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Grandi aspettative sono state poste negli ultimi venti anni sulla cosiddetta new economy trainata da Internet e dalle tecnologie dell’informazione (ICT).  Essa è stata addirittura definita, anche se in modo inappropriato, Terza Rivoluzione Industriale. Ci si era immaginato infatti di essere alla vigilia di cambiamenti radicali nell’economia e nella società.

Oggi, è vero, il nostro modo di comunicare e trascorrere il tempo libero è profondamente cambiato, grazie alle email, agli smartphone, ai tablet e ad altre innovazioni di questo genere. Non sembra tuttavia essersi verificato molto di più, in particolare niente di significativamente positivo.

Stiamo vivendo difatti una lunga fase di ristagno economico che ha riportato indietro di decenni non solo i redditi della maggior parte degli abitanti dei paesi industrializzati, ma ha provocato anche tassi molto elevati di disoccupazione mentre i divari tra le classi sociali si sono ampliati dopo un lungo periodo di progressiva convergenza.

Che ruolo ha giocato in questo peggioramento dell’economia, oltre che delle nostre condizioni di vita e di lavoro, la new economy? E cosa dovremmo da lei aspettarci per il prossimo futuro? Potrà aiutarci ad uscire dalle secche in cui ci troviamo arenati?

Difficile dirlo, in realtà da abbastanza poco tempo si sta indagando in queste direzioni.

Seguendo tali interrogativi e con l’intento di fornire del materiale preliminare per favorire ulteriori e più approfondite analisi, vengono qui descritti i profili di tre gruppi che più di altri rappresentano la new economy e l’era di Internet: Google, Amazon e Facebook.

L’intento è quello di esaminare con un minimo di dettaglio le loro attività e le loro strategie alla ricerca di segnali che ci possano far intendere cosa la new economy ha comportato, come opera e quindi indirettamente, quale influenza potrà esercitare sui futuri assetti economici e sociali.

 

Google: Ancora Alla Ricerca del Proprio Futuro

Quando nell’ agosto del 2015 è stata annunciata la costituzione di Alphabet, la holding che ha assunto il governo di Google e delle altre società da essa controllate, a molti è sfuggito come questa decisione rappresentasse una curiosa nemesi storica. Verso la fine degli anni novanta la finanza e unanimemente le più grandi società di consulenza mondiali infatti, avevano celebrato la morte delle conglomerate, perché troppo diversificate, presenti in business tra loro differenti e non correlati, considerate dunque meno efficienti delle aziende mono-prodotto. Si era così scatenata la corsa ai break up che avrebbe alimentato l’insorgere di una finanza più aggressiva: dai fondi di private equity impegnati a spartirsi imperi in disgregazione, agli analisti finanziari che vedevano moltiplicarsi l’elenco delle aziende quotate a cui imporre le proprie aspettative stringenti. Non più strategie a lungo termine e diversificazione di portafoglio ma risultati a breve, da dare in pasto a masse di investitori in attesa della scadenza di ogni quarter per vendere o comprare.

Ed ecco che Google, l’azienda diventata il simbolo del nuovo millennio, crea una conglomerata per, come affermano Larry Page and Sergey Brin: keep tremendous focus on the extraordinary opportunities we have inside of Google [1]. “Ritorno al passato” verrebbe da dire.

Google (o meglio, la sua parent company Alphabet) ha chiuso il 2015 con un fatturato di settantaquattro miliardi di dollari ed è seduta su un cash flow di oltre sessantaquattro miliardi di dollari.

L’azienda definisce così il suo core business: “generate revenues primarly by delivering online advertising that consumers find relevant and that advertisers find cost -effective.”[2]

Tale attività di vendita pubblicitaria, come noto, trae origine da un motore di ricerca progettato dai fondatori di Google, i cui principi costitutivi sono stati messi a punto mentre entrambi studiavano all’Università di Standford. [3] Da quella piattaforma iniziale molto si è evoluto, sempre con l’obiettivo principale di accrescere le proprie quote di mercato nell’advertising.

Steve Faktor, un brillante blogger americano sintetizza efficacemente la strategia di Google:

  • La vera natura di Google è un network B2B che consente ad un circolo chiuso di clienti di bersagliare gli utenti di Google con la propria pubblicità
  • Ogni servizio offerto da Google ai propri utenti deve raggiungere un obiettivo principale: creare il più grande mercato possibile per distribuire pubblicità. Questo significa aumentare il numero degli utenti, la loro frequenza di visita, il tempo di permanenza. Si spiega così perché Google alletti chi ci naviga con un mix di servizi gratuiti o economici che sembrano rendere le nostre vite più libere o più produttive. Essi servono infatti a far accrescere il mercato dell’advertising
  • Infine, sempre nell’intento di ampliare tale mercato, Google si sta muovendo in varie direzioni: connettendo a Internet nuovi territori e intere popolazioni (con ad esempio dei palloni aerostatici, già in corso di sperimentazione). Oppure cercando di allargare il tempo libero a disposizione di chi a Internet è già connesso e soprattutto il tempo da dedicare a navigare sui suoi prodotti (da qui Google Glass ela Self Driving Car).[4]

Spinta alle sue conseguenze estreme, Google immagina un mondo dove ogni cosa che tocchiamo è connessa e percepita da un’intelligenza artificiale la quale potrà discernere i comportamenti dell’individuo dalle sue azioni ed imparare ad anticipare i suoi bisogni addirittura prima che egli si renda conto di averli. Ha detto Page: Un giorno l’intelligenza artificiale sarà direttamente agganciata ai nostri cervelli, forse attraverso un impianto [5]

Gli “Economics” di Alphabet

Dai dati disaggregati disponibili nell’Annual Report del 2014, l‘89% del fatturato di Google era generato dall’advertising. Il suo tasso di crescita mostra un andamento declinante nel corso del tempo, non solo a causa dello stato generale dell’economia ma anche perla concorrenza di altri operatori e della crescita esponenziale dell’accesso a Internet attraverso il mobile.

Qui infatti, le app rappresentano un formidabile mezzo per bypassare Google. I margini di profitto della pubblicità inoltre, sono più bassi che nel caso di accesso a Internet via personal computer.

In termini di ripartizione geografica infine, la quota di fatturato di Google al di fuori di U.S.A e UK è andata crescendo tra il 2013 al 2014 dal 55 al 57%. Con l’inevitabile consolidarsi di questa tendenza l’azienda si troverà costretta ad affrontare una serie di problematiche aggiuntive: dai rischi connessi ai tassi di cambio e alle legislazioni dei differenti paesi, al coinvolgimento di utenti (business e privati) sempre meno evoluti, con conseguenti ricadute negative sui margini di profitto. Negli U.S.A Google sta realizzando importanti investimenti per dotare interi stati della sua fibra ottica nell’intento di accrescere,attraverso nuove tecnologie, le quote di mercato che altrimenti diverrebbero presto stagnanti. Tale mossa sembra destinata anche a realizzare nuove forme di integrazione verticale con il mondo dei media.[6]

La diversificazione di Google

La mossa di Google per contrastare il declino tendenziale dei propri ricavi si chiama Moonshots. Con questo termine,letteralmente lancio sulla luna ma anche palla battuta molto alta (baseball) Brin e Page definiscono gli investimenti ad alto rischio e (solo) potenzialmente ad elevata redditività. Reclutando i cervelli migliori in molte e svariate discipline tecniche, acquisendo centinaia di start up e brevetti.

Queste iniziative erano gestite fianco a fianco del core business fino a quando è stato deciso di costituire Alphabet. Che ora controlla, oltre a Google, le aziende in cui, negli ultimi anni, sono state intraprese le iniziative di diversificazione:

  • Nest (smart thermostats)
  • Google Fiber (broadband service)
  • Calico (longevity research)
  • Life Sciences (contact lenses)
  • Google Ventures (startup investments)
  • Google X, il leggendario laboratorio segreto dove, per quanto sisa, oggi sono in via di sviluppo progetti relativi alle self driving car ai droni, ai palloni aerostatici e all’ intelligenza artificiale.

Tornando all’inizio della storia eccoci di fronte ad una conglomerata diversificata, con attività di business in molti casi apparentemente scorrelate da quello principale.

