere che “trascende i procedimenti logici della democrazia formale” (proprio così: parole testuali). Ai “movimenti popolari” il papa ha detto che è giunto il tempo di fare un salto nella politica, “per rivitalizzare e rifondare le democrazie, che stanno attraversando una vera crisi”, insomma, per rovesciare i potenti dai troni.

Le potenze contro le quali si ribella il popolo degli esclusi sono, nella visione del papa, “i sistemi economici che per sopravvivere devono fare la guerra e così sanano i bilanci delle economie”, sono “l’economia che uccide”. È questa la sua chiave di spiegazione anche della “guerra mondiale a pezzi” e dello stesso terrorismo islamico.

DUE CONTRADDIZIONI

Ma qui già affiora una contraddizione tra il dire e il fare, nella politica di papa Francesco.

Perché mentre egli predica senza tregua contro i ricchi Epuloni – che mai però identifica e chiama per nome –, gli uomini più ricchi del mondo e i superpotenti della finanza fanno ressa per essere ricevuti da lui. E lui non solo li accoglie a braccia spalancate, ma li colma di elogi.

Nella fase iniziale del suo pontificato, per rimettere in sesto la curia e i suoi bilanci, Francesco ha chiamato in Vaticano le più famose e costose fabbriche al mondo di sistemi organizzativi e finanziari, dalla McKinsey alla Ernst & Young, dalla Promontory alla KPMG.

Christine Lagarde, ricevuta più volte quando era alla testa del Fondo Monetario Internazionale, l’ha elogiata come “una donna intelligente che sostiene che il denaro deve essere al servizio dell’umanità e non il contrario”.

Ha ricevuto in udienze ben in vista, accogliendone sotto le telecamere le cospicue offerte in denaro, Tim Cook della Apple, Eric Schmidt di Google,  Kevin Systrom di Instagram. Ha accolto i finanziamenti di Paul Allen di Microsoft e del magnate messicano Carlos Slim, da molti anni al vertice della classifica di “Forbes” dei più ricchi del mondo.

E poi c’è una seconda contraddizione, tra – da un lato – la narrazione che Bergoglio continuamente fa di un mondo nel quale “i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri”, in un crescendo di concentrazione della ricchezza nelle mani di pochissimi e di una deliberata estensione della povertà a strati sempre più ampi della popolazione, e – dall’altro lato – i dati incontrovertibili delle statistiche.

Basti dire che, stando alle cifre fornite dalla Banca Mondiale, nel 1990 viveva con meno di 1,9 dollari al giorno il 47 per cento della popolazione del pianeta. Nel 2015, venticinque anni dopo, meno del 10 per cento. In Cina, nello stesso arco di tempo, quelli che vivono in condizione di povertà estrema sono scesi dal 61 al 4 per cento.

IL “BUEN VIVIR” DELL’AMAZZONIA

Da più di tre anni Francesco non convoca più attorno a sé i “movimenti popolari”. Ma semplicemente perché il suo populismo ha variato il “focus”, che è passato alle tribù amazzoniche.

Nel discorso con il quale ha aperto il 7 ottobre scorso i lavori del sinodo dell’Amazzonia, il papa è tornato alla sua esperienza argentina degli anni Ottanta, quando, ha detto , “uno slogan, ‘civiltà e barbarie’, servì allora a dividere, ad annientare la maggior parte dei popoli originari”. E oggi, ha proseguito, la presunta civiltà continua ad accanirsi contro i “bolitas, los paraguayanos, los paraguas, los cabecitas negras”, identificando in essi la barbarie. Una ragione in più perché ci si avvicini invece ai popoli amazzonici “in punta di piedi, rispettando la loro storia, le loro culture, il loro stile del buon vivere”, senza più “colonizzazioni ideologiche” e la pretesa di “disciplinare” e “addomesticare” questi popoli.

Nel documento finale del sinodo, al numero 9, il “mito” delle tribù amazzoniche ha trovato espressione così:

“La ricerca di vita in abbondanza dei popoli indigeni amazzonici si concretizza in quello che essi chiamano il ‘buen vivir’ e che si realizza pienamente nelle Beatitudini. Si tratta di vivere in armonia con se stessi, con la natura, con gli esseri umani e con l’essere supremo, poiché c’è un’intercomunicazione tra tutto il cosmo, dove non ci sono né escludenti né esclusi”.

