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C’era una volta il federalismo. Piaceva a tutti, e tutti lo volevano. Qualcuno addirittura lo introdusse con legge, a Costituzione invariata; poi ci si accorse che così non era sufficiente, e nel 2001 si modificò la Carta costituzionale rivoluzionando il Titolo Quinto della stessa, che è dedicato all’organizzazione e funzioni delle autonomie territoriali. La riforma ebbe anche il consenso del corpo elettorale, espresso con il referendum. Messo alla prova però, quel federalismo si rivelò di difficile applicazione e causa di ripetuti contrasti. Alla Corte costituzionale cominciarono a piovere ricorsi da parte delle Regioni, che reclamavano il loro diritto a legiferare su materie che la Costituzione attribuiva in parte a loro e in parte allo Stato. Si tratta cioè della cosiddetta potestà legislativa concorrente, che le nuove norme costituzionali avevano dilatato a dismisura e senza un corretto criterio identificativo. Insieme alla confusione generata dalle materie concorrenti, e alla clausola dei poteri residui, si registrava la grave assenza di un luogo di compensazione politica tra Stato e Regioni, che fosse il Senato rinnovato nella sua rappresentanza degli interessi locali attraverso un forte collegamento con il territorio regionale.

C’era una volta la devolution. Piaceva a pochi ma la maggioranza parlamentare la fece sua. Addirittura in una prima versione, votata dalle Camere, la si introduceva in Costituzione per il tramite della sola aggiunta di un comma a un articolo costituzionale, con il quale si attribuiva alle Regioni il potere esclusivo di legiferare su Sanità, Istruzione e Polizia locale. Poi venne presentato un progetto governativo più ampio di riforma costituzionale, comprendente la forma di governo e le garanzie, e la devolution venne “spalmata” in un rinnovato contesto di poteri e funzioni delle Regioni, secondo cioè un nuovo modello di Titolo Quinto.

C’era una volta il premierato. Piaceva a molti e su di esso pareva esserci un consenso ampio. Poi alcuni ci hanno ripensato e lo hanno iniziato ad avversare minacciosamente (paventando scenari di dittature e di potere assoluto in capo a una sola persona). La maggioranza lo ha proposto come modello di forma di governo, affinché si mettesse su Carta costituzionale quello che già c’è di fatto: la nomina a primo ministro del leader dello schieramento vincitore alle elezioni, in modo tale da dare solidità e certezza a questo meccanismo e non rischiare così di tradire il pronunciamento elettorale (come è avvenuto nel dopo Prodi, con D’Alema e con Amato).

C’era una volta. Cosa è rimasto di tutto questo? La domanda non sembri leziosa, perché delle tre riforme costituzionali – federalismo, devolution, premierato – sembra esserci rimasto soltanto il nome. Non è una critica, anzi; è solo una presa d’atto. E in più una lezione sul metodo per fare le riforme costituzionali.

Nel nuovo progetto di riforma, emendato e in votazione alla Camera, il federalismo sta assumendo le sembianze costituzionalmente più presentabili di regionalismo rinforzato. È stato riscritto il potere legislativo concorrente, attribuendo opportunamente allo Stato alcune materie (p.es. l’ordinamento della comunicazione e le grandi reti di trasporto), come ha raccomandato la più recente giurisprudenza costituzionale. È stato reintrodotto il principio dell’interesse nazionale, e con esso è stato previsto il principio della clausola di supremazia: un doppio ombrello a protezione degli eccessi e degli abusi regionali, che possano minare l’unità giuridica ed economica dello Stato.

Anche la devolution è stata meglio specificata. La polizia regionale è diventata “polizia amministrativa regionale e locale” (già prevista in una legge del 1998, n.112); la sanità regionale deve essere interpretata e modulata con le “norme generali sulla salute”, che sono di competenza esclusiva statale; l’istruzione, ovvero l’organizzazione scolastica, è già ora di competenza regionale, come riconosciuto dalla Corte costituzionale nella sentenza n.13 del 2004.

E così pure il premierato, che pareva dovesse essere “assoluto”, è invece, con le modifiche dell’ultima ora, ricondotto a un sistema che valorizza la combinazione primo ministro-maggioranza parlamentare su base elettorale, senza però irrigidire e ingessare la dinamica dei rapporti fiduciari tra governo e parlamento, mantenendo però il divieto a possibili “ribaltoni” in spregio al corpo elettorale. Sul punto, se si vuole veramente realizzare questo divieto, allora occorrerà mantenere un sistema elettorale maggioritario (ovvero a prevalenza maggioritario).

Queste modifiche, frutto degli emendamenti, si muovono in una buona direzione, sia pure significativamente riduttiva rispetto agli intenti originari. È una direzione però, che mi sembra abbia voluto mostrare una cosa importante: lo sforzo perché si giunga a una collaborazione ampia e pluralistica per fare le riforme della Costituzione. È chiaro, infatti, che la maggioranza ha ridotto il suo disegno riformistico per avvicinarlo a quello dell’opposizione. L’astensione della stessa al primo voto parlamentare sulle riforme è stato un segnale importante, per la Costituzione soprattutto. Sarebbe un peccato se la politique politicienne dovesse finire col prevalere. Sulle riforme costituzionali nessun girotondo, ma solo ragione e dialogo.