Certamente esiste più di una ragione che ha portato i fondatori di Google a questa scelta e in molti citano la richiesta, da parte degli investitori finanziari, di una maggiore trasparenza sulle diverse linee di attività. Anche aspetti di carattere fiscale avranno avuto il loro peso.

Non vi è dubbio comunque che la ragione principale sembra legata all’esigenza di gestire al meglio il gigantesco cash flow generato da Google per individuare e sviluppare attività redditizie che possano negli anni perpetuare i fatturati e i margini attuali.

Si tratterà di una mossa vincente? Troppo presto per dirlo. Come fa notare Ken Favaro, un corporate advisor indipendente, la strategia di corporate per qualsiasi impresa multi- business, si basa su una domanda fondamentale: come le diverse attività di un’azienda diventano economicamente più forti e le loro iniziative acquistano più probabilità di successo specificamente perché si trovano ad operare all’interno di una corporation piuttosto che separatamente o in un’altra azienda? In altre parole, come la conglomerate in sé aggiunge valore ai suoi business? La nuova struttura di Google appare oggi più chiara al mondo esterno ma la sua strategia rimane opaca come sempre.Conclude Favaro: Alphabet sembra solo un “new dog” che sta usando un vecchio trucco per tranquillizzare il mondo esterno e lottare con la complessità interna.[7]

Alphabet inoltre sembra aver pochi punti in comune con player leggendari come General Electric o DuPont, per fare il nome di due grandi conglomerate storiche. Il business dell’advertising è troppo grande e sovrastante rispetto agli altri che sono entità ancora allo stadio di laboratori di ricerca o poco più che startup. Si tratta dunque, di una conglomerata fortemente sbilanciata su un unico e prevalente core business.

Osserva l’Economist: Alphabet è una gigantesca azienda pubblicitaria con il potenziale di diventare un gigante in altri settori sebbene nessuno sia ancora sicuro in quale. […] Google ha oggi sette prodotti che dichiarano più di un miliardo di utenti e che includono il motore di ricerca, le mappe, Gmail, You Tube, Google Play Store, Android e Chrome. Più gli utenti passano il tempo sui servizi di Google più l’azienda apprende i loro comportamenti e vende più pubblicità. I sostenitori di Alphabet sostengono che essa è stata creata per aggiungere forza a forza. Essa è oggi una conglomerata con interessi in aree come le automobili, la cura della salute, la finanza e lo spazio e sta cercando di trovare la prossima “big thing”. […] ma la maggior parte di questi investimenti richiederanno degli anni per pagarsi e alcuni di questi certamente non ci riusciranno mai. […]La tolleranza da parte degli analisti finanziari è unanime quando si inanellano una serie di successi ma può rapidamente venir meno.[8]

Difficile non essere d’accordo con Ken Favaro quando afferma: alla fine essi inevitabilmente compiranno un percorso casuale che potrà essere razionalizzato solo ex post.[9]

 

Il Controverso Contributo di Google – Alphabet all’Economia

McKinsey stima che dal 2008 al 2013 gli investimenti mondiali in advertising siano cresciuti del 2.4% mentre quelli nel settore digitale del 15.6%. Le quote di mercato nel digitale erano 14.6% nel 2008 e sono salite fino al 26.7% nel 2013. I giornali per contro sono passati dal 24.7 al 15.9% nello stesso periodo e i periodici dal 7.7 al 5%. Si è assistito dunque ad un travaso dalla pubblicità tradizionale a quella digitale.[10]

Non si sono verificati, per effetto di Google e dei suoi principali concorrenti, degli effetti di allargamento del mercato. I nuovi arrivati hanno sottratto quote agli altri.

Don’t be evil, e cioè You can make money without doing evil puoi arricchirti senza fare del male, mentendo un codice di condotta leale e “dalla parte dei buoni”, ovvero da quella degli utenti. È stato questo per lungo tempo il motto aziendale di Google.

Questo slogan ha attratto una grandissima attenzione e ha suscitato il plauso di molti. Nessuna delle grandi corporation aveva mai strombazzato la propria superiorità morale così palesemente.

Eppure non sembra che la condotta di questa azienda sia mai riuscita a conformarsi al suo motto.

Il business principale di Goole è un grande inganno. L’azienda fa finta di lavorare principalmente con gli utenti ma ricava quasi tutti i suoi guadagni dai pubblicitari. Google offre la maggior parte dei suoi prodotti gratis ma non dice che gli utenti pagano per questi prodotti con la perdita della loro privacy. I free product non sono altro che dei cavalli di troia. Vengono usati per raccogliere dati che consentono a Google di vendere pubblicità più mirata.[11]

Così afferma Scott Cleland, presidente di Precursor una società di ricerca e consulenza americana, il quale si è preso la briga di far un elenco delle leggi ignorate da Google durante questi anni.

Dall’aver sistematicamente violato le regole del copyright, copiando quindici milioni di libri e continuando a copiarne alcuni milioni all’anno, facendo lo stesso per i video per dare massa critica a Youtube, infrangendo le leggi di molti stati sia per quanto riguarda la privacy che le politiche fiscali, portandosi appresso il forte sospetto e un numero di cause relative, di aver violato alcuni brevetti di Apple per costruire Android.

Conclude Cleland: Mai è esistita tra le maggiori cento corporation di Fortune una che abbia in modo sistematico ignorato i diritti di proprietà degli altri: i brevetti di Android, libri, musica, TV e filmati e marchi registrati. Ci sono ampie evidenze che Google spadroneggi su Internet come il rapinatore del ventunesimo secolo che crede di poter fare quello che vuole con poca paura e riguardo nei confronti della legge.[12]

Google infine, agli occhi di molti, ha costituito una posizione di monopolio nel campo di quello che viene ormai generalmente definito “big data” e ciò oltre a bloccare la concorrenza, rappresenta una minaccia per Google stessa la quale potrebbe essere soggetta a sanzioni da parte delle autorità anti-trust.

Commenta su questo aspetto Kira Radisky, su Harvard Business: l’accesso di player affermati a grandi quantità di dati proprietari, affligge la competitività dell’intero settore e ciò danneggia l’economia.

Google ha rivoluzionato i motori di ricerca quando ha introdotto nel 1996 il suo famoso algoritmo “Page Rank Algorithm”. I motori di ricerca da allora si sono significativamente evoluti e oggi la maggior parte di essi è basata su “machine learning algorithms”. Gli studi condotti in questo ambito mostrano come la sequenza storica delle ricerche migliori i risultati dei search engine di oltre il 31%. Non si raggiungono oggi risultati di qualità senza una conoscenza passata del comportamento degli utenti che si basa appunto su larghe basi di dati e soprattutto lunghe serie storiche di comportamenti.

È chiaro dunque come questo fattore diventi una formidabile barriera all’entrata per ogni concorrente. Forse, conclude Kira Radinsky, è arrivato il tempo di realizzare uno Sherman Act per i dati.[13]

 

 

Amazon: la Distruzione Sistematica del Retail

Amazon è oggi uno dei maggiori retailer on line del mondo.

Il fatto che questa azienda prenda il nome dal corso d’acqua più lungo del pianeta la dice lunga sulle ambizioni del suo fondatore e CEO Jeff Bezoz.

Dopo un avvio basato sulla vendita dei libri online Amazon ha gradualmente ampliato le categorie di prodotti venduti via web introducendo materiale informatico, elettronico e via via una serie di altre categorie merceologiche. Le famiglie di prodotto sono oggi sedici.

L’idea dell’azienda è di riuscire a vendere via web tutto quello che è materialmente possibile acquistare con un pc, un tablet o uno smartphone e consegnare attraverso il proprio sofisticato sistema di logistica.

Al 2014il 62% delle vendite era concentrato negli U.S.A. e il 38% nel resto del mondo.

Alcuni analisti attribuiscono ad Amazon circa l’1% di quota di mercato dell’intera industry del retail americana, la cui componente fisica è, naturalmente, ancora prevalente sebbene il mercato onlinestia continuando a sperimentare tassi di crescita a due cifre.