A questa esaltazione dell’innocenza nativa, da paradiso terrestre o da “buon selvaggio” rousseauviano, delle tribù amazzoniche, va ricondotta anche la vicenda parasinodale – per alcuni uno scandalo – delle prostrazioni davanti a delle statuette di legno raffiguranti una donna nuda e gravida, identificate dallo stesso papa come “Pachamama”, la divinità incaica della madre terra. Francesco ha negato che con ciò si sia ceduto a “tentazioni idolatriche” e in un’udienza pubblica postsinodale ha portato ad esempio la condotta di san Paolo riguardo agli dèi dell’antica Grecia, non tenendo conto però che l’apostolo compì nei confronti dell’idolatria un esercizio critico radicale, del tutto assente nella vicenda suddetta.

Non solo. L’esaltazione del “buen vivir” delle tribù amazzoniche si è spinta, per alcuni vescovi ed esperti del sinodo, fino al punto di accettare acriticamente pratiche quali l’infanticidio e l’eliminazione selettiva di adulti e vecchi giudicati incompatibili con le esigenze della comunità.

Ecco infatti che cosa ha detto testualmente il 15 ottobre, nella sala stampa vaticana, con imperturbabile distacco avalutativo, l’antropologa brasiliana Marcia María de Oliveira, una dei 25 collaboratori ufficiali dei segretari speciali del sinodo dell’Amazzonia:

“Vi sono alcune comunità che stabiliscono alcune procedure o alcune iniziative collettive di controllo della natalità. Tutto è in rapporto alla dimensione della famiglia e all’ampiezza dei gruppi. Tutto si basa sulla conservazione, la sopravvivenza, l’alimentazione, il numero di persone che compongono il gruppo… Ciò ha molto a che vedere anche con le relazioni interne, fino a che punto quel bambino, quell’anziano, quella persona adulta è in grado di seguire il gruppo in quelli che sono i suoi spostamenti”.

TRIBUNALI POLITICI

Al filone populista della politica di papa Francesco possono essere accostati anche due suoi recenti discorsi di carattere giuridico.

Il primo è stato rivolto il 5 giugno 2019 a un summit di magistrati latinoamericani riuniti in Vaticano, ricco di citazioni del secondo dei tre discorsi rivolti ai “movimenti popolari”, quello pronunciato in Bolivia, e palesemente scritto da mano non sua, anche se pienamente consonante, forse da uno dei magistrati argentini presenti, Raúl Eugenio Zaffaroni, membro della corte interamericana dei diritti umani e sostenitore di una “teoria critica” della criminologia che fa risalire la genesi del crimine e la natura della giustizia alla struttura delle classi sociali e alle disuguaglianze.

“Non c’è democrazia con la fame, non c’è sviluppo con la povertà, non c’è giustizia nella inequità”: così Francesco sintetizzò la sua visione, tra gli applausi.

Il secondo discorso è del 15 novembre scorso ed è stato rivolto dal papa ai partecipanti a un congresso dell’Associazione internazionale di diritto penale.

In esso Francesco ha accusato la scienza penalistica di adagiarsi in “un sapere meramente speculativo” e con ciò di “trascurare i dati della realtà”, cioè quel “mercato divinizzato” che in nome della massimizzazione del profitto produce solo “esclusione”. I giuristi dovrebbero invece “usare il proprio sapere per contrastare la macro-delinquenza delle corporazioni”, alle quali il papa associa “l’irrazionalità punitiva che si manifesta in reclusioni di massa, affollamento e torture nelle prigioni, arbitrio e abusi delle forze di sicurezza, espansione dell’ambito della penalità, criminalizzazione della protesta sociale, abuso della reclusione preventiva”.

Non sembra neppure sfiorare Francesco l’idea che questa “irrazionalità punitiva” è tipica non di un “mercato divinizzato”, ma piuttosto di paesi come la Cina, dove il mercato è sotto la tutela di una dittatura politica pervasiva e liberticida.

Questo suo discorso, Francesco è tornato a citarlo nella conferenza stampa sul volo di ritorno del suo viaggio in Giappone. La stessa conferenza stampa nella quale – interpellato sulle turbolenze finanziarie che agitano il Vaticano – ha dichiarato d’aver lui personalmente promosso e autorizzato a voce o per iscritto le iniziative della magistratura e della gendarmeria pontificie, con ciò facendo strame dell’aurea distinzione tra potere giudiziario e potere esecutivo.

PER UN’ECONOMIA “FRANCESCANA”

Da ultimo due corollari, legati a due appuntamenti fissati da papa Francesco nella primavera del 2020.

