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In un lungo editoriale su la Repubblica Ezio Mauro annuncia in modo scomposto e alquanto volgare la sua personale dichiarazione di guerra alla Chiesa cattolica e ai cattolici italiani, lanciando quasi un appello alla crociata dei laici contro i cattolici. L’intervento è profondamente sbagliato e Mauro dovrebbe vergognarsene. È sbagliato non per la passione con cui il direttore di Repubblica difende le proprie convinzioni ma per l’incapacità di confrontarsi con le ragioni dell’avversario o deformarle per farle corrispondere ai propri stereotipi, propri di un passato che non vuol passare. Vediamo quali sono i principali errori di Mauro che rendono difficile o impossibile il dialogo per mancanza del minimo indispensabile rappresentato dalla buona fede.

Nel suo nervoso furore laicista lo stantio livore anticattolico si sposa ad una serie di false e patetiche caricature dell’intera presenza della Chiesa nella società italiana. Abbiamo così una Chiesa che – secondo Mauro – pur vivendo in un paese «cattolico per battesimo ma scristianizzato nei fatti» si lancia in una forsennata operazione di potere e di egemonia culturale sulla società italiana. Secondo tale farneticante ricostruzione essa «entra in contraddizione con le altre grandi agenzie valoriali» (ma quali sono?) «e le centrali culturali» (forse i poteri forti nei media e l’ideologia relativista dominante?), «si “lobbizza” agendo da gruppo di pressione» sulla politica e sulla legislazione. Una chiesa che fa «politica di scambio» e che fatica a «stare dentro la regola della maggioranza» e che osa «dubitare del principio per cui in democrazia le verità sono tutte parziali» e che solo lo Stato (con la maiuscola nel testo) è assoluto e non può quindi contemplarne altri. E il delirio continua. La Chiesa ha solo di mira la volontà di “potenza” e la “forza” e ogni dichiarazione etica nasconde un “valore ideologico” e ancora, le viene imputato il desiderio di costruire un «nuovo “cristianismo” con la fede svalutata in ideologia».

Mauro sembra avere una formazione culturale libertina, per certi versi più vicina cioè ad un Naudè, che immediatamente precorre La Città degli atei di Bayle, piuttosto che apparentata a Kant. Per la sua filosofia della storia la religione è destinata ad arretrare continuamente davanti alla forza della secolarizzazione e del relativismo immanentistico, fino ad estinguersi. Gli secca moltissimo e lo rende alquanto nervoso il fatto che la storia non cammini secondo le sue direzioni. Gli aveva già però risposto Tocqueville che aveva scritto intorno al 1835: «I filosofi del secolo XVIII spiegavano in un modo molto semplice il graduale affievolirsi della fede. Lo zelo religioso, essi dicevano, deve estinguersi via via che la libertà e la cultura aumentano. Ma è spiacevole che i fatti non vadano d’accordo con questa teoria». È vero d’altra parte che in Italia abbiamo avuto, soprattutto negli ultimi venti anni, un intenso processo di laicizzazione del costume e della cultura che ha profondamente eroso la coscienza cattolica della nazione ma questo processo non ha saputo sostituire a quella coscienza una forma di coscienza laica. Al contrario la laicizzazione si è tradotta in pratica nella affermazione di un assoluto relativismo e permissivismo etico e in una dissoluzione delle coscienze, cattoliche o laiche che fossero.

Ma i modernisti alla Mauro non colgono la dialettica interna del moderno e la sua complessità, e non intendono come il compito del cattolico nella modernità non è quello di farla propria né di avverarla, ma quello di salvarla dall’inevitabile capovolgimento cui essa è esposta se non riguadagna una visione realistica della soggettività umana. Questo è ciò che la Chiesa ha invece capito fin dal Concilio e affermato con lucidità sorprendente da almeno un quarto di secolo. L’unico potere che ha la Chiesa in una società secolarizzata come la nostro è il “potere dei senza potere”, vale a dire il potere di dire la verità sulla dignità trascendente della persona umana e di parlare esclusivamente alla coscienza, al cuore e all’intelligenza delle donne e degli uomini del nostro paese. Indicare i pericoli che derivano dal relativismo non significa di per sé contraddire la tesi che la convinzione granitica delle proprie certezze può condurre ad atteggiamenti di squalifica o di persecuzione dell’avversario.
Ha qui un rilievo decisivo il tipo di convinzione religiosa di cui si parla ed il modo in cui in questa convinzione si legano la libertà e la verità. Contro chi affermava i diritti della verità contro la libertà umana, nel secolo XIX Rosmini e Lord Acton hanno spiegato che la verità esiste per dare senso e forma alla vita dell’uomo. La verità però può svolgere questa funzione solo se è accolta dalla libertà della persona. Ogni forma di costrizione annulla la possibilità che avvenga l’incontro fra la verità e la persona. La verità è una cosa che devi pensare da solo, con la tua testa e con la tua libertà. Nessuno può farlo al tuo posto, nessuno può farlo per te. Se poniamo in cima all’ordine dei valori la persona che in un certo senso tutti li compendia perché solo in essa e attraverso di essa essi assumono il loro significato esistenziale, allora abbiamo raggiunto una posizione che è perfettamente compatibile con la democrazia e anzi, in un certo senso, la postula. Si potrebbe usare, per illustrare questa visione, la famosa espressione (per tutti fuorché forse per Mauro) di Voltaire: io aborro tutto ciò che tu dici e che tu fai ma sono pronto a dare la vita perché tu conservi il diritto di dirlo e di farlo. Per riconoscere questo diritto non è necessario essere scettici. È sufficiente riconoscere la dignità della persona umana.