Di cui naturalmente Amazon potrà beneficiare. Il fatturato del 2014 è cresciuto del 20% rispetto a quello del 2013, che a sua volta era cresciuto del 22% rispetto al 2012.

Oltre a questa linea di business oggi prevalente, Amazon è anche un operatore leader nella fornitura di servizi di cloud alle imprese. Nella lettera agli azionisti che apre l’annual report 2014 Bezos cita orgogliosamente tra i clienti del suo cloud aziende del calibro di GE, Tata Motors, Kellogg’s. La piattaforma di Amazon è diventata la preferita dalle start up da Uber a Airbb e Netfix. Anche lo stato americano è un cliente: pochi anni fa la CIA ha siglato un accordo di 600 milioni di dollari per usufruire di servizi sul cloud. [14]

Il fatturato degli Amazon Web Services (AWS) può oggi contare su un milione di clienti business attivi e per dare un’idea della sua crescita, esso ha avuto una variazione positiva del 90% nell’ultimo quadrimestre del 2014 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Si tratta di un settore che contribuisce al conto economico di Amazon con margini più elevati della vendita retail nonostante i servizi siano offerti ad un prezzo molto competitivo per far fronte all’agguerrita concorrenza di Google e Microsoft.

 

Il modello di Business di Amazon

La strategia di Amazon nel retail è quella di comprare all’ingrosso e vendere al dettaglio con una politica molto aggressiva di sconti imposti ai propri fornitori la cui dipendenza dall’azienda è diventata crescente nel tempo. Le piattaforme operative sono principalmente due, il Marketplace che vede i produttori vendere direttamente la loro merce e Prime che offre vantaggi di prezzo e di consegna ai clienti i quali e pagano una fee annuale per abbonarsi al servizio.

È in corso un’integrazione nelle aree del publishing e del broadcasting dove Amazon Publishing e Amazon Studios stanno producendo una propria offerta creativa.

Infine nel corso degli anni sono stati lanciati sul mercato una serie di device, da Kindle al più recente Fire, una piattaforma e-commerce più che uno smartphone. Queste iniziative non sempre sono state segnate da chiari successi, esse tuttavia avevano alla base, soprattutto, la messa a disposizione di strumenti hardware per accedere ai servizi offerti.

La natura dei business di Amazon la porta a generare un forte cash flow che finora è stato massicciamente investito dal management per garantire la crescita futura.

Investimenti rilevanti sono stati compiuti nella tecnologia (per mettere a punto sistemi sempre più in grado di riconoscere le preferenze dei consumatori e proporre offerte crescentemente personalizzate) e nei sistemi di logistica. A fine 2014 Amazon era passata dai 13 fulfillment center del 2015 a 109. Amazon Robotics (precedentemente KIVA), acquisita nel 2012, ha costruito più di 15.000 robot per i propri centri.

 

A differenza degli altri big player divenuti il simbolo dei nostri tempi e in particolare Google e Facebook, Amazon è cresciuta perseguendo una strategia molto concreta il cui punto di forza è certamente rappresentato dall’execution piuttosto che dalla creatività tecnologica o dalla genialità del design (vedi Apple per esempio). Le altre aziende nel pantheon tecnologico possono compiere alcune mosse strategiche occasionali, ma la maggior parte delle loro scelte sembra emergere da compromessi interni, impulsi improvvisi, ansietà competitiva, reazioni istintive.

Commenta Venkatesh Rao su Forbes [15], Con Amazon si ha l’impressione di assistere allo svolgimento di una partita a scacchi in cui Amazon pensa molteplici mosse in anticipo e lungo diversi fronti. I rivali sembrano andare a tentoni, inveiscono e farneticano mentre Amazon continua sistematicamente a demolirli.

Sì perché alla fine, il modello di Amzon è molto evidente e si incentra sulla distruzione, all’interno della catena del valore di molti business, il publishing per primo, dell’anello rappresentato dal retail, per poi risalire a monte verso la creazione e la produzione del prodotto.

A quale fine?

Questa strategia fa sorgere tre principali interrogativi:

  • È vantaggiosa per gli azionisti di Amazon?
  • Con quali mezzi riesce ad affermarsi?
  • Quali sono i “danni collaterali” per il consumatore e l’economia?

 

Le Performance Economiche di Amazon

Osserva nel suo blog Benedict Evans, un’analista finanziario che lavora in un venture capital della Silicon Valley: quasi venti anni dopo la sua nascita Amazon non ha ancora riportato profitti di una qualche significatività.[16]Amazon in effetti è un bundle di business con differenti margini di profitto e i bilanci su questo sono particolarmente opachi.

Non vi è tuttavia alcun dubbio che l’azienda sia uno straordinario generatore di cash flow. Se guardiamo in particolare all’operating cash flow, che comprende il capital expenditure (capex), vediamo che esso è stato grossomodo stabile per una decina d’anni per poi declinare a causa dell’elevata crescita degli investimenti.

In termini assoluti, commenta Bendict Evens, potete vedere un business che produce rapidamente un ammontare crescente di operating cash flow che viene reimpiegato in capex.

Questi investimenti sono compiuti non perché le linee di business tradizionali abbiano incrementato i loro costi ma per finanziare il futuro.

In altri termini, la strategia di Amazon è realizzare una crescita del fatturato molto rapida ma senza accumulare nessun surplus di cassa o profitto perché ogni penny di cassa è reinvestito per espandere ulteriormente il business. Fino a quando?  Bezos ha sempre espresso con chiarezza il suo punto di vista: tra investire e distribuire dividendi non ha dubbi. Egli intende investire, d’altra parte la quota del commercio elettronico sull’intero retail è ancora marginale.

Sempre Evens conclude la sua analisi osservando come gli investitori scommettano ancora in Amazon con l’aspettativa che ad un certo punto saranno remunerati.

Bezos sta continuando a procrastinare questo momento. Quando compri un’azione di Amazon fai una scommessa sul fatto che essa possa essere convertita in una quota di tutto l’e-commerce che fluirà attraverso Amazon. La domanda da chiedersi è se l’azionista creda che Bezos potrà catturare il futuro e quanto a lungo è ancora disposto ad aspettare.[17]

Un ragionamento analogo è condotto dall’Economist: in tempi in cui Wall Street è ossessionata dai risultati trimestrali Amazon ha chiarito ai suoi investitori che continuerà ad investire piuttosto che distribuire dividenti. Mentre altri giganti della tecnologia siedono su cumuli di cassa, Amazon ha ancora molte idee su dove investire e innovare. E gli investitori sembrano felici.

Forse la più grande preoccupazione riguardante Amazon, è paradossalmente una conseguenza della sua visione a lungo termine.

La sua volontà di operare senza margini o addirittura in perdita, rappresenta un’alta barriera all’ingresso per potenziali competitor. Ma questa strategia non potrà andare avanti per sempre. La preoccupazione è che Amazon stia semplicemente aspettando che i suoi rivali vangano estromessi dal business per poi alzare i prezzi. Questo oltre a generare qualche problema con l’antitrust, darebbe una straordinaria opportunità ad altri playertra cui il minaccioso Alibaba, e alcuni investitori a quel punto, potrebbero rimpiangere i guadagni che non sono mai arrivati.[18]

 

Come Amazon è Riuscita ad Affermarsi sul Mercato

 

Secondo alcuni commentatori lo straordinario sviluppo di Amazon ha largamente beneficiato di forme di sussidio statale:

  • Negli Stati Uniti i merchant hanno l’obbligo di applicare ai prodotti che vendono le tasse locali: se ne saranno resi conto tutti quelli a cui è capitato di comprare un prodotto in un negozio americano, qualcosa che assomiglia all’IVA europea. Amazon, come on line merchant, ha sempre rifiutato di applicare queste tasse, anche se recentemente alcuni stati l’hanno obbligata a farlo. Questo ha consentito di avvantaggiarsi per venti anni di un sussidio che varia dal 4 al 10% a seconda dei vari stati degli U.S.A
  • In ogni stato dove ha stabilito le proprie piattaforme di logistica, Amazon ha negoziato importanti benefici fiscali a fronte di impegni per la creazione di nuova occupazione.

