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L’emergenza Coronavirus ha cambiato repentinamente le nostre abitudini quotidiane e stravolto gli equilibri familiari e lavorativi di gran parte dei cittadini italiani. Crediamo sia utile, tanto dal punto di vista culturale quanto da quello sociale, riflettere un poi più a fondo su ciò che ci sta succedendo e, soprattuto, su quali insegnamenti potremmo portare con noi da questa esperienza. Proprio a questo scopo abbiamo chiesto ad alcuni amici della Fondazione, ciascuno con profili professionali differenti e di età diverse, di mandarci le loro considerazioni. Questa rubrica temporanea, che abbiamo pensato di intitolare CONTRA VIRUS, ci accompagnerà durante le settimane che ci separano dal ritorno alla “normalità”. Di seguito il primo contributo: Buona lettura!

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di Marco Saccone, Managing Director Sales, Marketing & Business Development – Olimpia Splendid S.p.A.

E’ venerdì 21 Febbraio, ore 14. Sono a tavola con alcuni colleghi. Spesso il venerdì pranziamo in una trattoria a conduzione familiare, la mamma in cucina aiutata dalla figlia, il papà che fa la spesa al mercato e serve ai tavoli. Mi piace molto venire qui, il pranzo è di ottima qualità e ammiro il modo in cui questa famiglia ha organizzato la propria vita intorno alla loro attività imprenditoriale. Non credo che abbiano mai fatto un budget o una conference call, ma mandano avanti la casa con buon senso, competenza e grande diligenza. 

Durante il pranzo non troviamo grande tregua, si finisce sempre per parlare di lavoro, le scadenze, i concorrenti, i costi, il prodotto, i clienti, i servizi, i colleghi, l’organizzazione….D’altronde, siamo bresciani…lavorare per noi è come vivere.

Come troppo spesso ormai mi accade mi distraggo e prendo il telefono per guardare la Borsa…sono preoccupato per l’andamento del reais brasiliano che si sta svalutando a ritmo folle da quando, due anni fa, abbiamo deciso di insediarci con una filiale commerciale. Ma la prima pagina del Sole24Ore però non parla di borsa, ma del primo caso di Coronavirus in Italia. 

A Caldogno, nel Lodigiano. A 68 km da qui. 

E’ già un mese che abbiamo a che fare con questo coronavirus e fino ad oggi l’ho considerato alla stregua di uno dei tanti problemi che ogni giorno dobbiamo affrontare. Da quanto è apparso a Wuhan, le forniture internazionali si sono bloccate e molti dei miei fornitori di componenti hanno subito ritardi pesanti che hanno avuto effetti anche sulle nostre produzioni qui in Italia. Ma fino ad allora, per quanto complesso, è stato solo un problema di approvvigionamento.

Ora il virus è qui, ed il problema comincia ad assumere una dimensione diversa. 

Il primo pensiero istintivamente riguarda i miei affetti e, ammetto, non senza una certa vergogna, me stesso. Conosco qualcuno nel Lodigiano? Potrei essere entrato in contatto con persone provenienti da quell’area? Viaggio molto per lavoro e la preoccupazione più grande è nei confronti dei miei bambini e di mia moglie. Tengo gli occhi fissi sullo schermo del telefono, clicco sul tasto refresh almeno un milione di volte e in meno di qualche minuto i casi riportati sono sei… Capisco che la situazione è seria. 

Il secondo pensiero va all’azienda, ai nostri collaboratori: avremo dei danni economici? E i mei clienti e i fornitori cosa faranno? Come faremo a garantire la sicurezza e la salute di tutti?   

Come spesso mi accade in situazioni di grande pressione la mia mente comincia a produrre scenari, un’attività frenetica nel tentativo di prevedere il futuro per attrezzare di conseguenza il presente. D’altronde questo è quello che facciamo ogni giorno. 

Passo all’azione: annullo immediatamente un viaggio imminente per me e un collaboratore, scrivo una mail ai responsabili delle filiali estere e ai commerciali pregandoli di annullare gli appuntamenti, i viaggi della settimana successiva e di attendere indicazioni aziendali a riguardo. 

Convoco per il pomeriggio un comitato di gestione per decidere come muoverci: stabiliamo procedure straordinarie di sicurezza e d’igiene, ordiniamo mascherine e gel igienizzante in quantità, chiudiamo l’azienda agli esterni, facciamo una analisi delle scorte e individuiamo eventuali carenze, diamo il via a un progetto di back-up produttivo e di approvvigionamento. 