Il primo vedrà riuniti ad Assisi dal 26 al 28 marzo mezzo migliaio di giovani aspiranti economisti di tutto il mondo, per “un festival dell’economia dei giovani con il papa, una via di mezzo tra Greta Thunberg e i potenti della terra”, come annunciato dal principale organizzatore, Luigino Bruni, appartenente al movimento dei Focolari, ordinario di economia politica alla Libera Università Maria Assunta di Roma e consultore del dicastero vaticano per i laici, la famiglia e la vita.

Nella lettera d’invito all’evento, Francesco ha proposto niente meno che “un patto per cambiare l’attuale economia“ e sostituirvi una “Economy of Francesco” (leggi: san Francesco d’Assisi, ma con facile equivoco).

Tra i personaggi che hanno già confermato la loro presenza, oltre a Bruni e a Stefano Zamagni, presidente della pontificia accademia delle scienze sociali, vi saranno i Premi Nobel Amartya Sen e Muhammad Yunus, l’economista malthusiano Jeffrey Sachs, in questo pontificato immancabile ospite di ogni appuntamento vaticano riguardante l’economia e l’ecologia, Carlo Petrini, fondatore di Slow Food e già invitato personale di Bergoglio al sinodo dell’Amazzonia, e l’ecologista indiana Vandana Shiva, tanto osannata nel circuito dei “movimenti popolari” (partecipò al loro terzo raduno mondiale) quanto screditata dalla comunità scientifica degna di questo nome.

Curiosamente, Vandana Shiva e Carlo Petrini hanno anticipato di tre anni la sanzione punitiva contro il peccato di “ecocidio” che Francesco ha detto di voler introdurre nel catechismo, nel secondo dei discorsi ai giuristi sopra citati. Nell’ottobre del 2016, infatti, l’una e l’altro misero in scena in Olanda, all’Aia, un simil-processo nel quale condannarono in contumacia, proprio per quel reato di “ecocidio”, la multinazionale biotech Monsanto.

SCUOLE DI COMPAGNIA, MA NON DI GESÙ

Il secondo appuntamento è convocato per il 14 maggio 2020 in Vaticano e sarà aperto a “tutte le personalità pubbliche” che “si impegnano a livello mondiale” nel campo della scuola, a qualsiasi religione appartengano.

Non sorprende che un papa come Jorge Mario Bergoglio abbia così a cuore la scuola e la formazione delle nuove generazioni, lui che fa parte della Compagnia di Gesù, per secoli grande educatrice di classi dirigenti. Ma ciò che colpisce è la totale assenza in questo suo progetto educativo di qualsiasi specificità cristiana.

Nel videomessaggio con cui Francesco ha lanciato l’iniziativa non c’è la minima traccia verbale né di Dio, né di Gesù, né della Chiesa. La formula dominante è “nuovo umanesimo”, con il suo corredo di “casa comune”, “solidarietà universale”, “fraternità”, “convergenza”, “accoglienza”…

E le religioni? Anch’esse accomunate e neutralizzate in un dialogo indistinto. Per “bonificare il terreno dalle discriminazioni” il papa rimanda al documento “sulla fratellanza umana” da lui sottoscritto il 4 febbraio 2019 ad Abu Dhabi con il Grande Imam di Al-Azhar, un documento nel quale anche “il pluralismo e le diversità di religione” sono ricondotti alla “sapiente volontà divina con la quale Dio ha creato gli esseri umani”.

La novità di questa iniziativa di Francesco consiste appunto nel fatto che è la prima volta che un papa fa suo e si pone alla guida di un patto educativo mondiale così radicalmente secolarizzato.

Ma qui, di nuovo, Bergoglio fa tesoro dei suoi precedenti argentini. Fu a Buenos Aires, infatti, che egli fondò una rete di “escuelas de vecinos”, di scuole di vicinato, allargatasi man mano ad altre città e nazioni, fino a diventare oggi una rete di mezzo milione di scuole in cinque continenti, dal nome di “Scholas Occurrentes”, scuole per l’incontro, dal 2015 divenuta pia fondazione di diritto pontificio con sede nella Città del Vaticano.

Di “pio” però, non vi si trova nulla. Nei numerosi discorsi rivolti da Francesco alle “Scholas”, il silenzio sul Dio cristiano, su Gesù e sul Vangelo è quasi tombale. E i santi? Spariti anch’essi. Nei meeting di “Scholas Occurrentes”, con tanto di udienze col papa, gli invitati sono stelle dello spettacolo e dello sport, da George Clooney e Richard Gere, da Lionel Messi a Diego Armando Maradona.

SOTTOMISSIONE AL MONDO

Questo appiattimento secolare non è marginale, nella visione politica di papa Francesco.