 

Amazon infine definisce partnership e coopetion la relazione stabilita con i fornitori di cui vende i prodotti. Oggi vende più del 40% di tutti i libri negli U.S.A. e ha una quota assai più elevata nelle edizioni digitali. Si stima che complessivamente un terzo di tutti i libri siano e-books e Amazon detiene due terzi di questo mercato (dati 2014).

Alcuni editori realizzano il 50% del loro fatturato attraverso Amazon. a fronte di sconti che vanno dal 50 al 60% del prezzo di copertina.

Gli editori che hanno provato a non accettare simili proposte si sono trovati da un giorno all’altro estromessi da Amazon: i loro libri non si trovano nelle ricerche, non possono essere acquistati.

Bezos ha il potere monopolistico di minacciare, indebolire e perfino far fallire i concorrenti intimidendo giganti come Barnes & Nobles e Walmart e prosciugando il sangue di centinaia di piccoli negozi[19].

Come risultato all’inizio degli anni 90 esistevano negli U.S.A. circa 6.000 librai indipendenti, ora sono solamente 2,200. (dati 2010)[20]

 

Danni collaterali

 

Amazon rappresenta una singolare entità in cui sono intrecciati high tech con brick and mortar. Sofisticati data base con centri di logistica dove accanto ai robot lavorano migliaia di individui che hanno il compito di consegnare, nel più breve tempo possibile al cliente il prodotto richiesto. Certamente la realizzazione di uno dei sogni della new economy. Tuttavia, o forse per questo, Amazon è largamente invisibile alla maggior parte delle persone. Ciò che si vede sono solo il suo sito e i fattorini che recapitano i prodotti ordinati[21]

Molto si è scritto, a proposito delle terribili condizioni a cui sono assoggettati i suoi lavoratori, da quelli che operano nei centri logistici, agli impiegati e dirigenti.

Storie di altri tempi, che fanno rabbrividire. Il focus sulla soddisfazione del consumatore non giustifica tali comportamenti aziendali.

Non ci vorremmo tuttavia qui soffermare su questo aspetto che rappresenta tuttavia un importante danno collaterale quanto su altri ancora più rilevanti.

Cosa accade, si chiede Onnesha Roychiudoudhri[22] quando un settore come quello dell’editoria, impegnato nella produzione di cultura, diventa dipendente da un’azienda il cui unico obiettivo è svendere i concorrenti? Un’industria editoriale vitale deve essere in grado di sperimentare nuovi autori e anche libri che non hanno interesse per il mass market. Quando dei grandi retalier acquistano un potere enorme nel settore dell’editoria i consumatori possono avvantaggiarsi di prezzi più bassi ma l’impatto sul futuro della letteratura e su quali libri possano essere pubblicati, diventa sempre più in dubbio.

Amazon promuove solo i prodotti editoriali che considera di successo e in molti casi pretende di partecipare alle scelte degli editori. Non solo, vengono usati algoritmi che propongono ai clienti opere editoriali non in base al loro interesse o successo ma in ragione degli investimenti pubblicitari realizzati dagli editori. Ai consumatori infine viene proposto un prezzo che dipende dal loro comportamento di acquisto, è quello che Amazon chiama “dynamic pricing”.

Questo è quello che capita quando si vende un libro come un “barattolo di zuppa”.

 

 

 

l’E-Commerce di Amazon Porta Vantaggi all’Economia?

 

In conclusione Amazon sta perseguendo una strategia di crescita molto ben definita, basata sulla “disruption” del commercio al dettaglio che essa ha l’ambizione, finora realizzata, di traghettarenell’online, il cosiddetto e-commerce.

Due aspetti sembrano meritare qualche riflessione:

  • La crescita di Amazon sembra richiedererisorse finanziarieinfinite che portano a investire (o a bruciare?) tutto il cash flow generato.
  • Amazon inoltre impiega mezzi non convenzionali, per lo più fuori dalle regole delle altre imprese. Le modalità di azione di Amazon sul mercato, al di là dei suoi sofisticati sistemi di profilazione del cliente, assomigliano, come fa notare Ryan Cooper,a quelli impiegati nella leggendaria “Gilded Age” quando le grandi corporation(e qui l’autore non risparmia né Google né Apple), combattevano una contro l’altra con milizie, dinamite, truffe sul mercato azionario, corruzione dell’apparato giudiziario.[23]

Vi è dunque qualcosa d nuovo sul mercato?  Probabilmente sì. Quell’epoca che portò alla creazione di importanti monopoli fu caratterizzata da una fase di grande sviluppo economico e di riduzione delle disuguaglianze sociali.

Purtroppo non si può dire lo stesso al giorno d’oggi.

 

Facebook: Socializzare per Incrementare i Consumi

 

Con una nascita controversa durante la quale Zuckerberg sembra essersi liberato senza scrupoli dei suoi partner iniziali, Facebook ha realizzato una crescita importante sebbene raggiungendo dimensioni minori degli altri big player della new economy.

La missione di Facebook recita: to give people the power to share and make the world more open and connected.[24]

In realtà più che una missione questo statement appare un mezzo: ampliare il numero di persone che si connette a Internet ed in particolare a Facebook, per incrementare i propri guadagni, basati sulla vendita di spazi pubblicitari sulle sue piattaforme di social networking:

  • Facebook web e mobile, che consente di condividere opinioni, idee, foto, video e altre attività con gli amici e i follower
  • Instagram, un’applicazione mobile che consente di personalizzare foto o video e condividerli con gli amici. Facebook ha acquisito Instagram nell’aprile del 2012
  • Facebook Messanger, un’applicazione mobile – to – mobile disponibile su IOS, Android e i telefoni Windows
  • WhatsApp una piattaforma di mobile messaging acquisita da Facebook nell’ottobre del 2014.

 

A fine 2014 il fatturato dell’azienda ammontava a 12,466 miliardi di dollari, nel 2010, quattro anni prima erano “solo” 1,97 miliardi. Con una crescita media del + 58% ogni singolo anno dal 2010 al 2014. Il margine netto è stato di quasi 3 miliardi di dollari (1.5 nel 2013),

La pubblicità ha rappresentato il 92% dell’intero fatturato nel 2014, era l’89% nel 2013.

La parte restante è rappresentata dai ricavi derivanti dai produttori di app che immettono i loro prodotti nelle piattaforme di Facebook (soprattutto video giochi) e dalla piattaforma di pagamento proprietaria (da cui Facebook ricava una fee per ogni transazione effettuata).

Le strategie di Facebook per sostenere ed ampliare la propria crescita si basano su una spettro di azioni che comprende l’espansione del numero di utenti nei differenti mercati, l’offerta di nuovi prodotti e l’incremento del tasso di attività degli utenti, insieme all’aumento del numero di investitori pubblicitari grazie alla fornitura di strumenti sempre più sofisticati di profilazione  del cliente, con un conseguente incremento del Cost Per Click (CPC).

Secondo BIA/Kelsey[25] l’advertising sui social media potrà crescere nel mercato americano dai 5.1 miliardi di dollari del 2013 ai 15 miliardi del 2018 con un tasso di sviluppo medio annuo del 24%.

I maggiori analisti finanziari si aspettano che Facebook possa beneficiare significativamente di questosviluppo.

A suo favore inoltre, dovrebbero giocare le acquisizioni compiute, in particolare viene stimato che WhatsApp da sola potrà generare un fatturato aggiuntivo di 500 milioni di dollari e che il valore combinato di Instangram e WhatsApp (che ha una base di oltre un miliardo di utenti) possa tranquillamente superare i 50 miliardi di dollari.[26]

I Daily Active Users (DAUs) erano, sempre a fine 2014, 890 milioni. Di questi ben 589 milioni accedono a Facebook solo attraverso il mobile, l’azienda prevede che la crescita degli utilizzatori via mobile rappresenterà il driver principale di sviluppo del prossimo futuro, a scapito dell’accesso da personal computer.