E’ ormai sera, sono soddisfatto dell’energia con cui abbiamo affrontato il problema, sono sollevato dall’impegno e dall’ottimismo dei miei colleghi e fiducioso che le misure studiate garantiranno la continuità della nostra attività in regime di sicurezza. Passo il sabato cercando di mantenere un atteggiamento positivo, analizzando i dati che la stampa furiosamente pubblica, ascoltando esperti, politici, epidemiologi, dottori, cercando di mantenere un certo distacco dalle opinioni di tutti e confrontandomi con i miei colleghi. 

Con il passare delle ore però la situazione degenera, il numero di contagiati aumenta esponenzialmente e diventa pian piano chiaro che il coronavirus non è solo un evento passeggero, ma un elemento sistemico con una forza propulsiva straordinaria. 

Apprendo dalla radio mentre guido verso casa che il governo ha isolato alcune province del lodigiano, sul modello di Wuhan ha creato una red-zone dalla quale non si può né entrare né uscire, all’interno della quale c’è il divieto di circolazione e sono bloccate le attività produttive. 

Prendo il telefono, è Sabato, i miei mi odieranno, ma la situazione è eccezionale, recupero il cellulare della nostra direttrice degli acquisti… “ Pronto?….” “Ehi…hai visto han chiuso Lodi….” Lei capisce subito…”no….” . “Abbiamo due fornitori in quell’area, credo siano gestiti in just in time, potremmo avere a terra forse due giorni di scorte e poi le linee sono ferme”…Chiamo a raduno tutti e ci mettiamo lavoro. Acquisti, Fabbrica, Qualità e Ricerca & Sviluppo, insieme alla ricerca di una soluzione che eviti il fermo. Fermarsi non è un’opzione: ci sono contratti da rispettare, scadenze da onorare e penali, in alcuni casi, anche pesanti. 

Mi colpisce l’energia e la creatività che le persone mettono a disposizione, ma ciò che mi colpisce ancora di più è l’armonia che si crea nel gruppo. 

L’emergenza è grande, la paura a tratti mi paralizza, siamo frustrati dai mille problemi e impedimenti, ma tutti sono concentrati e lavorano sodo, gomito a gomito e man mano che ci confrontiamo l’energia si moltiplica, i problemi diventano opportunità, i limiti nuove soluzioni. In poco tempo le idee arrivano, vengono vagliate, studiate e spesso bocciate. Alla fine però, grazie anche alla collaborazione del fornitore che ci ha messo a disposizione una sede produttiva fuori da Lodigiano, troviamo una soluzione. La produzione può continuare. 

Questi giorni sono molto particolari, ma come sempre nelle avversità si trovano molti insegnamenti. 

Sono profondamente colpito dalla resilienza dei miei colleghi: il moltiplicarsi dell’energia, la forza del gruppo, questo senso di appartenenza che sembra aumentare le nostre difese, mi da entusiasmo e mi fa sentire parte di qualcosa più grande di me. Il lavoro del gruppo, la creatività degli altri, l’empatia che si crea ridà la giusta dimensione al mio ego di giovane manager abituato a pensare di poter cambiare il mondo. In un certo senso mi consola. Mi fa venire in mente una considerazione dell’economista e amico Marco Vitale. Nel bellissimo libro Passaggio al futuro, individua nell’aristocratizzazione delle élite imprenditoriali e del top management una delle malattie degenerative del capitalismo. Questa generazione di maschi-alfa- superstar che nelle posizioni comando, prendono indebitamente più di ciò che realmente danno. Penso che forse questo evento scioccante farà riflettere il mondo dell’impresa e della finanza dove questo fenomeno è particolarmente evidente. D’altra parte il coronavirus, come gli shock economici e le crisi globali è molto democratico: colpisce tutti, ma soprattutto mette a nudo in maniera violenta quanto i nostri destini siano interconnessi. A tutti i livelli. Ci riporta alla realtà: da soli non siamo nulla, e questo innamoramento occidentale per questa figura mitica dell’uomo forte al comando, che con le sue decisioni e il suo intuito produce successo, potrà essere rivisitata a favore di una più pacata visione di imprenditore come gestore di uomini, come costruttore di comunità all’interno delle quali si sviluppa l’uomo. 

