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Articolo pubblicato sulla Rivista Studi Cattolici, n. 704 (Ottobre 2019)

Quando l’allergia alla libertà delle persone incontra la cultura del sospetto, per lo Stato di diritto si mette molto male. Se si aggiunge un tocco di statalismo e una spruzzata di sociologismo giuridico da esibire all’occorrenza mediatica, la miscela può diventare esplosiva. 

I guai della giustizia italiana non cominciano certo con il governo Conte bis, non foss’altro perché di lasciare la propria indelebile impronta i giallorossi non hanno avuto ancora il tempo. Né si può dire che il declino da culla del diritto a patria dell’arbitrio sia iniziato con l’esecutivo precedente e in particolare con la cessione della materia al Movimento 5 Stelle in regime pressoché di monopolio. E’ tuttavia fuori di dubbio che la deriva che negli ultimi decenni ha progressivamente scardinato l’equilibrio su cui si reggeva il nostro ordinamento abbia compiuto in questa legislatura un deciso salto di qualità. E la permanenza in capo alla medesima persona della titolarità della carica di ministro della Giustizia nonostante il cambio di governo è solo una delle ragioni per le quali è difficile confidare in un cambio di rotta. 

Dico subito in cosa si sostanzia il salto di qualità. Per molto tempo lo scivolamento verso un sistema segnato da incertezza del diritto e labili garanzie era stato determinato prevalentemente da una progressiva deformazione delle prassi applicative di norme in astratto ben congegnate (e ora forse bisognose di un tagliando). Pensiamo a strumenti come le intercettazioni o la custodia cautelare: mezzi invadenti e invasivi, in alcuni casi indispensabili ma disciplinati ab origine con la consapevolezza della loro eccezionalità, hanno cambiato natura essenzialmente per l’allargamento delle maglie interpretative, per il diffondersi di pessime pratiche annidate negli interstizi di legge, per la pressoché inesistente sanzione a fronte degli eccessi e degli abusi. Oggi si incide direttamente nel testo normativo, e la deriva strisciante si è fatta aperta rivendicazione di un sistema squilibrato e sostanzialmente illiberale che non ci si fa più remore a presentare all’opinione pubblica come desiderabile. 

Insomma: se per un ordinamento liberale la limitazione di diritti e libertà fondamentali e l’utilizzo del potere coercitivo e sanzionatorio è fondamentalmente un male necessario – e cioè un mezzo per la salvaguardia di beni reputati superiori, da utilizzare con proporzionalità e quando ogni altro mezzo sia inefficace -, la sua dichiarata trasformazione in fine quasi “redentivo”, volto più al pubblico ludibrio (ancorché talvolta meritato!) che al rigoroso accertamento della responsabilità penale, quasi che la minaccia sia non tanto la sanzione quanto l’indagine di per se stessa, è indice di una mutazione di prospettiva fin qui fattualmente percepita ma oggi programmaticamente postulata. Dimostrazione ne sia la disinvoltura con la quale si è ritenuto di poter trasferire tale nuova concezione della ricerca della prova (e spesso ormai della ricerca dello stesso reato) sul terreno delle nuove tecnologie – vedasi ad esempio l’impiego del trojan – con inconsapevolezza, o peggio indifferenza, rispetto a un potenziale invasivo di cui ancora non ci si rende pienamente conto. E’ evidente che se fosse semplice individuare a livello normativo il perfetto punto di caduta tra le esigenze delle indagini, il diritto all’informazione, il diritto di difesa e il diritto alla riservatezza delle comunicazioni, non staremmo qui a parlarne dopo anni e anni di tentativi andati a vuoto. Ma proprio la delicatezza e la complessità di tutto ciò che attiene alla sfera personale dei cittadini dovrebbe sottolineare l’esigenza di un approccio organico e consapevole. 

Uno degli indicatori più eclatanti di questo “cambio di paradigma” che individua nel procedimento giudiziario – indagine, azione penale, processo, sanzione – non più il mezzo con cui lo Stato tutela il bene comune ma uno strumento-fine di per sé palingenetico, lo si rintraccia nel nuovo approccio all’istituto della prescrizione. Spesso si tende impropriamente a rappresentare il dibattito pubblico su questo tema come un confronto manicheo tra le “forze del bene”, fautrici sostanzialmente di un “fine processo mai”, e le “forze del male” che attraverso l’estinzione temporale del reato vorrebbero sottrarre schiere di corrotti al braccio della legge. Nulla di più falso e fuorviante. 