 

Le Prospettive di Crescita di Facebook

 

I trend che emergono dalla pur relativamente breve storia di Facebook non appaiono tuttavia del tutto tranquillizzanti per le prospettive di crescita future dell’azienda:

  • Il tasso di sviluppo dei Monthly Active Users (MAU) era stato del 25% dal 2011 al 2012, del 16% dal 2012 al 2013 e del 13% dal 2013 al 2014. Come conseguenza Facebok si aspetta anche un declino del tasso di crescita del fatturato nel tempo. Ciò in conseguenza sia della progressiva saturazione del mercato, che della concorrenza di altri operatori e infine da possibili decisioni che, prese in altri settori e da altri player, potrebbero porre dei limiti all’ accesso degli utenti alle piattaforme di Facebook. Un esempio per tutti è relativo a Google: l’integrazione con Android è strategica per Facebook come pure il Google Play Store. Ogni scelta compiuta da Google, che anche se non direttamente ostile dovesse comportare un problema per Facebook, si tradurrebbe in un calo degli utenti e una caduta del fatturato.
  • A proposito degli utenti: il rapporto DAU/MAU, cioè degli utenti giornalieri su quelli mensili, una proxy del tasso di attività degli utenti, appare abbastanza stabile nel tempo. Mentre i DAU sono cresciuti, dal 2012 al 2014, di circa il 30% annuo, la quota dei DAU sui MAU, è variata infatti solo dal 57 al 64%. Sebbene il periodo disponibile sia limitato e l’indicatore rappresenti solo un’approssimazione, sembra di intravedere un ostacolo all’ampliamento degli utenti giornalieri, i più attivi e quindi generatori di ricavi. È probabile dunque che l’utilizzo di Facebook possa mostrare un limite, anche rappresentato dal tempo disponibile per gli utenti nell’ambito della giornata.
  • L’inarrestabile crescita del mobile a danno del personal computer comporta inoltre una più bassa redditività per Facebook (lo si è rilevato anche per Google) dovuta sia ai minori spazi pubblicitari disponibili che alla perdita dei ricavi derivanti dai produttori di video games attivi soprattutto sui personal computer. Secondo il Trefis Report nel 2014 le ad impression, cioè i messaggi pubblicitari realmente visti sono calati del 40% proprio per il crescente passaggio al mobile. Nello stesso tempo il prezzo medio per impression si è incrementato del 173% grazie alla più elevata performance raggiunta attraverso le informazioni raccolte sui clienti.[27]Probabilmente anche il potere negoziale di Facebook nei confronti degli inserzionisti, soprattutto i più piccoli, ha giocato il suo ruolo. Potrà essere sempre così?
  • Infine, un calo di redditività è destinato a manifestarsi mano a mano che il fatturato si sposta da U.S.A. e UK ad altri paesi con mercati pubblicitari più ristretti ed utenti meno evoluti. L’ingresso in nuovi paesi inoltre, come la crescita del fatturato nel suo complesso, richiede investimenti aggiuntivi in data center, hardware e software. Tali maggiori costi sono anch’essi destinati a ridurre la redditività.

Le mosse che ha finora compiuto Facebook per contrastare tale tendenza sono state rappresentate da:

  • L’acquisto di Instagram prima e di WhatsApp poi, destinati a rafforzare la propria posizione nel mobile,
  • La controversa iniziativa di Internet.org, intrapresa insieme ad altri player: Samsung, Ericsson, MediaTek, Opera Software, NokiaeQualcomm annunciata nel 2013 da Mark Zuckerberg con un white paper in cui affermava che la connettività rappresenta un diritto umano. L’obiettivo è infatti quello di portare Internet nelle zone più povere del pianeta. Facebook è stato accusato di violare la neutralità di Internet ponendosi come gatekeeper consentendo l’accesso solo ai siti che rispondono a determinati criteri ed escludendo quelli dei suoi diretti concorrenti.
  • Facebook ha anche acquisito per oltre due miliardi di dollari Oculus, una società specializzata nello sviluppo di tecnologie connesse alla realtà virtuale che sta sviluppando prodotti destinati a rivoluzionare la realtà dei video giochi.
  • Infine nel gennaio del 2016 Zuckerberg ha annunciato di voler costruire Jarvis, un assistente computer che potrebbe mettere a frutto gli investimenti compiuti da Facebook nell’intelligenza artificiale.

L’attesa degli analisti finanziari per gli anni a venire è di un incremento dei costi e di un rallentamento nella crescita del fatturato che potrebbe comportare un’erosione dei margini attuali.

L’aspetto positivo di Facebook è rappresentato dalla sua capacità di generare un forte cash flow. Il free cash flow infatti, è passato da 188 milioni di dollari nel 2010 a 3, 6 miliardi di dollari nel 2014, con un tasso di crescita medio annuo di quasi il 110% e rappresenta una solida riserva per possibili acquisizioni future come pure per sostenere eventuali strategie di crescita degli investimenti in ricerca e sviluppo (21% del fatturato 2014) e in nuovi data center.

 

 

Le FANGS e il Mercato Azionario

 

Gli analisti finanziari hanno coniato un acronimo per riferirsi a Facebook, Amazon, Alphabet e Netflix: FANGs

Ebbene le FANGs hanno sperimentato sul mercato azionario una crescita formidabile negli ultimi cinque anni più che raddoppiando il loro valore rispetto a risultati assai più modesti delle principali aziende quotate a Wall Street.

Queste high tech company, con fondatori e azionisti che detengono la maggioranza delle quote azionarie, non distribuiscono dividendi perché reinvestono tutti i loro utili al netto dei leggendari compensi che si versano i loro proprietari, dominano da tempo il mercato azionario americano.

Nel 2015 hanno addirittura contribuito per l’83% alla crescita del mercato borsistico statunitense.

Dagli inizi del 2016 tuttavia questo trend sembra essersi arrestato. Amazon, Facebook e Google in particolare, hanno perso valore in linea con il più generale declino delle S&P 500. L’interpretazione di questo andamento è ancora controversa, troppo presto per giudizi conclusivi. Da parte di alcuni analisti questo fenomeno potrebbe rappresentare un indicatore del sopraggiungere di una fase recessiva negli U.S.A. Secondo altri, ed entrambe le valutazioni sarebbero compatibili, il valore di queste aziende potrebbe essere stato ingiustificatamente gonfiato negli anni scorsi ed ora potremmo essere giunti ad una fase in cui sta emergendo una bolla speculativa.[28]

Poiché la recessione dell’economia americana appare ormai certa, seppure non se ne conosca ancora entità e durata, sembra utile valutare anche l’altra ipotesi concomitante, quella di una possibile bolla speculativa che ha consentito a Google, Amazon, Facebook, di realizzare straordinarie performance negli ultimi anni.

Vale qui la pena riportare alcuni commenti recenti che seppure rivolti in questo caso solo ad Amazon, possono essere generalizzati molto facilmente anche a Google e Facebook.

Nell’ultimo quarter del 2015 Amazon pur continuando a registrare una crescita sostenuta non ha raggiunto le aspettative degli analisti: Se ognuno si sta spaventando per Amazon è perché Amazon ha deciso una volta ancora che vuole ridare inizio agli investimenti per impossessarsi del mondo.[…] Questo è uno di quei periodi in cui, dopo essere stati trasparenti per un paio di quarter, ricominciano a diventare opachi.[29]

La valutazione di Amazon è ancora troppo alta, fino a che essa non sarà più appropriata gli analisti continueranno ad avere aspettative incredibilmente alte.[30]

Amazon, Facebook e Google si sono rivolti ai mercati finanziari con un atteggiamento tra il naif e l’ispirato. Hanno confessato di non essere in grado di far previsioni, hanno ammesso che i loro business non trovano comparabile, che non avrebbero mai smesso di credere in quel che facevano e che lo stesso si aspettavano dagli analisti. We believe putting customers first is the only reliable way to create lasting value for shareholders.[31] RecitaBrian Olsavsky, il CFO di Amazon, la stessa litania è ripetuta con convenzione dagli Executives e fondatori di Google e Facebook.

Tre o quattro aziende che determinano l’83% della crescita del mercato azionario americano sono un fenomeno che desta preoccupazioni.