Inoltre non posso fare a meno di pensare a quanto diamo per scontato al mondo d’oggi. 

Ogni mattina mi alzo e:

do per scontato che un lavoratore di Wuhan si rechi al lavoro e monti alcuni circuiti su un pezzo di silicio; 

do per scontato che quel pezzo venga imballato da un altro lavoratore e che un corriere la mattina si rechi nella tal fabbrica per caricare quel pezzo di silicio all’interno di un container e portarlo al porto più vicino; 

do per scontato che un portuale di Shanghai o Guanzhou svolga il suo lavoro a puntino e permetta a quel pezzo di silicio di arrivare in Italia grazie ad una compagnia di trasporti internazionale che, sfidando i mari e i rivoli delle burocrazie doganali consegni il pezzo di silicio fino alla linea produttiva del mio fornitore di Lodi;

do per scontato che un lavoratore di Lodi la mattina si svegli e si presenti in fabbrica e monti quel pezzo in un motore che i miei ingegneri hanno disegnato perché sia perfetto e do per scontato che un altro corriere me lo recapiti, pronto per essere montato, sulla mia linea di produzione proprio quando ne ho bisogno, non un giorno prima, non un giorno dopo. 

Questa macchina globale incredibilmente razionale ha fatto cilecca, non per un errore umano, non per un malfunzionamento, ma per un evento del tutto imprevedibile. E questo è un altro grande insegnamento per la gestione d’impresa: le aziende di oggi, globalizzate ed interconnesse, devono includere nella prassi di buona gestione la fragilità che questa interconnessione comporta. L’azienda dev’essere patrimonialmente solida, finanziariamente solida, deve avere una chiara vocazione e dei valori condivisi, deve sapere con chiarezza “perché” è sul mercato. Nei momenti di crisi perdersi è molto semplice. Così mi interrogo: abbiamo un team forte? Il nostro patrimonio e la nostra finanza sono adeguati? La nostra vision è sufficientemente salda?

Con questi pensieri nella testa mi reco al lavoro nei giorni in cui l’Italia fa finta di nulla, forse perché rifiuta il problema, forse perché l’uomo è fatto così: fino a quando il problema non lo tocca direttamente non ne percepisce la presenza. Ed è proprio una di queste mattine che, durante una conference call con alcuni colleghi Australiani, vengo a sapere che c’è un nuovo focolaio di contagi in alcune zone della Bergamasca. 

Devo ammettere che quello è stato il momento della vera consapevolezza, almeno per me. Ho sempre avuto paura che il virus si potesse estendere ulteriormente, ma ho sempre avuto la speranza che la red-zone di Lodi potesse risultare efficace nel contenimento. 

In quel momento qualcosa ha fatto click. Non ricordo ancora i numeri esatti ma si era circa a 2.500 – 3.000 contagi e nelle chiacchere da bar si diceva ancora che sarebbe morto solo qualche vecchietto…Per me è stato evidente: questo non è un’influenza di stagione, questa è un’epidemia, un evento straordinario che avrà effetti profondi su tutta Europa, forse su tutto il mondo. Questo è un cigno nero. 