C’era una volta il federalismo. Piaceva a tutti, e tutti lo volevano. Qualcuno addirittura lo introdusse con legge, a Costituzione invariata; poi ci si accorse che così non era sufficiente, e nel 2001 si modificò la Carta costituzionale rivoluzionando il Titolo Quinto della stessa, che è dedicato all’organizzazione e funzioni delle autonomie territoriali. La riforma ebbe anche il consenso del corpo elettorale, espresso con il referendum. Messo alla prova però, quel federalismo si rivelò di difficile applicazione e causa di ripetuti contrasti. Alla Corte costituzionale cominciarono a piovere ricorsi da parte delle Regioni, che reclamavano il loro diritto a legiferare su materie che la Costituzione attribuiva in parte a loro e in parte allo Stato. Si tratta cioè della cosiddetta potestà legislativa concorrente, che le nuove norme costituzionali avevano dilatato a dismisura e senza un corretto criterio identificativo. Insieme alla confusione generata dalle materie concorrenti, e alla clausola dei poteri residui, si registrava la grave assenza di un luogo di compensazione politica tra Stato e Regioni, che fosse il Senato rinnovato nella sua rappresentanza degli interessi locali attraverso un forte collegamento con il territorio regionale.

C’era una volta la devolution. Piaceva a pochi ma la maggioranza parlamentare la fece sua. Addirittura in una prima versione, votata dalle Camere, la si introduceva in Costituzione per il tramite della sola aggiunta di un comma a un articolo costituzionale, con il quale si attribuiva alle Regioni il potere esclusivo di legiferare su Sanità, Istruzione e Polizia locale. Poi venne presentato un progetto governativo più ampio di riforma costituzionale, comprendente la forma di governo e le garanzie, e la devolution venne “spalmata” in un rinnovato contesto di poteri e funzioni delle Regioni, secondo cioè un nuovo modello di Titolo Quinto.

C’era una volta il premierato. Piaceva a molti e su di esso pareva esserci un consenso ampio. Poi alcuni ci hanno ripensato e lo hanno iniziato ad avversare minacciosamente (paventando scenari di dittature e di potere assoluto in capo a una sola persona). La maggioranza lo ha proposto come modello di forma di governo, affinché si mettesse su Carta costituzionale quello che già c’è di fatto: la nomina a primo ministro del leader dello schieramento vincitore alle elezioni, in modo tale da dare solidità e certezza a questo meccanismo e non rischiare così di tradire il pronunciamento elettorale (come è avvenuto nel dopo Prodi, con D’Alema e con Amato).

C’era una volta. Cosa è rimasto di tutto questo? La domanda non sembri leziosa, perché delle tre riforme costituzionali – federalismo, devolution, premierato – sembra esserci rimasto soltanto il nome. Non è una critica, anzi; è solo una presa d’atto. E in più una lezione sul metodo per fare le riforme costituzionali.

Nel nuovo progetto di riforma, emendato e in votazione alla Camera, il federalismo sta assumendo le sembianze costituzionalmente più presentabili di regionalismo rinforzato. È stato riscritto il potere legislativo concorrente, attribuendo opportunamente allo Stato alcune materie (p.es. l’ordinamento della comunicazione e le grandi reti di trasporto), come ha raccomandato la più recente giurisprudenza costituzionale. È stato reintrodotto il principio dell’interesse nazionale, e con esso è stato previsto il principio della clausola di supremazia: un doppio ombrello a protezione degli eccessi e degli abusi regionali, che possano minare l’unità giuridica ed economica dello Stato.

Anche la devolution è stata meglio specificata. La polizia regionale è diventata “polizia amministrativa regionale e locale” (già prevista in una legge del 1998, n.112); la sanità regionale deve essere interpretata e modulata con le “norme generali sulla salute”, che sono di competenza esclusiva statale; l’istruzione, ovvero l’organizzazione scolastica, è già ora di competenza regionale, come riconosciuto dalla Corte costituzionale nella sentenza n.13 del 2004.

E così pure il premierato, che pareva dovesse essere “assoluto”, è invece, con le modifiche dell’ultima ora, ricondotto a un sistema che valorizza la combinazione primo ministro-maggioranza parlamentare su base elettorale, senza però irrigidire e ingessare la dinamica dei rapporti fiduciari tra governo e parlamento, mantenendo però il divieto a possibili “ribaltoni” in spregio al corpo elettorale. Sul punto, se si vuole veramente realizzare questo divieto, allora occorrerà mantenere un sistema elettorale maggioritario (ovvero a prevalenza maggioritario).

Queste modifiche, frutto degli emendamenti, si muovono in una buona direzione, sia pure significativamente riduttiva rispetto agli intenti originari. È una direzione però, che mi sembra abbia voluto mostrare una cosa importante: lo sforzo perché si giunga a una collaborazione ampia e pluralistica per fare le riforme della Costituzione. È chiaro, infatti, che la maggioranza ha ridotto il suo disegno riformistico per avvicinarlo a quello dell’opposizione. L’astensione della stessa al primo voto parlamentare sulle riforme è stato un segnale importante, per la Costituzione soprattutto. Sarebbe un peccato se la politique politicienne dovesse finire col prevalere. Sulle riforme costituzionali nessun girotondo, ma solo ragione e dialogo.

Il Riformista, 28 settembre 2004