John Authers, del Financial Times, osserva che se non fosse stato per il successo di un piccolo gruppo di Nifty Companies, cioè di grandi aziende con performance eccellenti, il 2015 sarebbe passato alla storia come un anno terribile per il mercato azionario americano. Authers cita oltre le FANGs anche Microsoft, Salesforce, eBay, Starbucks e Priceline, definendole le Nifty Nine, otto su nove, sono aziende della new economy. Il predominio delle Nifty Nine ricorda gli ultimi anni 60 e i primi anni 70 quando una lungafase di rialzo dei titoli azionari si esaurì in un periodo di dominanza delle Nifty Fifty che perdurò fino al 1972.[32]

Ciò che fa impressione è che allora a dominare il mercato azionario americano fossero cinquanta aziende ed oggi solo nove.

 

Conclusioni Preliminari

 

Come si è annunciato in apertura di questo lavoro, sarebbe prematuro derivare dai dati descritti qualsiasi giudizio definitivo sulla new economy e i suoi principali player. Si tratta questo di un terreno di esplorazione appena aperto e che richiederà numerosi approfondimenti.

Alcune osservazioni emergono tuttavia abbastanza chiaramente da quanto finora esaminato e le esporremo come conclusione preliminare di un lavoro che va definito senz’altro come ancora “in corso”.

 

La Natura delle FANGs

 

Google, Amazon, Facebook hanno una serie importante di punti in comune:

  • Hanno raggiunto il successo sviluppandosi nell’economia digitale attraverso la costruzione di enormi basi di dati riguardanti le abitudini e i comportamenti di milioni di consumatori
  • Hanno impiegato questi dati per vendere advertising o, nel caso di Amazon, per irrompere nella catena del valore di molte industry sostituendo al retail classico l’e-commerce
  • Si sono sviluppate in modo spregiudicato, violando leggi e norme di molti stati in nome di un interesse più generale del consumatore la cui manipolazione (attraverso l’offerta di beni, servizi e pubblicità sempre più personalizzate) è diventato il principale driver di crescita
  • Hanno generato enormi cash flow, ma non altrettanti utili (né dividendi da distribuire agli azionisti) per lo più reinvestiti alla ricerca di una crescita che il core business non sembra in grado di mantenere nel tempo
  • Hanno contemporaneamente distrutto fatturato (e PIL se parliamo in termini di stati: dall’evasione fiscale, agli investimenti pubblicitari dirottati fuori dai singoli paesi, al declino del retail a cui Amazon ha dato una spinta mortale soprattutto nel settore dell’editoria e in quello discografico) mettendo in crisi modelli di business preesistenti senza creare impatti benefici sull’economia e per contro costituendo monopoli minacciosi e ricchezze private mai viste nelle epoche precedenti.

 

A rifletterci un attimo gli U.S.A sono sempre state la patria del marketing diretto (le famigerate junk mail)e dei cataloghi di vendita per corrispondenza.

Questi nuovi player dell’economia digitale hanno solcato le tracce dei loro predecessori impiegando le nuove tecnologie ICT per accrescere in modo esponenziale le capacità di targeting del cliente finale a vantaggio dell’advertising o della vendita diretta.

Con la differenza, rispetto al passato, di riuscire a realizzare strutture monopolistiche ergendosi come portatori disinteressati di un nuovo benessere per i consumatori.

Questa sì rappresenta una rivoluzione rispetto alla visione passata, di cui sicuramente Milton Friedman ha rappresentato un fedele interprete: C’è una e una sola responsabilità sociale del business, usare le risorse e impegnarsi nelle attività destinate a incrementare i profitti purché ci si coinvolga in una competizione aperta e libera senza inganni e frodi.[33]

 

Perché tanta tolleranza nei confronti di questi player?

Essi sono nati e si sono sviluppati sull’onda apparentemente irrefrenabile di Internet e della nuova corsa all’oro rappresentata dalle tecnologie ICT.

Questo ha reso media, politici e investitori finanziari più accondiscendenti. Ha permesso ai guru delle nuove tecnologie di muoversi spregiudicatamente. Ha alimentato la speranza che da essi e dalle loro invenzioni potesse nascere un contributo ad un’economia ormai da anni stagnante.

Disruptive è diventata la parola d’ordine del nuovo millennio. E dietro questo termine è emerso gradualmente che questo tipo di disruption poco ha a che fare con la “distruzione creativa” di Schumpeter ma che è al servizio di pochi grandi monopoli che distruggono interi settori industriali e dei servizi e accumulano risorse inimmaginabili nelle mani di pochi.

Curioso pensare che proprio negli U.S.A. patria delle “public company” questi patrimoni siano cresciuti nelle mani di privati che gestiscono le loro aziende con grande opacità senza dover dar conto a nessuno – essendo i fondatori i loro principali azionisti – delle scelte aziendali, delle strategie, di dove e come investono.

 

 

Le tentazioni Faustiane della New Economy

 

Si dice che nella Valley (la Silicon naturalmente), c’è chi si stia sempre più appassionando all’idea di diventare immortali. E ciò come si potrà immaginare, non riguarda né gli immigrati né i blue collar ma i ricchissimi imprenditori della new economy a iniziare da Larry Page e Sergi Brin, e molti altri ancora. Essi si riconoscono nella Singularity University (da loro finanziata) la cui missione recita: To educate, inspire and empower leaders to apply exponential technologies to address humanity’s grand challenges.

Ideatore e fondatore di questa università è il leggendario Ray Kurzweil, futurologo, inventore ed imprenditore di successo e da qualche anno ingaggiato da Google come capo della divisione engineering.

Google ha affidato a Kurzweil il compito di insegnare al proprio mainframe a leggere e di fargli imparare a rielaborare e comprendere ogni attività umana. Google può contare su oltre un miliardo di utenti attivi con relativi dati, piuttosto dettagliati e ciò sembra a tutti un buon punto di partenza. L’idea è quella di costruire una grande coscienza, sul cloud, qualcosa che con il tempo sia addirittura in grado si sopravanzare il cervello biologico, facendolo diventare più universale e “transumano”. Esso si riscatterà completamente dall’uomo: essendo capace di leggere sarà in grado di comprendere dai testi scientifici le modalità con cui è stata costruita, come fare a ripararsi e a svilupparsi ulteriormente. Stiamo dunque parlando di una forma molto avanzata di intelligenza artificiale.

Gradualmente fonderemo e potenzieremo noistessi, nella mia visione questa è la natura dell’essere umano, noi superiamo i nostri limiti.[34]

In altri termini, secondo Kurzweil, man mano che il cloud, a cui i nostri cervelli avranno accesso si svilupperà, le nostre capacità di pensiero diverranno sempre migliori e mentre inizialmente saremo un ibrido di pensiero biologico e non biologico, quando arriveremo intorno al 2040, la maggior parte del nostro pensiero diverrà non biologico.

Detto in altri termini immaginiamo ogni essere umano dotato di un impianto “nanobot” nel nostro cervello collegato ad Internet, un Internet che rappresenta l’intelligenza non solo di miliardi di individui ma è costituito da macchine capaci di aumentare le loro capacità di calcolo e ragionamento in modo esponenziale. Secondo la legge degli Accelerating Returns messa a punto da Kurzweill stesso. Il quale è solito affermare: gli umani sono lineari per natura e la tecnologia è esponenziale. Quando la crescita esponenziale continuerà ad accelerare nella prima parte del ventunesimo secolo, essa sembrerà esplodere nell’infinito, almeno dalla prospettiva limitata e lineare degli esseri umani contemporanei.[35]

Cosa c’entra tutto questo con l’immortalità? A parte la dieta per l’immortalità che Kurzweil ha messo a punto e evitando di entrare nei dettagli delle 150 pillole che ingurgita ogni giorno (per un costo che si aggira intorno al milione di dollari l’anno), c’è un aspetto importante che sembra concorrere al tema dell’immortalità.

Sempre seguendo il pensiero di Kurzweil, il prossimo grande balzo tecnologico avverrà quando settori come la medicina e l’energia inizieranno a muoversi allo stesso ritmo esponenziale dell’information technology.

Arrivati a questo punto si potrà raggiungere quanto meno l’immortalità della mente, attraverso un semplice back up del nostro cervello da salvare sul cloud.

