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L’emergenza Coronavirus ha cambiato repentinamente le nostre abitudini quotidiane e stravolto gli equilibri familiari e lavorativi di gran parte dei cittadini italiani. Crediamo sia utile, tanto dal punto di vista culturale quanto da quello sociale, riflettere un poi più a fondo su ciò che ci sta succedendo e, soprattuto, su quali insegnamenti potremmo portare con noi da questa esperienza. Proprio a questo scopo abbiamo chiesto ad alcuni amici della Fondazione, ciascuno con profili professionali differenti e di età diverse, di mandarci le loro considerazioni. Questa rubrica temporanea, che abbiamo pensato di intitolare CONTRA VIRUS, ci accompagnerà durante le settimane che ci separano dal ritorno alla “normalità”. Dopo le prime riflessioni di un giovane imprenditore, Marco Saccone, (disponibile qui) e il contributo scritto da Alessandra Faggian, Prorettore con Delega alla Ricerca del Gran Sasso Science Institute (GSSI) e Vice Presidente della Società degli Economisti Italiani (SIE) – (disponibile qui), ecco il terzo scritto del Prof. Giovanni Minnucci, Professore Ordinario di Storia del diritto medievale e moderno – Università di Siena.

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di Giovanni Minnucci, Professore Ordinario di Storia del diritto medievale e moderno – Università di Siena

Dopo tanti anni di insegnamento, e dopo aver ricoperto anche alcuni ruoli istituzionali all’interno della mia Università, pensavo di aver ormai attraversato così tante stagioni di vita professionale – alcune delle quali di non poca complessità – da potermi avviare tranquillamente, anche se manca ancora qualche anno, verso il termine di un’esperienza comunque entusiasmante. Avrei continuato a dedicare il mio tempo, com’è doveroso, allo studio, alla ricerca, all’attività didattica, memore di quella pagina di Odofredo che, riferita ad Irnerio, fondatore dello Studio bolognese, racchiude in sé l’essenza dell’insegnamento universitario: “…studendo coepit docere…”. Mai avrei pensato che la mia, la nostra vita, sarebbe stata stravolta. 

Dico subito, a scanso di equivoci, che questo non è l’incipit di inopportune lamentationes. Tutt’altro. Certo, eravamo abituati, a quella che con una brutta espressione viene definita la “lezione in presenza” mentre ora, con una altrettanto brutta dicitura dobbiamo “erogare lezioni on-line” o, se si preferisce, in e-learning; eravamo abituati al contatto umano con gli studenti, ad averli davanti agli occhi, a renderci conto del loro livello di attenzione, ad incontrarli in orario di ricevimento per suggerire loro letture ed approfondimenti; ora, siamo costretti a rivolgerci ad uno schermo nel quale appare il nostro volto – come se stessimo rivolgendoci a noi stessi – immaginando che lì davanti a noi ci siano quelle giovani e quei giovani che abbiamo avuto appena il tempo di vedere in aula i primi giorni di marzo, prima che le necessarie restrizioni ci costringessero a casa. Ancora: siamo costretti a colloquiare con le studentesse e con gli studenti sempre on-line e così a leggere e correggere papers, tesine e tesi di laurea; ma sono soprattutto loro, gli studenti, che letteralmente si arrabattano perché, non potendo accedere nelle nostre biblioteche, sono costretti a fare ricerca sulla base di ciò che la “rete” è in grado di fornire, col rischio, talvolta, di reperire anche testi che di scientifico hanno poco o nulla. La comunità universitaria si è così trasferita in un altro spazio, in un altro luogo: in un non-luogo. Nonostante ciò, e nonostante tutto, facendo di necessità virtù, con la buona volontà, con lo spirito di abnegazione di molti, con il senso di responsabilità e del dovere che la sta contraddistinguendo in tutte le sue componenti, questa Comunità continua a funzionare. Funziona perché in molti abbiamo imparato, finalmente, una verità molto semplice: e cioè che o se ne esce tutti insieme o il futuro semplicemente non ci sarà. È questa, secondo me, una delle lezioni che la storia sta dando a ciascuno di noi. E lo spirito di abnegazione, di sacrificio, uniti al rischio dell’incolumità personale, che sta caratterizzando l’azione di tutti coloro che operano in ambito sanitario e nel volontariato, sono un esempio altissimo non solo di senso del dovere, ma anche di senso della Comunità. Così come un ulteriore esempio lo stanno dando tutti coloro che operano nei numerosi e vari ambiti della vita sociale, produttiva ed economica i quali – anch’essi a rischio della propria incolumità – continuano a far funzionare quei servizi essenziali senza i quali la nostra vita quotidiana sarebbe impossibile.

