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Lo scorso 4 giugno, la Fondazione Magna Carta un convegno in occasione del centenario dello storico appello di don Luigi Sturzo, quello dedicato ai “Liberi e Forti”. Di seguito, pubblichiamo l’intervento di Eugenio Capozzi.

  1. Il popolarismo e la genesi dell’anticomunismo

Il cattolicesimo politico italiano, nella sua prima forma politica compiuta rappresentata dal Partito popolare, non nasce anticomunista. 

Nel 1919, alla fine della grande guerra, quando venne diffuso l’Appello ai liberi e forti, il comunismo sovietico non era in primo piano tra le preoccupazioni dei cattolici, la priorità di Luigi Sturzo e del gruppo che con lui diede vita alla nuova forza politica era quella di promuovere politiche di sviluppo del paese fondate sulla libera articolazione della società (famiglia, organizzazione sociale, territori), in continuità con le direttrici della dottrina sociale di origine leonina. Un progetto fondato sull’idea di una riconciliazione piena con la storia nazionale attraverso il richiamo ad una radice culturale democratica di gran lunga precedente il Risorgimento. 

Fu con il biennio rosso, con la paralisi del sistema politico dalle elezioni del 1919 in poi, e soprattutto con la progressiva percezione che in Russia si   era instaurato un regime radicalmente ateista, che per il mondo cattolico l’anticomunismo cominciò a diventare un issue rilevante. Nella fase tra la fine della guerra e l’avvento della dittatura fascista (1918-1925) dalla lacerazione del partito popolare emerse quel “nazional-cattolicesimo” che divenne uno degli elementi costituenti della coalizione sociale che sostenne il regime di Mussolini.

2. Guelfismo democratico, nazional-cattolicesimo, neo-corporativismo 

Durante il ventennio, l’eredità “guelfa” del cattolicesimo liberal-democratico e il neo-clericalismo nazionalcattolico e filofascista convissero, spesso in forme contraddittorie, trovando talvolta nell’Azione cattolica un luogo di faticoso confronto. 

Nell’opinione pubblica cattolica, nel laicato, nella stessa Chiesa si incrociavano variamente antifascismo e anticomunismo militante. 

Il primo ebbe nel Movimento Guelfo d’Azione, e nella resilienza di ciò che restava del popolarismo, espressioni apparentemente molto circoscritte, ma che avrebbero svolto un ruolo determinante nella nuova fase storica iniziata con la fine del fascismo. Il secondo trovò nella guerra civile spagnola un suo luogo di sviluppo privilegiato, in cui si fondevano la causa nazionale, quella della lotta al comunismo, quella della Chiesa e quella del regime. 

Intanto, all’ombra della cultura ufficiale fascista, il corporativismo cattolico costruiva un arduo tentativo di rispondere al collettivismo comunista sovietico non abbandonando le tracce della dottrina sociale.

Un tentativo che, negli ultimi anni della seconda guerra mondiale e nei primi del dopoguerra, avrebbe costituito la base per la linea di  politica economica di una parte importante della classe dirigente cattolica confluita nel nuovo contenitore politico della Democrazia cristiana, esprimendosi tra l’altro nel “Codice di Camaldoli” e nella corrente dossettiana che si riunì intorno alla rivista “Cronache sociali”. 

3. Democrazia cristiana e comunismo: “contenimento” e/o concorrenza 

Nel periodo tra la partecipazione cattolica alla Resistenza e il ritorno alla democrazia, nella Dc confluirono diverse tracce politico-culturali, che implicavano atteggiamenti diversi rispetto al fenomeno comunista, intanto divenuto la dottrina ufficiale di una delle due “superpotenze” uscite vincitrici dal conflitto: gli eredi del popolarismo, il movimento neoguelfo, la sinistra corporativista e il cattolicesimo sociale. 

