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La libertà di scelta, la libertà del malato di accettare o rinunciare alle cure quando è cosciente, è un diritto sancito dalla Costituzione. In Italia, la legge vieta di attuare forme di accanimento terapeutico e sancisce il diritto che il paziente ha la libertà di chiedere la sospensione delle cure.

Infatti, l’art. 32, 2° comma della Costituzione, dispone che nessuno possa essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge. Da tale principio costituzionale si deduce che la scelta di sottoporsi o meno alle cure è un diritto di libertà della persona, per cui non è possibile praticare una cura contro la volontà espressa del paziente, anche quando l’omissione della cura o la sua sospensione porti alla morte. Se dunque il malato esercita il suo diritto di non curarsi, il medico ha l’obbligo di sospendere le cure e l’eventuale persistenza dell’attività medica viene condannata come accanimento terapeutico. L’eutanasia passiva consensuale è dunque considerata lecita ed oggi comunemente ammessa. Bisogna però precisare che la Costituzione non garantisce il diritto di morire, ma il più limitato diritto di non curarsi. Nel caso di Piergiorgio Welby l’accanimento è irrilevante dal momento che c’è la sua volontà espressa. E’ cosciente, capisce, e decide, ha detto chiaramente di voler rifiutare le cure e questa sua manifestazione di volontà rappresenta un diritto che tutti dovrebbero rispettare. E’ come un malato di tumore con metastasi: sa che l’operazione non servirà a nulla e la rifiuta. In sostanza chiede una diversa modalità di esercizio di un suo diritto fondamentale che, se negata, lo costringerebbe ad una morte lenta e prolungata. Chiede il superamento della ipocrita distinzione fra eutanasia attiva e passiva (quest’ultima consentita, almeno sulla carta, ai soggetti capaci di intendere e volere).

Da questa vicenda risulta evidente la necessità di introdurre una normativa specifica a disciplina della fattispecie in oggetto – c’è un vuoto normativo di fatto – ora lasciata alle soluzioni interpretative della giurisprudenza. Il dibattito sull’eutanasia nel nostro Paese è analogo a quello che nell’autunno del 2004 ci fu in Francia. L’iniziativa parlamentare dell’Assemblea nazionale francese è nata dopo il tragico caso di Vincent Humbert, un ragazzo rimasto tetraplegico dopo un incidente stradale, che chiese a Jacques Chirac “il diritto a morire” e che fu ucciso con un’iniezione dalla madre, aiutata da un medico. Partendo da quel dramma, i deputati francesi hanno deciso di scartare l’idea di depenalizzare l’eutanasia attiva o il suicidio assistito: non si tratta di “far morire”, ma di offrire la possibilità di “lasciar morire”. La legge pone il principio di base: “le cure quando appaiono inutili, sproporzionate o con l’unico effetto di mantenere artificialmente in vita, possono essere sospese o non essere iniziate”. E’ l’elemento principale del provvedimento: l’accanimento terapeutico dev’essere evitato. Se il malato in fase avanzata o terminale di una malattia è cosciente, potrà chiedere la sospensione delle cure e il medico dovrà informarlo delle conseguenze di quella scelta. Se invece è incosciente, la decisione dev’essere presa dal medico e dalla famiglia o da una persona di fiducia del malato. La normativa, dà un quadro entro cui dovranno muoversi medici, malati e familiari, non pretende di rispondere a tutto e non vuole creare nessun automatismo, ma rispettare la situazione soggettiva. Infine, ogni cittadino ha la facoltà di scrivere le sue “direttive anticipate” per indicare ai medici e ai familiari il comportamento da tenere. La legge infatti prevede l’introduzione di un “testamento di fin di vita”, equivalente di quel “testamento biologico” di cui aveva parlato l’ex Ministro della salute Girolamo Sirchia.

Il confronto politico auspicato anche dal presidente della Repubblica sull’eutanasia si annuncia lungo e difficile, ma in attesa di una legge che dia un quadro legislativo all’eutanasia dovrebbero essere applicate le regole che già esistono come la libertà di cura e il divieto di accanimento terapeutico. Lo Stato non è proprietario della vita delle persone. Perché la volontà del malato sia tutelata c’è bisogno di una legge chiara e articolata che inquadri e delimiti il fenomeno. Una norma che aiuti e prenda in considerazione le ragioni, le testimonianze, le iniziative di chi, pur in condizioni clinico-fisiche analoghe o anche peggiori di quelle di Welby, si impegna in una direzione contraria ossia per la continuazione della vita, testimoniando la volontà e la possibilità di vivere dignitosamente sino all’ultimo. Ma anche la possibilità di ognuno di noi di chiedere non di morire ma di “lasciar morire”: il rifiuto dell’ac­canimento terapeutico (che non è l’eutanasia).

In casi in cui ci sono interrogativi gravi e dubbi di sostanza, la nostra società, le nostre leggi e i nostri tribunali, dovrebbero avere una presunzione a favore della vita. Non può esistere un diritto a morire come nessuno può chiedere di nascere. Ma nessuna religione o ideologia può in alcun modo costringere, in una condizione così estrema e drammatica – dove l’esperienza, le cure palliative e le terapie del dolore non servono ad aumentare le certezze – la libertà di scelta, quale che sia. Né medici né filosofi od esperti, ma l’unico che può stabilire quanto l’esistenza è vivibile in un letto immobile e quanto è un inferno insopportabile è il malato.