Inoltre questo lavoro sulla convergenza delle tecnologie: l’ICT, le nano-tecnologie, le neuro scienze e via discorrendo, sembra poter condurre ad un mondo in cui micro elementi inseriti nel nostro corpo possano occuparsi di riparare le parti che si deteriorano mentre altre anche di tipo non biologico, possono essere di volta in volta impiantate. Potremo ancora parlare di essere umano come lo intendiamo ancora oggi? Probabilmente no, ma questa sembra essere secondo alcuni, la direzione in cui la tecnologia si sta muovendo.

E verso cui si dirigono player come Google che della potenza di calcolo e dell’intelligenza artificiale hanno bisogno disperatamente se vogliono mettere a punto sistemi di previsione dei comportamenti dei clienti sempre più sofisticati. Se poi invece che prevederli si potranno imporli attraverso la manipolazione del grande cloud – cervello tutto diventerebbe evidentemente più semplice. Sono stati queste le ragioni che hanno condotto Google ad acquisire Calico e che la porteranno verosimilmente a realizzare altre acquisizioni dello stesso tipo in futuro.

Lo studio delle scienze relative alla vita hanno sempre più a che fare con i computer e con le learning machine e mentre l’interesse dei venture capital a questo settore è andato gradualmente scemando sin dal 2008, Google Venture ha continuato ad investire. La conoscenza digitale sta diventando sempre più importante per le “life sciences” in quanto la genetica è unsettore “data driven” e questo ci offre una reale opportunità di aggiungere valore ha affermato Krishna Yeshwant, partner di Google Ventures.[36]

Seppure più focalizzato sul suo core business anche Mark Zuckerberg sembra condividere questa visione.  Sono più interessato ai problemi relativi alle persone, cosa ci consentirà di vivere per sempre? Come potremo curare tutte le malattie? Come funziona l’apprendimento e come potremo mettere gli esseri umani nelle condizioni di apprendere un milione di volte più di quello che possono apprendere oggi?[37]

Stiamo lavorando sulla realtà virtuale perché credo che essa rappresenti la prossima più importante piattaforma di computing e comunicazione dopo gli smartphone. Penso che indosseremo degli occhiali che potranno aiutarci durante il giorno a darci la capacità di condividere le nostre esperienze con quelli a cui vogliamo bene in un modo completamente coinvolgente e in forme che non sono oggi possibili[38]

Un giorno credo che saremo in grado di mandare dei pensieri a ogni altro essere usando direttamente la tecnologia. Saremo capaci di pensare qualcosa e i nostri amici potranno immediatamente essere in grado di provare la stessa cosa.[39]

 

Intelligenza Artificiale e Economia

 

 

Non tutti condividono queste visioni. Soprattutto non sembra generalizzato l’ottimismo sulla rapidità con cui l’intelligenza artificiale potrà condurre a cambiamenti sostanziali nell’uomo e nei suoi modi di vivere e pensare.  Jonhathan Huebner un fisico del Naval Air Warfare Centerper esempio, nel suo saggio intitolato A possible declining trend for Worldwide Innovation afferma: il tasso di innovazione ha raggiunto un picco oltre cento anni fa ed è ora in declino. Questo declino è probabilmente dovuto ad un limite economico delle tecnologie o ad un limite del cervello umano. Siamo oggi approssimativamente all’85% di questo limite e lo spazio di sviluppo tecnologico diminuirà in tutti gli anni a venire.[40]

Ciò metterebbe evidentemente in dubbio la possibilità di raggiungere facilmente gli obiettivi cui aspirano i teorici dell’immortalità. Dello stesso avviso sembra essere William S. Bainbridge della National Science Foundation: non stiamo assistendo a risultati esponenziali quanto quelli realizzati nella potenza dei computer. Penso che siamo giunti ad un periodo dove il progresso sarà sempre più difficile in molti settori.[41]

Senza voler entrare nei quesiti di natura etica che questo tipo di innovazioni naturalmente suscitano e continuando quindi a riflettere sugli aspetti economici, Il tanto atteso breakthrough tecnologico, quello che darebbe il via ad una profonda modificazione del contesto economico come è già accaduto nella prima e seconda rivoluzione industriale, potrebbe forse prendere il via dalle ricerche di Google e altri sull’intelligenza artificiale come appena descritto.

Naturalmente, con i dati oggi in nostro possesso è difficile affermarlo con certezza. Per contro emergono alcuni elementi che certamente necessitano di ulteriori approfondimenti:

  • Innanzitutto, come si è visto, sembra controverso il periodo di tempo necessario per far sì che queste innovazioni dallo stadio prototipale possano affermarsi in modo generalizzato sul mercato. Tra ottimisti e pessimisti potremmo ritenere che si dovrà lavorare ancora per cinquanta o forse sessanta anni.
  • Ciò che l’affermarsi dell’intelligenza artificiale e dell’allungamento della vita umana potranno portare alla crescita dell’economia sembra ancora controverso. Almeno rispetto ai modelliche abbiamo conosciuto e in cui siamo vissuti dalla fine dell’ottocento. Uno sviluppo economico trainato dalle infrastrutture, dall’edilizia, dalla produzione di acciaio. Si potrà immaginare una domanda esponenziale di protesi e di organi artificiali, ci si potrà attendere che persone che vivranno più a lungo consumino di più e abbiano bisogno di medicine e supporto medico. D’altro canto il dubbio che possano parallelamente emergere problemi di sovrappopolazione appare rilevante. Sempre poi che la direzione intrapresa da questi settori di ricerca vada verso l’estensione della vita corporea e non si indirizzi, come da diverse parti sembra evidenziarsi, alla pura conservazione, nel cloud, dei pensieri e delle emozioni degli esseri umani.
  • Gli investimenti compiuti dagli operatori della new economy in queste direzioni non solo distolgono ingenti masse finanziarie da altri tipi di impiego forse più suscettibili di rilanciare l’economia nel breve e medio termine, ma avvengono attraverso la progressiva erosione delle posizioni di mercato di operatori tradizionali che si vedono restringere i propri margini di profitto e quindi la possibilità di effettuare nuovi investimenti nei loro core business.
  • Nei panni dell’economista e non del futurologo e con in mente le indicazioni di chi negli ultimi anni si è dedicato ai temi dello sviluppo economico, verrebbe da raccomandare che per il rilancio dell’economia a breve si debba puntare su forti investimenti nell’industria manifatturiera[42] e sulla diffusione delle innovazioni ad essa legate, tra le altre la manifattura additiva che potrebbe consentire l’apertura di nuove e decisive opportunità di mercato, una per tutte l’avvio di programmi per la conquista dello spazio, certamente in grado di essere paragonata per potenzialità di impatto ad una nuova e decisiva rivoluzione industriale.[43]

 

Per queste ragioni, con una visione sul mondo come oggi lo conosciamo, gli investimenti compiuti dai grandi della new economy appaiano assai distanti dalle esigenze di breve e medio periodo che l’attuale fase di ristagno economico richiederebbero. Il rilancio degli investimenti in infrastrutture e nell’industria manifatturiera, la ripresa dell’occupazione, il riequilibrio dei gap esistenti tra differenti aree del mondo e nello stesso occidente sviluppato tra le regioni più sviluppate e quelle in declino. Tutto ciò non sembra essere nell’agenda della new economy.

 

Il Contributo della New Economy allo Sviluppo Economico

 

 

Stiamo oggi vivendo un’epoca che non ha eguali nella storia dell’umanità.

Abbiamo assistito ad un’accelerazione tecnologica senza precedenti ma con l’avvento di Internet è come se avessimo raggiunto un tetto, un techonological plateu affermaCowen. [44]

Secondo questa visione: staremmo oggi vivendo in una sorta di “stagnazione tecnologica “che continuerà a esercitare i suoi effetti negativi sull’economia fino a che nuove, rivoluzionarie innovazioni tecnologiche si profileranno all’orizzonte e saranno in grado di fare da volano alla ripresa dell’economia, dell’occupazione e dei consumi.[45]

Possiamo definire questo periodo grande depressione o grande stagnazione, ciò importa relativamente. Quel che sembra possibile evidenziare è che mentre le aziende della new economyhanno dato molto ai propri fondatori e proprietari, poco stanno facendo in termini di sostegno all’economia.