Le prime due componenti, fortemente intercomunicanti, produssero, in termini di politica economica, il progetto di una competizione con il comunismo – ma contemporaneamente di un forte argine nei confronti di esso – baricentrato su un’economia di mercato potenziata da iniezioni di intervento e indirizzo statale (in una gamma di sfumature che andavano da Röpke a Keynes). 

La terza e la quarta, con sfumature diverse, prefiguravano il tentativo di costruire una società che andasse in parte oltre il mercato, e costituisse un’alternativa al comunismo capace però di tenere profondamente conto del suo orizzonte ideologico: ricorrendo da un lato ad una originale lettura della modernizzazione orientata nel senso di una crescita organica della società, dall’altro ad una prospettiva escatologica altrettanto forte ma di tipo cristiano. La strategia economica fondata sul “Codice” si risolveva in un riformismo dalle venature tecnocratiche, mentre il dossettismo puntava ad un rinnovamento “profetico” della politica: che sarebbe stato però ben presto riassorbito dal quadro partitico della “democrazia bloccata” della guerra fredda. La sua sconfitta fu segnata simbolicamente, ma anche praticamente, dall’abbandono della politica in favore del sacerdozio da parte del suo ispiratore nel 1958. 

Come è noto, sotto la leadership di De Gasperi nella Dc prevalse l’orientamento in favore dell’economia di mercato, più o meno “sociale”, cementato dall’alleanza strategica stipulata con ciò che rimaneva della classe politica liberale, dall’assimilazione della forza politica socialdemocratica/riformista, dall’adesione all’alleanza atlantica e dalla promozione di un percorso di integrazione europea come rafforzamento e garanzia di un ordinato sviluppo della democrazia nazionale. 

Un orientamento che – attraverso il passaggio di consegne tra De Gasperi e Fanfani, fino al centrosinistra – si sarebbe integrato negli anni successivi con la corrente neo-corporativista, vedendo anzi la crescente prevalenza di quest’ultima, con la reinterpretazione dell’economia sociale di mercato in primo luogo come protagonismo dello Stato imprenditore nei settori strategici dello sviluppo industriale (partecipazioni statali, ENI, nazionalizzazioni). 

4. Dal “partito romano” al post-Concilio: tra teologia della liberazione e anti-sovversivismo

Ma proprio la logica della guerra fredda, che aveva contribuito alla vittoria di questa linea – sintetizzabile come il tentativo di “prosciugare” sistematicamente l’acqua in cui il comunismo avrebbe potuto nuotare approfittando del malcontento e dell’insicurezza delle classi più povere con la costruzione di una società del benessere guidata da uno Stato modernizzatore – aveva favorito anche l’emergere deciso di un ulteriore filone del cattolicesimo politico, in cui la contrapposizione al comunismo giocava un ruolo centrale: il “partito romano”, che connetteva la Chiesa alla Dc attraverso larga parte del laicato, e trovava la sua forma più efficace e pervasiva nei “comitati civici” di Gedda. 

L’anticomunismo popolare benedetto dal Vaticano sotto Pio XII raccoglieva in gran parte l’eredità del “nazional-cattolicesimo” emerso tra le due guerre. Esso giocò, come è noto, un ruolo fondamentale nel successo elettorale della Dc – in particolare nelle elezioni del 1948 – ma tentò di spostarne l’asse decisamente verso destra, promuovendo un fronte anticomunista esteso alle forze fuori dall’arco “costituzionale” e resistenziale, come monarchici e neofascisti. 

Paradossalmente, questa tendenza si trovò a convergere, a partire dai secondi anni Cinquanta, con settori di ciò che era stata la corrente dossettiana (il gruppo di “Terza Generazione”). In nome di una “ricristianizzazione” della società queste frange del catolicesimo politico – in parte fuoriuscite dall’alveo democristiano – promuovevano il rifiuto del consumismo e della secolarizzazione, e indicavano come obiettivo una possibile nuova saldatura tra potere temporale e spirituale. Una saldatura che, a partire dal gollismo e dalla svolta del 1960 (la caduta di Tambroni e l’avvio del centrosinistra), venne identificata, da parte dell’ideologo più lucido in tal senso, Gianni Baget Bozzo, nella proposta di una modifica della Costituzione in senso presidenzialista. 

