Privacy Policy Cookie Policy

 

Ivano Argentini, Cardiologo; Donatella Balducci, Anestesista-rianimatore; Carlo Bellieni, Intensivista neonatale; Nunzia D’Abbiero, Radioterapista; Giovanni Battista Guizzetti, Geriatra e gerontologo; Marco Maltoni, Palliativista; Debora Meloni, Psichiatra; Nicoletta Mininni, Neuropsichiatria infantile; Roberto Romanelli, Internista epatologo; Giuliana Ruggieri, Chirurgo

La toccante vicenda di Piergiorgio Welby solleva angoscianti dilemmi morali e seri problemi medici su cui, come specialisti, ci stiamo interrogando.
Quando all’interno di una relazione così particolare come è quella tra medico e paziente, si pone una richiesta di morte significa che qualcosa, qualcosa di fondamentale, è venuto meno.
La domanda di morte è in se stessa contraddittoria, e riteniamo riduttivo ricondurla semplicemente alla categoria della libera autodeterminazione. Quella del malato è una condizione fisica e psicologica di fragilità e affidamento, densa di richieste spesso inespresse, mascherate, a volte inconsapevoli. Sappiamo, per la nostra specifica esperienza professionale e basandoci sugli studi clinici a disposizione, che l’autonomia del paziente è gravemente inficiata da fattori interni quali la depressione o l’angoscia di morte, e fattori esterni quali il tipo di sguardo che viene rivolto al paziente dai familiari, dagli amici, da chi lo assiste.
Cosa sia venuto meno nel caso di Piergiorgio Welby, non possiamo dirlo, non conoscendone la storia personale, i vissuti e la cartella clinica, ma al medico alcune riflessioni si impongono, dal momento che altre persone, in condizioni di malattia simili o anche più pesanti, non fanno la stessa richiesta.

Ci pare di capire che la richiesta non provenga da un pressante e perdurante dolore fisico: in questo caso sarebbe compito del medico curante, che certamente ha provveduto in tal senso, fornire tutti gli strumenti farmacologici oggi esistenti ed assolutamente efficaci, per contrastarlo. Ma non sembra essere questo il problema.
Da quanto leggiamo sulla stampa, e dagli scritti di Piergiorgio Welby, la richiesta di morte nascerebbe da una stanchezza interiore, da un’insopportabilità morale e psicologica della propria malattia.

1 – Per questo ci chiediamo: sono stati messi in opera tutti gli interventi per fornire un ambiente adeguato? L’assistenza a un malato cronico è facilitata in strutture e ambienti stimolanti, come una stanza non angusta, colorata, con un arredo funzionale e allegro. Tutto ciò sarebbe essenziale in un qualunque centro di cure per persone affette da patologie croniche.

2 – Ci chiediamo inoltre se sia stato offerto un qualificato aiuto psicologico e una doverosa consulenza per valutare se alla base della richiesta di Welby ci sia una patologia depressiva. Sappiamo che questa è presente in moltissimi casi di malati gravi che chiedono la morte. La depressione viene diagnosticata ancora troppo raramente in questi pazienti, ma va detto che può e deve essere curata. Una richiesta di morte fatta in uno stato depressivo non sarebbe, ovviamente, una richiesta libera.

3 – Ci chiediamo poi se l’ambiente relazionale in cui si trova a vivere Piergiorgio Welby sia umanamente stimolante; se sia inoltre incoraggiante ad uno sguardo su di sé che non lo riduca ad essere un simbolo, l’incarnazione di un “caso” o di una malattia.

4 – Ma su Welby è stato esercitato il cosiddetto accanimento terapeutico? Il termine nasce da un giusto desiderio di stigmatizzare un comportamento errato di proseguimento di cure inutili, ma è intraducibile in inglese, cioè nella lingua in cui circola la grande massa di informazioni scientifiche e mediche sulla questione. La dizione “accanimento terapeutico” nella nostra lingua fa supporre che esistano medici che per motivi non chiari cercano volontariamente di prolungare le sofferenze di un malato.
Crediamo piuttosto, seguendo la letteratura anglosassone, che sia più chiaro distinguere tra trattamento futile e utile, assumendo quindi un esplicito criterio di proporzione. Il primo è da evitare, il secondo è obbligatorio per il medico. Dare un antibiotico o fare un trapianto cardiaco a chi sta morendo di cancro entro brevissimo tempo è futile. Dare un supporto respiratorio a chi non sta morendo e ragiona in modo perfetto è utile, dunque doveroso. Questo è il caso di Piergiorgio Welby, che, a quanto ne sappiamo, non è un malato terminale: se cioè si sospendesse la somministrazione di acqua, cibo e aria, l’interruzione delle cure (e non la malattia) costituirebbe la causa della morte di Welby, che ha una vita personale fortemente tessuta di relazioni e ricca di consapevolezza.

5 – Si obietterà che Welby non desidera quel trattamento, ma sospenderlo per farlo morire è un atto medico? Ci si può certamente appellare alla libertà di cura: il paziente ha sempre, in qualunque momento, la libertà di rifiutare un trattamento. Nel momento, però, in cui si attribuisce la decisione sulla vita e la morte esclusivamente al malato, esaltandone l’autodeterminazione, appare del tutto superfluo ricorrere alla professionalità del medico, soltanto come esecutore di una sentenza di morte. Spegnere un interruttore per far morire una persona non è un atto medico e può farlo chiunque: perché volere uno specialista per spingere un bottone, perdipiù mortale? Neanche per somministrare il sedativo per via orale richiesto da Welby come “sedazione terminale” serve necessariamente un atto da parte del medico. Ma il medico ha un compito meramente esecutivo? Può essere chiamato solo per applicare una decisione del paziente, senza nessuna interazione con quest’ultimo?

In conclusione, prima di sancire che qualcuno sta liberamente chiedendo la morte è assolutamente necessario accertarsi che sia stato effettuato un corretto intervento medico a tutto campo: ambientale, sociale, psichiatrico, psicologico e analgesico, per capire senza possibilità di equivoco e di dubbio se non siano motivi esterni superabili che impongono alla volontà una decisione fatale. Infine, dare la morte non può essere annoverato tra gli atti medici.