Sul “Corriere della Sera” del 2 ottobre scorso Ernesto Galli della Loggia ha colto nel segno quando ha ravvisato in questo pontificato la tendenza a sciogliere il cattolicesimo “nell’indistinto”, a interpretare “l’intima vocazione missionaria del cattolicesimo verso il mondo come equivalente alla necessità di confondersi con il mondo stesso”.

Solo che nel mondo, a partire dalla seconda metà del Novecento, si sta imponendo “un’ideologia etica d’ispirazione naturalistica” fatta di diritti individuali, di pacifismo, di ecologismo, di antisessismo, che al discorso religioso, quando non lo estromette del tutto, assegna solo un posto in subordine, esornativo.

Quando dunque papa Francesco depone ogni tratto dell’identità storica della Chiesa e la assimila all’ideologia e al linguaggio del mondo, compie una scelta molto, molto azzardata. Vorrebbe fare cristiano il mondo, col rischio serio, invece, di mondanizzare la Chiesa.

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IN REPLICA AD ALCUNE OBIEZIONI

(s. m.) Nel corso del dibattito seguito a questa mia relazione, alcuni hanno obiettato che Francesco dice e fa anche molto altro – e di dissonante – rispetto al profilo che ho tratteggiato di lui, e lo dice e fa in continuità con i suoi prdecessori. Come ad esempio lo scorso 29 novembre, quando ha denunciato il frequente e rovinoso “sconfinamento del giudice in ambiti non propri” su una questione di vita e di morte come l’eutanasia.

È vero. Papa Francesco non omette di condannare con forza l’aborto, l’eutanasia, l’ideologia del “gender”. Talora con parole persino più forti – ”sicari”, “assassini”… – di quelle usate dai papi che l’hanno precedeuto.

Queste sue condanne, però, trovano pochissima risonanza nel circuito dell’informazione. E Francesco lo sa, ma è come se si adatti a questo silenzio.

Il motivo è il “quando” e il “come” di queste parole dette dal papa.

Per capire quanto siano determinanti le modalità di una comunicazione ai fini della sua risonanza e della sua efficacia, può essere istruttivo ciò che accadde nel 1994, prima e durante la conferenza internazionale per la popolazione e lo sviluppo convocata al Cairo dall’Organizzazione delle Nazioni Unite.

Obiettivo di quella conferenza era di “assicurare i diritti riproduttivi”, formula che Giovanni Paolo II tradusse in “morte sistematica dei non nati”. Quel papa, all’approssimarsi dell’evento, pronunciò parole fortissime in difesa della vita e della famiglia in una sequenza di più “Angelus” domenicali, convocò in Vaticano gli ambasciatori, consegnò ai responsabili dell’ONU un memorandum con tutte le sue obiezioni, ricevette il presidente americano Bill Clinton in una udienza definita “tesissima” dai testimoni.

Il risultato fu che la conferenza del Cairo diventò sui media mondiali una battaglia campale del papa contro i potenti del mondo, pro o contro l’aborto, i contraccettivi e la sterilizzazione. Io c’ero e ricordo che erano arrivati persino i più celebri inviati di guerra, per la CNN Christiane Amanpour.

Tornando all’oggi, qual è invece la forma del “magistero” di papa Francesco?

A parte la scelta dei tempi, dei modi e degli interlocutori per far sì che talune dichiarazioni siano amplificate o all’opposto tacitate dai media, direi che alla sua base non c’è l’aristotelico principio di non contraddizione ma piuttosto una sorta di principio di contraddizione.

Su tante questioni anche cruciali Francesco sistematicamente dice e non dice, disdice, si contraddice. Spesso all’interno di un unico pronunciamento. Memorabile, quando si recò in visita alla chiesa luterana di Roma, la sua risposta alla domanda di una donna protestante che gli chiedeva se poteva fare la comunione quando andava a messa assieme al marito cattolico. Il papa le disse di tutto: sì, no, non so, fate voi… Il risultato è che oggi dentro la Chiesa cattolica ciascuno fa come vuole, forte dell’una o dell’altra parola del papa.

Francesco giustifica questo suo eloquio con la volontà di mettere in moto “processi” di approfondimento e di evoluzione della dottrina, di cui giudica sbagliato fissare anzi tempo i percorsi e i traguardi.

“Amoris laetitia”, con la sua assenza di chiarezza nell’autorizzare o no la comunione ai divorziati risposati, è un emblema di questo magistero del “processo”.

Quando alcuni cardinali gli hanno esposto i “dubia” così generati, lui non ha risposto.

Ma appunto, non poteva rispondere. Quei cardinali avevano colto in pieno l’essenza del suo magistero.