L’avversione alla corruzione è un dato che per quanto mi riguarda do per scontato, e anzi ritengo che quanti si sforzano di fare politica e alimentare centri di pensiero e iniziativa a mani nude e senza scorciatoie illecite siano le prime vittime della corruttela nella gestione della cosa pubblica. Vorrei tuttavia segnalare a quanti ritengono che allungare ad libitum la data di scadenza sia un efficace antidoto rispetto all’impunità e alla gran mole di procedimenti che ogni anno vanno in fumo, che vi sono anche ragioni molto poco garantiste per non volere che i processi durino in eterno: oltre al diritto del cittadino a non trascorrere “una vita da imputato”, e all’esigenza che l’accertamento della verità processuale si compia quando la formazione della prova può ancora garantire un certo grado di attendibilità, vi è il diritto delle vittime ad avere giustizia (ed eventuale risarcimento) in tempi ragionevoli e vi è il diritto della società a sapere se una persona è colpevole o innocente e nel primo caso ad adottare le eventuali necessarie contromisure. 

Anche in questo caso si tratta di contemperare esigenze differenti e talvolta configgenti. Pensare però, come fa il ministro Bonafede, di poter allungare a dismisura la prescrizione e al contempo accorciare i processi attraverso misure dall’impatto scarsissimo se non virtuale, equivale un po’ a fare come il gran cancelliere Antonio Ferrer, che nella Milano dei Promessi Sposi “vide, e chi non l’avrebbe veduto? che l’essere il pane a un prezzo giusto, è per sé una cosa molto desiderabile; e pensò, e qui fu lo sbaglio, che un suo ordine potesse bastare a produrla”. Ecco, l’annunciata “grande riforma” in gestazione, uno dei pomi della discordia del governo gialloverde nell’imminenza della sua caduta, la riforma che secondo il Guardasigilli dovrebbe determinare la conclusione dell’80 per cento dei processi penali in 4 anni, somiglia parecchio alle misure di contenimento del prezzo del pane adottate dal cancelliere Ferrer. Non solo, per quel che se ne sa, si tratta di un testo che riesce a scontentare tutti senza accontentare nessuno, e dunque sostanzialmente inefficace e perciò potenzialmente dannoso, ma rappresenta la prova – se mai ce ne fosse stato bisogno – che nella visione pentastellata non è possibile neppure rintracciare quella coerenza sistemica che, al di là della condivisibilità o meno, caratterizza l’impianto giustizialista “puro” al quale i rappresentanti di punta il partito di maggioranza relativa professano di ispirarsi. 

Nella sua visione organica, infatti, l’approccio “hard” alla giustizia penale – che personalmente non condivido, ma che quantomeno ha una sua razionalità – postula un assottigliamento draconiano delle garanzie, prevede un uso eccentrico delle misure preventive e mal cela una tendenza alla presunzione di colpevolezza (fra le istanze ricorrenti, l’abolizione del divieto di reformatio in peius, il blocco della prescrizione con l’esercizio dell’azione penale, eccetera…), e tuttavia, di converso, presuppone che la macchina del processo si metta in moto soltanto per pochi e gravi reati. Per il resto, drastica depenalizzazione, con l’idea che fattispecie di non grande rilievo possano essere meglio affrontate ad esempio in sede amministrativa, e che una consistente diminuzione delle figure di reato abbia di per sé un ovvio effetto deflattivo. 

Coloro che nella vita politica italiana si propongono come interpreti di tale visione ne traggono invece un’ispirazione selettiva. Da un lato si affievoliscono le garanzie e si abbattono gli argini (già assai labili) contro la durata eterna dei processi, dall’altro si mette al bando qualsiasi idea di depenalizzazione e anzi si sposa appieno l’idea che il codice penale possa essere il rimedio a qualsiasi male della società. 

A quest’ultimo proposito, però, due specificazioni si impongono. La prima è che tale pervasiva cultura del sospetto non si limita a orientare la legislazione penale ma, soprattutto nell’ultimo periodo, ha “esondato” fino a invadere pesantemente la sfera delle attività imprenditoriali e a permeare la regolazione di ambiti ulteriori e altrettanto delicati. Con esiti a volte anche schizofrenici. Si pensi ad esempio alla più recente normativa in materia di attività dei partiti politici: a un partito regolarmente iscritto al pubblico registro sono richiesti tali e tanti adempimenti, spesso di dubbia utilità e accertata inefficacia, che fra un po’ sarà difficile finanche trovare persone disposte a candidarsi al consiglio comunale del proprio paese. Un movimento che, dopo aver imposto agli altri una visione giacobina e manichea, decida invece di non iscriversi al registro, perde alcuni benefici di legge ma può operare senza alcun obbligo di trasparenza, nemmeno se si affida a una piattaforma privata per assumere decisioni rilevantissime per la vita democratica del nostro Paese. 