Questa premessa, che ha preso necessariamente le mosse da un’esperienza personale e che di questa esperienza non vuole essere minimamente elogiativa, mi ha offerto lo spunto per una riflessione a più ampio spettro sul senso della Comunità. Le necessarie restrizioni alla nostra libertà personale dettate dalla straordinaria emergenza che stiamo vivendo – restrizioni finalizzate alla salvaguardia della nostra salute e di quella degli altri – ci fanno comprendere, almeno credo, altre due cose: il bene prezioso della libertà e la necessità vitale del rispetto della libertà altrui. In breve: il senso del bene comune. Tommaso d’Aquino avrebbe detto che “non vi può essere bene individuale senza il bene comune, o della famiglia, o della comunità politica” perché il rapporto unus homo-communitas è un rapporto fra l’imperfectum (homo) e il perfectum (la communitas). Ne consegue che se la Comunità, così come l’abbiamo intesa, è degna di questo nome, occorre qualche altro elemento affinché funzioni. Certo oggi c’è lo Stato, ci sono le sue Istituzioni, i suoi organi; è giusto pretendere che intervenga. Ma non basta. Occorre un altro elemento: la solidarietà, che è indubbiamente un valore umano e sociale, ma di cui siamo debitori innanzitutto alla tradizione cristiana. Un atteggiamento spontaneo – un fattore culturale verrebbe fatto di dire – che sta emergendo in ogni angolo del Paese e che, se possibile, deve essere messo in grado di diventare sempre più efficace, soprattutto nei confronti di quelle fasce della popolazione più deboli e indifese – e ve ne sono – di coloro cioè che già con difficoltà notevoli sbarcavano il lunario e che, in questa situazione, rischiano il dramma dell’indigenza. È questo il tempo della solidarietà e della sussidiarietà perché il nostro Stato di diritto non è il Leviatano, e non può intervenire su tutto. Comunità, solidarietà, sussidiarietà. Tre aspetti complementari della stessa realtà.

Tutto questo, ed è una nota dolentissima per chi è un europeista convinto, non mi pare stia accadendo nell’Unione europea. Si ha la sensazione – e in questo ci soccorre qualche risalente autore classico – che alcuni stiano facendo ricorso alla logica dell’utilità: dell’utilità immediata, senza uno sguardo “intelligente” alle conseguenze future. Mi permetto di proporre una similitudine come logica deduzione del discorso che ho sviluppato sopra.

Se ogni individuo basasse ogni azione sul proprio vantaggio immediato, senza prendere in considerazione gli altri uomini e la loro vita quotidiana, e che al contrario agisse in loro danno, ne scaturirebbero non solo la più grande confusione all’interno della società ma, alla lunga, una grande ingiustizia. Con esiti terribili, e reazioni facilmente immaginabili. Per ovviare a tutto ciò occorrono, come detto, senso della comunità, solidarietà e sussidiarietà. Analogamente, se ogni Stato badasse al proprio “particulare” immediato, senza gettare lo sguardo sul futuro, si genererebbero ingiustizie che, inevitabilmente, si ritorcerebbero nel lungo periodo anche contro chi le ha generate. E si assisterebbe, contestualmente alla fine di un sogno: a quel sogno europeo – mi sia consentito circoscriverlo alla luce della situazione attuale – che, nello spirito dei padri fondatori, avrebbe dovuto garantire al Continente pace e prosperità. Non per nulla per lungo tempo abbiamo fatto riferimento alla Comunità europea. 

Oggi – e volutamente mi riferisco al Vecchio Continente – non abbiamo bisogno di semplici uomini di governo, ma di statisti. Di uomini e donne che agiscano subito, e che abbiano contestualmente uno sguardo “intelligente” rivolto al futuro: al futuro più lontano. Un futuro che non può non dipendere da quel che occorre fare: qui e ora! Il tempo sta per scadere.

Se ve ne siano – e ce lo auguriamo – ce lo dirà la storia.