Tutte le procedure di sicurezza e igiene che abbiamo varato fino adesso non sono più sufficienti. Tra qualche settimana i contagi saranno il doppio o il triplo, gli ospedali saranno in crisi e il rischio di contagio sarà enorme. Sono sconfortato. Tutto quello che abbiamo fatto fino ad ora non basta e il rischio che qualcuno di noi si ammali o che la nostra attività venga bloccata sta aumentando enormemente. In questi momenti mi sento solo. Anche se ho la fortuna di essere affiancato da mio padre che ha gestito con successo questa attività per più di trent’anni e negli anni abbiamo creato un team di manager competenti e responsabili. Ma mi sento solo. Tutta la consolazione del lavoro di squadra dei giorni passati svanisce in poco meno di qualche minuto non appena mi rendo conto che il livello di avversità che dovremo affrontare è ancora più elevato. Mi accade spesso devo dire, e in questi momenti l’unica cosa che trovo efficace è lavorare ancora più duramente. E così faccio. Convoco il comitato di gestione, raduniamo i documenti dei nostri legali, i suggerimenti dei ministeri, mettiamo sul tavolo le nostre idee. Sono demoralizzato, la mia mente è lontana persa nell’autocommiserazione e nell’angoscia, faccio fatica a concentrarmi, non sono nel momento. Ma non i miei collaboratori e non mio padre che mi chiama ogni poche ore, mi consiglia, mi stimola e come al solito mette sul piatto esperienza e un’infinità di idee. E’ grazie alla loro forza che recupero l’energia che mi serve per tornare sul pezzo. Decidiamo di acquistare qualche decina di laptop portatili per tutti i colleghi che possono lavorare da casa, con il dipartimento di informatica reclutiamo 4-5 tecnici full time e li mettiamo a lavorare per configurare connessioni, deviazioni di chiamata, collegamenti e programmi con l’obiettivo di creare delle postazioni remote funzionali al lavoro di tutti. L’obiettivo principale è ridurre l’esposizione al contagio dei nostri collaboratori, anche quelli che lavorano in fabbrica: acquistiamo i termometri per provare la febbre all’inizio del turno lavorativo, dividiamo la mensa su 3 turni, decidiamo la chiusura degli spogliatoi e forniamo le mascherine e le dotazioni antinfortunistiche la sera pregando tutti di arrivare già cambiati al mattino. Irrigidiamo i protocolli d’igiene esistenti al dipartimento logistica, affittiamo 2-3 autovetture per coloro che si recano al lavoro con i mezzi pubblici. Dobbiamo salvaguardare la salute dei colleghi di cui abbiamo la responsabilità e contemporaneamente garantire la continuità della nostra attività. Comincio a pensare che questo sforzo collettivo sia davvero un’occasione di crescita per noi, per la nostra abilità gestionale, ma soprattutto per il nostro sviluppo come persone. E mi ritrovo di nuovo attivo e pieno di energia, seppur in una situazione così grave, recupero fiducia. 

Una sera nel rientrare verso casa con la radio che malinconicamente fa il conto dei contagiati e dei decessi come fosse un bollettino di guerra, penso a questo concetto della fiducia. A quanto sia importante nella vita di una persona e di una comunità. Senza fiducia non accadrebbe nulla. E mi chiedo da dove venga questo sentimento profondo che si sente così forte nella mia azienda. Vorrei capire da dove nasce, come alimentarla, perché ammetto, a parte la passione e la dedizione che la mia famiglia ci mette da alcune generazioni, i buoni risultati in tanti anni di gestione non saprei proprio identificarne la fonte. Non può dipendere solo da impegno e bilanci positivi. Mi rispondo che probabilmente viene dalla responsabilità. Dalla responsabilità di tutti i nostri uomini e donne e mi torna in mente la famosa frase di Karl Popper: “Noi possiamo fare qualcosa per il futuro. Forse possiamo fare poco, ma ciò che possiamo fare, dobbiamo farlo”. E questo è un dovere imprenditoriale, manageriale e di tutti gli stakeholders. E questo pensiero mi riporta ancora una volta alla vera essenza dello spirito d’impresa, nella definizione più sintetica e bella che ho ritrovato in un libro di Marco Vitale: l’impresa è uno strumento operativo per il progresso collettivo*. 

Purtroppo mentre scrivo la situazione è ulteriormente degenerata. I contagiati hanno sorpassato i venti mila, gli ospedali della Lombardia sono al collasso, la mia città Brescia è la seconda provincia per contagi e la situazione economica è drammatica dopo la decisione del governo di chiudere le attività in tutta Italia. La nostra attività prosegue piuttosto efficacemente con lo smart-working e con i più elevati standard di sicurezza per le persone che lavorano in fabbrica nella quale abbiamo ridotto i turni e previsto una serie di interventi di sterilizzazione con trattamenti all’ozono. Tuttavia, l’effetto delle chiusure comincia a mordere: le borse mondiali sono collassate, bruciando miliardi di capitalizzazione, Milano ha fatto segnare il peggior decremento nella sua storia. Nemmeno il crack di Lehman Brothers, che ha inaugurato la crisi finanziaria del 2008, ha avuto un effetto così forte. 

Il livello di avversità si è elevato ulteriormente. Ma l’avversità crea progresso perché mette a nudo la debolezza dei singoli e la limitatezza umana e contemporaneamente ci sprona ad essere responsabili e a ritrovarsi negli altri, a creare le condizioni per lo sviluppo umano del quale l’impresa è una strumento imprescindibile.

*M Vitale, L’impresa Responsabile, ESD Edizioni 2014