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Ricorre in questi giorni il decimo anniversario dell’inizio della “peggiore crisi finanziaria della storia globale, inclusa la Grande Depressione”. Così la definì l’allora presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, ad appena un anno dal crack, suscitando non poche polemiche. Oggi, un decennio dopo, la valutazione di Bernanke è comunemente accettata mentre quello che è accaduto nel 2008 dovrebbe servire come monito della portata e della velocità con le quali le crisi finanziarie globali possono manifestarsi nel ventunesimo secolo. La storia delle origini della crisi finanziaria è nota. I problemi iniziano già nel 2007 con una contrazione dei mercati immobiliari europei e statunitensi: caduta dei prezzi delle case dalla California all’Irlanda, proprietari di case che rimangono indietro nel pagamento delle rate dei mutui e istituti di credito che entrano, così, in difficoltà. L’integrazione globale dei mercati bancari, dei titoli e dei finanziamenti, è tale che il contagio si diffonde rapidamente alle principali istituzioni finanziarie di tutto il mondo. Alla fine del 2008, le banche in Belgio, Francia, Germania, Irlanda, Lettonia, Paesi Bassi, Portogallo, Russia, Spagna, Corea del Sud, Regno Unito e Stati Uniti sono tutte vittime di crisi “esistenziali”. Molte erano già crollate e molte altre sarebbero crollate in breve tempo.

La Grande Depressione degli anni ’30, il più grande disastro economico della storia moderna fino allora visto, era dovuta, in gran parte, a risposte politiche inefficaci. Molte banche, anche in quella crisi, fallirono, ma si trattò di fallimenti spalmati tra il 1929 e il 1933 e che riguardarono bilanci di gran lunga più piccoli. Al contrario, nel 2008, sia la scala che la velocità dell’implosione è impressionante. Secondo i dati della Bank for International Settlements, i flussi di capitali lordi in tutto il mondo sono crollati del 90 per cento tra il 2007 e il 2008. L’esaurirsi dei flussi di capitali trasforma rapidamente la crisi in una schiacciante recessione dell’economia reale. Assistiamo al “grande crollo commerciale” del 2008, alla contrazione più grave mai registrata nel commercio internazionale. In  nove mesi, nell’aprile 2008, le esportazioni globali diminuiscono del 22 per cento. Durante la Grande Depressione, sono stati necessari due anni perché il commercio crollasse di un importo simile. Negli Stati Uniti, tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009, 800 mila persone perdono, ogni mese, il lavoro. Entro il 2015, oltre nove milioni di famiglie americane perdono le loro case. In Europa, nel frattempo, le banche in fallimento e le finanze pubbliche fragili creano una crisi che divide nettamente in due la zona euro.

Dieci anni dopo, non c’è unanimità sul significato da attribuire a quel 2008 e alle sue conseguenze. Emergono analisi parziali per evidenziare questo o quell’aspetto della crisi, mentre elementi cruciali vengono dimenticati. Così, mentre negli Stati Uniti, si è puntato l’indice sulla spericolatezza del governo e sulla criminalità privata, in Europa, si è data la colpa agli americani.

Possiamo però affermare che ciò che ha trasformato il 2008 nella peggiore crisi bancaria della storia sia stato il modello di business delle banche e delle società finanziarie, che la fase precedente alla crisi, quella della globalizzazione vincente, aveva imposto. Tradizionalmente, la maggior parte delle banche aveva finanziato le proprie operazioni attraverso “retail” bancario, in base al quale, consumatori e famiglie prestano denaro alle banche sotto forma di depositi che le banche usano per concedere credito. A partire dagli anni ‘80 le banche di tutto il mondo si sono mosse, sempre più, verso operazioni bancarie “all’ingrosso”, finanziando le proprie attività tramite prestiti a breve termine di altre istituzioni finanziarie, altre banche e fondi del mercato monetario spinte dalla ricerca di maggiori profitti e dalla concorrenza.