E poco in realtà possono fare.

  • Il contributo all’ occupazione è del tutto marginale. Amazon ha 222.000 dipendenti, Google 57.000 dipendenti, Facebook ne ha 12.700. Kodak, al momento del suo massimo splendore dava lavoro a più di 140mila persone e aveva un valore di 28 miliardi di dollari. Il nuovo volto della fotografia digitale, Instagram, quando nel 2012 fu venduta a Facebook per un miliardo di dollari, aveva solo tredici addetti. Per contro, quando Ford e General Motors crescevano, nella prima parte del XX secolo, crearono milioni di nuovi occupati e non solo blue collar, ma anche impiegati e dirigenti. In altre parole, Parecchi dei maggiori prodigi tecnologici di oggi non contribuiscono a creare nuovi posti di lavoro. Essi genereranno grandi guadagni, ma senza riportare al lavoro molte persone.[46]
  • Sempre a proposito di occupazione, il recente studio condotto dal JP Morgan Chase Institute, ha stimato che le “on demand platform” del tipo di Airbnb o Uber, hanno generato nel settembre del 2015 un reddito per 1 milione di loro clienti, equivalenti all’1% del campione esaminato. Percentuale modesta verrebbe da commentare. Questo reddito inoltre, rappresentava non più di un terzo dei guadagni percepiti da chi ne ha usufruito. In sostanza esso non ha mai rappresentato la sostituzione di un lavoro full time quanto un’integrazione al reddito e per di più in forma sporadica.[47]
  • A differenza dei grandi gruppi manifatturieri che generano un ampio indotto e sono spesso all’origine di distretti industriali molto vitali, grazie agli spillover che sono in grado di generare, le aziende della new economyoriginanomodesti effetti moltiplicativi, trattandosi di attività che sono per lo più realizzate da macchine piuttosto che da persone. Addirittura il loro effetto, nelle aree di loro maggiore insediamento, risulta spesso negativo. Il successo della Silicon Valley l’ha resa un posto meno ospitale. I divari e le disparità sono più pronunciati che mai, i miglioramenti di reddito sono limitati solo a quei dipendenti in possesso di skill di tipo esclusivo. I salari di coloro che hanno delle competenze medie o basse sono stagnanti, le disparità tra razze sono più persistenti che mai e abbiamo anche assistito ad un forte aumento dei senza tetto. Così descrive la situazione della sua area il presidente del Silicon Valley Institute for Regional Studies[48]
  • Infine, se è vero che la grande azienda ha i mezzi finanziari e le risorse umane per produrre ricerca, con potenziali ricadute positive sul resto dell’economia, abbiamo visto dalla descrizione delle attività delle FANGs che sebbene gli investimenti in R&S risultino rilevanti, i settori su cui si concentrano, salvo pochi casi potenziali e al di là di possibili sviluppi futuri dell’intelligenza artificiale e della realtà virtuale, sembrano destinati nel breve e medio periodo soprattutto a far acquistare di più prodotti già esistenti. Niente a che fare dunque con le grandi rivoluzioni del passato che dai motori a scoppio, ai treni, al telefono e all’acqua corrente hanno cambiato radicalmente gli stili di vita delle persone aprendo nuovi e impensabili sviluppi all’economia e alla società.E anche dovessero avverarsi le profezie dei futurologi citati ci troveremmo senz’altro in un mondo in cui l’essere umano ha perso gran parte delle sue naturali caratteristiche biologiche ma ancora non è chiaro quale potrebbe essere, a fronte di questo dubbio risultato, il vantaggio economico che se ne potrà derivare.

 

In conclusione stiamo oggi probabilmente assistendo ad una forma di utilizzo intensivo dell’innovazione scaturita da Internet e dall’ICT per estrarre quanto più possibile dagli attuali modelli di vita e di consumo.

Nel frattempo la persistente stagnazione economica, la distruzione dell’industria manifatturiera nei paesi sviluppati – senza che modelli di ugual forza e capacità di catalizzazione riescano a sorgere altrove -la crescente disoccupazione, rendono sempre più difficile aumentare i consumi e spingono ad una riduzione costante dei margini di profitto e quindi della capacità di investire per costruire un nuovo modello di sviluppo economico.

[1] Letter to Shareholders, Alphabet Home Page

[2] Google Inc. Annual Report, 31 December 2014

[3]  Sergey Brin and Lawrence Page The Anatomy of a Large-Scale Hypertextual Web Search Engine, Journal
 Computer Networks 1998

 

[4] Steve Faktor: Deconstructing Google’Strategy, May 2013

[5]N., Carlson, The Untold Story of Larry Page Business Insider, April 2014

[6]Google Inc. Annual Report, 31 December 2014

[7] Ken Favaro, Investing, 7 September 2015

[8] The Economist, February 6th, 2016

[9] Ken Favaro, Cit.

[10] Mc Kinsey Global Media Report 2014

[11] Scott Cleland, Why You Can’t Trust Google Inc. Telescope Books, St. Louis, Missouri, 2011

[12] Scott Cleland,, Forbes, 15 Nov 2011

[13] Kira Radinsky, Data Monopolists Are Threatening the Economy, Harvard Business Publishing, 2 March, 2015

[14] Amazon.com 2014 Annual Report, Amazon’s frightening CIA Partnership, www. Salon.com 2014/12/01, Zack Analysts report Feb 4, 2016

[15] Forbes Tech Dec 14, 2011

[16]Benedct Evanz Why Amazon Has No Profits (And Why It Works) September, 5, 2014

 

[17] Benedict Evans, Cit.

[18] The Economist, How far can Amazon go? June 21 2014

[19] Salon, 27 Sept. 2014

[20] Onnesha Roychiudoudhri, Books After Amazon, Boston Review, November 01, 2010

[21] Salon,, cit.

[22] Onnesha Roychiudoudhri, cit.

[23] Ryan Cooper, Amazon, Google and the monopolization of the American economy, The week, October 6, 2015

[24] Facebook, Annual Report, 12/31/14

[25]http://www.biakelsey.com

[26]http://www.trefis.com/ Trefis Report, analyst’s Facebook coverage

[27] Trefis Report Cit.

[28] TMT Case Study: Comparing the Market to the FANGs (FB, GOOGL) By David Floyd | Updated February 10, 2016, Investopedia, 2 Reasons Why Investors Are Worried About 2016 By Rakesh Sharma | January 13, 2016

[29] Jim Cramer in Rebecca Borison The Street 1/29/16

[30] Michael Graham in Rebecca Borison cit.

[31] Brian Olsavsky, in Rebecca Borison cit.

[32]John Authers, Equities: And then there were nine, Financial Times, January 3 2016

 

[33]Si veda L. Gordon Crovitz, The Business of Restoring Trust, Wall Street Journal, January 30 2011,

[34]Andrew Griffin, Humans will become hybrids by 2030, The Independent, 4 June 2015

[35]Drake Baer, Google’s genius futurist, Business Insider, 27, May, 2015

[36]Ben Popper, Understanding Calico, The Verge, 19 September 2013

[37]Guia Del Prado, Mark Zuckerberg’s vision of the future, Business Insider, 2 July 2015

[38]ibidem

[39]Michael Rundle, Zuckerberg: Telepathy is the future of Facebok, Wired, 1 July 2015

[40]Jonathan HuebnerT A possible declining trend for worldwide innovationTechnological Forecasting & Social Change 72 (2005) 980–986

[41]Vedi The New York Times, Ashlee Vance, Merely Human? That’s so Yesterday, 12 June 2010

[42]Garry P. Pisano, Willy C. Shih, Producing Prosperity, Harvard Business Review Press, 2012, S. Berger, Making in America, The MIT Press, Cambridge (MA) 2013.

[43]https://www.nasa.gov/topics/technology/manufacturing-materials-3d/index.html

[44]T. Cowen, «The Great Stagnation», The New York Times, 2011

[45]F. Menghini, RivoluzioniIndustriali,Internet E SviluppoEconomico in I&C, Inverno 2015

[46]ibidem

[47]The Economist, Smooth Operators, February 20th – 26th 2016

[48]2014 Silicon Valley Index