Nel periodo del passaggio dal centrismo al centrosinistra, e poi in quello del centrosinistra “organico”, il mainstream democristiano cercò, invece, di mantenere faticosamente un’equilibrio tra una linea di alternativa frontale, inequivocabile al comunismo e una strategia più sottile ed articolata di depotenziamento delle sue chances di affermazione, sulla scia della  strategia interventista/statalista del decennio precedente. 

Ma l’esplosione del movimentismo giovanile e sociale sessantottino produsse nel mondo cattolico – parallelamente agli esiti del Concilio, frutto già dello smottamento di un possibile ruolo di stabilizzazione della dialettica sociale e politica da parte dei cattolici come quello da loro svolto nei decenni precedenti – due fenomeni conflittuali simmetrici, che scompaginavano entrambe quelle linee strategiche. 

Da un lato, il ribellismo delle giovani generazioni postbelliche e le sue nuove prospettive escatologiche nel senso della “liberazione” di popoli, culture e soggettività minoritarie attrassero larga parte del laicato e dei giovani cattolici – e una quota non trascurabile del clero – con il fascino di una nuova, più integrale conversione dell’evangelizzazione in senso ideologico e secolare. Questa nuova, prepotente tendenza cominciò ad essere definita (a partire dal contesto sudamericano) “teologia della liberazione”, e determinò tra l’altro un massiccio spostamento di consensi cattolici verso la sinistra dello schieramento politico, e una crisi di dimensioni inedite nel rapporto tra Chiesa e società. 

Dall’altro, l’anticomunismo cattolico che aveva sostanziato larga parte del consenso alla Dc di fronte alla deriva a sinistra della società, e alla “sessantottizzazione” del mondo cattolico, si andò rapidamente a sua volta radicalizzando, tendendo sempre più a diffidare del partito unico, quando non ad abbandonarlo per aggregarsi a formazioni e alleanze esplicitamente di destra conservatrice/reazionaria, in un movimento altalenante di sfiducia e fiducia condizionata che sarebbe proseguito per tutti gli anni Settanta, fin oltre il periodo del “compromesso storico” tra democristiani e comunisti. 

In mezzo al guado, lacerato tra queste due tendenze, un movimento di rinnovamento laicale molto anomalo come “Gioventù studentesca”, fondato da don Luigi Giussani con l’aspirazione ad una nuova centralità culturale, prima che politica, del cristianesimo nel paese in risposta alle sfide traumatiche della modernità industriale, consumistica e secolarizzata, e alla riduzione della Chiesa entro il recinto di una presenza puramente “istituzionale”. 

Proprio l’attraversamento fino in fondo di questa crisi finì per favorire, nell’aggregazione giussaniana, un esito originale rispetto ad altri movimenti post-conciliari: con la sua evoluzione nella nuova sigla di Comunione e liberazione e la nascita di un’ala politica con il “Movimento popolare”, essa si propose dagli anni Settanta in poi come concreta realizzazione di un’alternativa a tutto tondo al modello comunista – sia quello sovietico tradizionale che il nuovo sovversivismo propagandato dalle rivolte degli anni Sessanta, più o meno assimilato dal cattolicesimo progressista. Una teoria e pratica della comunità che si proponeva di riconvogliare le istanze antiautoritarie e anticonformiste dei giovani baby boomers cattolici in una forma di ordine sociale e politico fondato sulla libera e cosciente adesione ad una tradizione e ad un’autorità, che definisse un equilibrio più fecondo tra dimensione dell’impegno nella società ed evangelizzazione. 