Questi finanziamenti se hanno dato alle banche la possibilità di prendere in prestito somme di denaro molto più ingenti di quelle che potevano nel mercato al dettaglio, le hanno però rese più indebitate e, quindi, più che mai esposte al rischio. In più, gran parte del finanziamento a breve di queste banche ha comportato forti disallineamenti valutari. Infatti, negli Stati Uniti, le banche non statunitensi entravano in possesso di ingenti quantità di dollari attraverso metodi diversi: prendendo in prestito denaro non garantito da fonti statunitensi, emettendo carta commerciale e, in particolare, utilizzando i mercati dei cambi di valuta per ricevere prestiti in dollari a breve termine in cambio delle proprie valute locali, con la promessa di “scambiare” le valute alla fine della durata del prestito. In breve, le banche estere stavano accumulando considerevoli debiti che dovevano essere pagati in dollari. Nel momento in cui i mercati monetari in cui hanno ottenuto questi dollari cessano di funzionare, quelle banche globali entrano immediatamente a rischio fallimento. Ed è, esattamente, quello che accade. La prima grande banca a fallire in modo spettacolare è la Northern Rock, istituto bancario specializzato in credito immobiliare, tra agosto e settembre del 2007. Non aveva esposizione ai mutui subprime americani, ma il suo modello di finanziamento si basava in modo schiacciante sul prestito da tutto il mondo. L’annuncio del 9 agosto da parte di BNP Paribas che impedisce alla Northern Rock un ulteriore accesso ai finanziamenti, diventa un segnale agli istituti di credito all’ingrosso che più banche detengono attività “cattive”. Con l’estensione del contagio i prestiti all’ingrosso si fermarono. Cinque giorni dopo, Northern Rock informa i regolatori britannici che avrebbe avuto bisogno di assistenza. La chiusura dei finanziamenti bancari si diffonde rapidamente attraverso il sistema finanziario globale, arrivando alla Russia e alla Corea del Sud, Paesi lontani dalla debacle dei subprime ma le cui banche si erano affidate agli stessi mercati finiti sotto stress. Il mondo assiste attonito ad una corsa bancaria transnazionale da un trilione di dollari.

L’anno 2008 può, quindi, essere considerato come un anno di svolta. Da un lato, segna la crisi globale del ventunesimo secolo. D’altra la liquidazione del legame straordinariamente stretto tra gli Stati Uniti e la finanza europea che aveva caratterizzato gli anni ‘90 e i primi anni di questo secolo. Ma, contemporaneamente alla deglobalizzazione della finanza europea, i mercati emergenti sono finiti al centro dell’attenzione grazie anche alla finanza a basso costo favorita dalla politica della Fed di bassi tassi di interesse che ha risucchiato i mercati emergenti in un profondo intreccio con il sistema finanziario degli Stati Uniti. La prossima crisi sarà dunque nei Paesi oggi emergenti? Con gli stessi meccanismi di quella passata? L’economia globale, la prossima volta, riuscirà a salvarsi?

Prima di rispondere a queste domande dovremmo, però, interrogarci sullo stato reale dell’economia e domandarci se, effettivamente, quella crisi, si possa considerare archiviata. La realtà e i fatti documentano lo stato di un’economia con “le spalle al muro”, incapace di reagire. Se, infatti, prendiamo ad esempio l’Italia, a luglio l’indice della produzione industriale  ha registrato un calo dell’1,3% in termini tendenziali, una variazione negativa che non si evidenziava da circa due anni e che rappresenta il risultato peggiore degli ultimi tre anni. D’altronde, che l’andamento dell’economia sia in rallentamento lo dimostra anche la dinamica del Prodotto Interno Lordo, il cui tasso di crescita tendenziale è progressivamente sceso dal terzo trimestre del 2017 e che, nel terzo trimestre di quest’anno, si stima dovrebbe aumentare solo dell’1 per cento. Uno stato che, prendendo in prestito un termine medico, possiamo definire di “ipossiemia cronica”. Anche in questo caso il paragone con il passato potrebbe aiutare a fare luce sul presente. Nelle Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia dello scorso anno, un grafico (pag. 30, fig. 4) – che qui riportiamo e sarebbe utile stampare, incorniciare e tenere sempre ben in evidenza – mostra l’andamento del PIL in Italia nei dieci anni della “grande depressione” (1929-1938) e quello nella “grande recessione” (2007-2016). E’ del tutto evidente che siamo ben lontani dal poter affermare di essere fuori dalla crisi. Siamo ancora distanti anni luce da una ripresa accettabile. Le politiche restrittive e il continuo richiamo ad ipotetiche “riforme” anziché ad una sana politica economica hanno determinato una dispnea che si sta cronicizzando e dalla quale è urgente uscire il prima possibile.

*  Segretario Generale Associazione Nazionale fra le Banche Popolari