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I guai di Emmanuel Macron discendono da una molteplicità di fattori, alcuni contingenti, altri più strutturali. Fra questi, l’evidente e radicata incapacità dell’ex enfant prodige di comprendere che in Francia il Presidente della Repubblica non è più quello dei tempi di De Gaulle, né dei suoi più prossimi successori.

Le istituzioni della Quinta Repubblica francese tratteggiano una monarchia repubblicana nella quale il Presidente regna da solo e condivide il governo: è questa, a conti fatti, l’essenza del semipresidenzialismo. In molti ambiti, in particolare in politica estera, il Presidente è poco meno che un monarca assoluto. Ma c’è un primo ministro che deve ottenere la fiducia del Parlamento.

Rispetto al testo originario della Costituzione della Quinta Repubblica, quello del 1958 che prevedeva che il Presidente venisse eletto dalle Camere, l’elezione diretta introdotta nel 1962 impresse alla Carta fondamentale francese una tensione bonapartista e plebiscitaria. Questa tensione si manifestò per la prima volta nel 1965, quando De Gaulle fu costretto a sostenere un secondo turno per essere eletto. Gli seccò molto, e gli seccò ancor di più che i partiti fossero entrati nella contesa: per toglierli di mezzo aveva costruito un confessionale, e gli parve che il diavolo lo avesse conquistato!

Nel caso del suo primo (e unico) mandato, la sua concezione del rapporto diretto tra Re e popolo fu messa a dura prova. Accadde nel ’68, quando la protesta fece vacillare quella concezione al punto che il Generale per un giorno fece perdere le sue tracce. Se ne scappò a Baden Baden, a cercare il conforto di compagni d’armi. Superata quella crisi, non casualmente, un’altra prova plebiscitaria – un referendum – lo vide sconfitto e il Generale ne prese atto facendo definitivamente ritorno a Colombey-les-Deux-Églises.

A “secolarizzare” le istituzioni inventate da De Gaulle furono due suoi successori: il “delfino rinnegato” Georges Pompidou e Francois Mitterand che pure, a caldo, aveva definito quell’assetto costituzionale “un colpo di Stato permanente”. Per l’essenziale: introdussero stabilmente i partiti nella competizione immettendo un robusto “corpo intermedio” tra il popolo ed il “monarca repubblicano”, e legarono l’elezione diretta del Presidente a un più complessivo assetto sistemico del quale gollisti e socialisti divennero gli indispensabili pivot, rispettivamente sul versante destro e sinistro.

Tutto ciò è saltato in occasione delle ultime elezioni presidenziali. Emmanuel Macron è stato eletto senza popolo (percentuali minime al primo turno, astensione record al secondo) e senza corpi intermedi, costretto in fretta e furia a inventarsi un partito. I due partiti storici sono stati tagliati fuori e, in luogo di una dinamica inclusiva, si è palesato uno scontro tra sistema e anti-sistema.

Insomma: l’elezione del Presidente della Repubblica si è sbarazzata della sua storia e si è trasformata in un mero meccanismo d’ingegneria istituzionale.

Macron non se n’è accorto. Si è comportato come se non ci fosse nulla da riparare con la politica; come se la legittimazione del Presidente non avesse subìto un’onta. Non c’è da stupirsi se una protesta dal basso oggi dilaghi e non trovi corpi intermedi in grado di assorbirla. E il fatto che i contenuti di questa protesta siano in parte surreali rende ancor meglio la fragilità delle istituzioni.

Per governare società complesse, l’ingegneria costituzionale da sola non basta e diviene addirittura pericolosa quando divorzia dalla politica e non riflette dinamiche sociali profonde.

Avevamo provato a spiegarlo a Renzi al tempo dell’abbinata riforma della Costituzione – legge elettorale. Invano. Forse anche per questo Renzi non è diventato il Macron italiano e Macron rischia invece di trasformarsi nel Renzi francese.

 

da Huffington Post