5. Dal “compromesso storico” al declino parallelo del comunismo e del partito cattolico 

Intanto, sul piano degli assetti di potere politico-partitici, prima con il centrosinistra, poi il “compromesso storico” tra Dc e Pci e le maggioranze di “solidarietà nazionale” la Dc portava alle estreme conseguenze, ed esauriva, l’obiettivo di competere con il comunismo contenendolo, depotenziandolo, ed infine addirittura cooptandolo nell’area di governo. 

Un obiettivo che, al di là della morte violenta di Aldo Moro – che di tutta la strategia dell’apertura a sinistra era stato il primo ideatore – e della crisi della coalizione di solidarietà nazionale nel 1979, andò incontro ad un sostanziale fallimento, fondamentalmente per il motivo che Augusto Del Noce (per non dire di Pier Paolo Pasolini) aveva per tempo intravisto, e  del quale proprio in quegli anni egli diede una acuta definizione filosofica: il comunismo era destinato a essere risucchiato in una visione del mondo nichilista, e a diventare un “partito radicale di massa”, espressione delle classi dirigenti neo-borghesi nelle società industrializzate/consumistiche. 

Il venir meno dell’escatologia proposta dal suo antagonista ideologico (ma anche aggregatore per conflitto), ed anzi la sua trasformazione in una nuova escatologia – quella del progressismo secolarizzato “dirittista”, biopolitico-libertario, “politicamente corretto” – in gran parte non venne all’epoca compresa ed interpretata dal cattolicesimo politico italiano. Tale mancata tematizzazione erose rapidamente la forza propositiva di quest’ultimo, e divenne uno dei fattori principali, se non il principale, dela suo rapido declino a partire dagli anni Ottanta. Un declino che sfociò nella catastrofica dissoluzione della Dc nel passaggio tra la “prima” e la “seconda” Repubblica. 

6. Un nuovo avversario e competitore: la dittatura del relativismo

Da quella dissoluzione derivò, come è noto, una diaspora dei cattolici in vari schieramenti politici/coalizioni di centrodestra e centrosinistra in condizione quasi sempre minoritaria e subordinata, in formazioni mercuriali, instabili, accomunate tutte da una superficiale prospettiva culturale e strategica. E derivò quindi la crescente ininfluenza del cattolicesimo politico in quanto tale nel dibattito politico del paese. Ciò, paradossalmente, proprio mentre sotto i pontificati di Giovanni Paolo II, e poi di Benedetto XVI, la Chiesa cattolica esprimeva una potente reazione culturale alla secolarizzazione occidentale e alla “dittatura del relativismo”. 

Con il maturare, poi, di una crisi profonda della globalizzazione in Occidente, in Italia – come in altri paesi – la presenza politica dei cattolici si è andata indirizzando su due nuove direttrici contrapposte, in cui rivivono, ma in forme aggiornate, la contrapposizione e la suggestione/competizione rispetto al comunismo che la avevano caratterizzata in precedenza per molti decenni. 

Per un verso, si riscontra una nuova, forte tendenza a cedere al fascino di nuove forme di messianesimo secolare, incentrato soprattutto sull’adesione al multiculturalismo, all’ecologismo, alle ragioni dei ceti impoveriti dal grande rivolgimento dell’economia mondiale. Una tendenza che riprende, in molti casi anche nei riferimenti culturali e nella terminologia, proprio alcuni paradigmi della teologia della liberazione. 

Per un altro, emerge una sempre più radicale critica culturale e di civiltà agli esiti della globalizzazione, accompagnato da una crescente organizzazione militante di cattolici, fuori e al di là dei partiti, in reazione alla secolarizzazione radicale. E’ da qui che originano i molti movimenti nati nell’ultimo decennio contro la mercificazione e svalutazione della vita umana da parte delle élites politiche e culturali aderenti al libertarismo biopolitico, ed in difesa intransigente della famiglia naturale contro le tendenze all’edonismo relativista/soggettivista incessantemente propagandato dal sistema politico-culturale che è espressione delle nuove classi dominanti globaliste occidentali.