La seconda specificazione è che il ricorso al panpenalismo e alla “legislazione segnaletica” non è una tendenza degli ultimi mesi ma è una deriva che, seppur con intensità crescente, affligge il nostro ordinamento già da qualche tempo. Con conseguenze devastanti. Se infatti si pone mente al campionario delle leggi partorite negli ultimi anni, ci si rende conto di un progressivo decadimento in termini di qualità normativa, di puntualità, di tassatività. Da un lato ci si è lasciati andare a leggi-bandiera soggette alla più assoluta discrezionalità interpretativa; dall’altro si è pensato di poter rispondere agli allarmi e spesso alle mode del momento attraverso norme penali segnaletiche assai poco meditate, superflue e dunque inevitabilmente dannose. 

La legislazione prodotta e in fieri sull’onda di un duplice erroneo convincimento – da un lato che la società sia costituita di presunti colpevoli che debbano faticosamente dimostrare la propria innocenza, dall’altra che lo strumento giudiziario sia una sorta di panacea per la soluzione di fenomeni sociologici – sta distorcendo la natura stessa del diritto penale. E’ molto preoccupante che si tenga sempre meno conto del principio di tassatività, è allarmante la parcellizzazione delle fattispecie dettata sostanzialmente dalla rassegna stampa quotidiana. Se tutto è penale, alla fine nulla sarà penale. E se tutto è penale e nulla è penale, tra norme bandiera e reati segnaletici, tra leggi vaghe e potenzialità interpretative infinite, saranno i diritti e le garanzie a fare la fine dei vasi di coccio, e con essi quel che resta dell’ordinamento democratico. 

Ce la prenderemo con i magistrati, ma i legislatori è innanzi tutto con le proprie responsabilità che dovranno fare i conti. Certo, gli accadimenti che hanno costituito ragione di discredito da parte dei cittadini nei confronti dell’ordine giudiziario – si pensi alle vicende che hanno interessato il Consiglio Superiore della Magistratura o ad altri casi di stringente attualità – devono essere affrontati con il dovuto rigore, sia sul piano contingente che su quello strutturale e ordinamentale. Chi tuttavia ha la responsabilità di rappresentare il popolo e in suo nome produrre le leggi dello Stato, di fronte a una giustizia malata non può non iniziare col chiedersi dove sia la sua parte di colpa. 

Restando ai giorni nostri, vedremo quali saranno gli orientamenti del nuovo governo, ma le premesse non fanno ben sperare, e non solo per ragioni di continuità. Io credo infatti che le forze che compongono l’attuale maggioranza di governo, sul versante giallo e in buona parte anche sul versante rosso e rosé, denotino un deficit di consapevolezza sulla comune radice della legalità e del garantismo da rinvenirsi nel rispetto della legge. Il garantismo correttamente inteso – non, dunque, come “licenza di delinquere” e innocentismo a ogni costo – postula da un lato, appunto, il rispetto della legge, e dall’altro la pretesa che l’azione giurisdizionale e l’esercizio del potere punitivo dello Stato avvengano secondo le regole. Si tratta, dunque, di null’altro che dell’applicazione del principio di legalità all’amministrazione della giustizia. 

Questo aspetto, denegato da un dibattito pubblico spesso semplicistico, è molto importante anche e soprattutto perché nel primato della legge risiede la chiave per ripristinare un corretto rapporto tra i poteri. Ed è sempre nel primato della legge che, al fondo, trova applicazione il principio della sovranità popolare, la cui massima espressione è la scelta da parte dei cittadini dei delegati all’esercizio del potere legislativo. 

Precondizione, però, è che le leggi siano scritte bene ed evitino margini di ambiguità. Al potere giudiziario si può imputare l’idea erronea che per via interpretativa si possano dilatare oltre misura le maglie giungendo a superare il dettato di norme ideologicamente non gradite, ben oltre lo scivolamento verso lo spirito del common law che trascende i confini del nostro Paese e per certi versi è difficilmente contenibile. Ma, a monte, il potere politico appare nel migliore dei casi inconsapevole della responsabilità che gli è attribuita, nel peggiore entusiasta di delegare di fatto a un ordine privo di raccordo con la legittimazione democratica prerogative ultronee rispetto a quelle previste dall’architettura dello Stato. 

Per evitare che consapevolmente o meno la magistratura esca dai suoi ranghi, la politica dovrebbe iniziare a definire con maggior rigore i propri. A cominciare da un esercizio qualitativamente adeguato della funzione legislativa. Sulla carta, la chiave per edificare un nuovo rapporto tra i poteri dello Stato sarebbe semplice: la politica fa le leggi, possibilmente le fa bene e possibilmente dà il buon esempio ed è la prima a rispettarle; il potere giudiziario le applica contando sull’autonomia e sull’indipendenza che l’ordinamento gli garantisce; la soggezione alla legge impedisce che, per via intepretativa, l’autonomia e l’indipendenza diventino arbitrio. 

Ma perché il circuito regga è necessario che il legislatore ci metta del suo. Potremo aspettarci che nel prossimo futuro ciò avvenga? Le premesse non suscitano ottimismo, ma restiamo in fiduciosa e operosa attesa di essere smentiti.