Questa visione che oggi la Chiesa ci ripropone e che il Cardinal Ruini intelligentemente interpreta è stata integralmente recepita dal Concilio Ecumenico Vaticano II nella Costituzione Dignitatis Humanae e riproposta con forza sia da Giovanni Paolo II che da Benedetto XVI. La fede non si impone con la forza e tantomeno con il potere dell’egemonia politica. Bisogna naturalmente intendersi su cosa appartiene alla fede e cosa appartiene alla ragione. Esiste un certo bigottismo laicista che contrassegna sbrigativamente come fideistica qualunque proposizione sia sostenuta da un cattolico. Il fatto che esista una chiara distinzione fra morale e diritto o etica e politica non vuol dire che non esista una sfera del diritto in cui è lecito, giusto e necessario imporre limiti alla libertà individuale. In linea generale e rifacendosi alla morale kantiana possiamo dire grosso modo che quando il nostro comportamento assume come oggetto un altro essere umano o comunque interferisce con la sua libertà allora ci troviamo nella sfera non solo della morale ma anche del diritto. Qui è perfettamente possibile apporre dei divieti non per imporre la verità ma per salvaguardare il diritto o l’interesse legittimo dell’altro essere umano. È caratteristica del nuovo laicismo (non del vecchio) la difficoltà nell’intendere il ruolo del diritto. Prevale piuttosto l’idea del “vietato vietare” anche se è di per sé evidente che senza un sistema di divieti una società non può esistere. Questa è forse la differenza più rimarchevole fra vecchio e nuovo laicismo. È appena il caso di ricordare il ruolo centrale che per l’Illuminismo ha il concetto di “diritto naturale”. Si potrebbe perfino dire che il nuovo laicismo alla Mauro si ottiene dall’antico per sottrazione dell’idea di ragione naturale e di diritto naturale. Come stabiliremo quali divieti vanno adottati all’interno della sfera pubblica? Attraverso una discussione libera, direbbe H. J. Habermas. La discussione pubblica obbedisce ad alcune regole. Se ne potrebbero enunciarne due di particolare rilievo nel nostro caso. Nessuno pretenda di addurre come argomento probante la propria fede o convinzione morale. Non si può dire “è così perché sta scritto nella Bibbia”. A parte il fatto che spesso la Bibbia si può leggere in più di un modo, questo argomento presuppone un principio di autorità che non vale nella sfera politica. La seconda regola è che nessuno pretenda di squalificare il proprio avversario a causa della sua appartenenza religiosa. Tesi contenute nella rivelazione possono essere presentate anche nella discussione politica a patto che esse vengano argomentate in modo ragionevole e laico e valutate, ed eventualmente contraddette, con argomenti altrettanto razionali. Come non si può imporre l’autorità della Bibbia non si può nemmeno imporre il dogma del relativismo pretendendo che esso venga accettato in via preliminare.

La discussione politica è una discussione aperta. E ognuno difenderà le sue posizioni con argomentazioni di natura etico-politica, e cercherà poi di convincere gli altri. Essa non può tuttavia essere una discussione infinita. Per arrivare alla decisione è bene cercare un accordo fra tesi diverse per mezzo di ragionevoli compromessi. Il compromesso, ove possibile senza violare principi e valori irrinunciabili, in politica non è un vizio ma una virtù. Ove il compromesso non sia possibile si vota ed ognuno ha il diritto di votare secondo il proprio convincimento. Ovviamente qualcuno vincerà e qualcuno perderà. Chi perde è tenuto ad accettare il risultato del voto ma non gli si può togliere la speranza di capovolgerlo alla prossima occasione spiegando meglio al popolo la sua visione delle cose e conquistando per essa una maggioranza. Questi sono i principi di una società liberale, nella quale soggetti di diversa ed anche opposta convinzione etica possono convivere come cittadini con eguali diritti. Una simile società liberale sarebbe distrutta se si accettasse il relativismo etico come nuova religione civile, con il necessario corredo di una inquisizione laica e di una polizia laica della coscienza.

Ma il nocciolo dell’editoriale di Mauro consiste in una serie di considerazioni sul cattolicesimo politico italiano. È qui che sta forse la fonte di tanto nervosismo. Secondo questa strampalata visione, la Chiesa con i suoi pronunciamenti morali sta puntando a diventare una “parte” completamente politicizzata che si va a contrapporre alla nascita del fantomatico partito democratico. Ecco il punto. Tutto questo astio per impedire alla Chiesa di rivolgersi con il suo insegnameto morale e religioso a quei cattolici pronti ad allearsi con la sinistra ex comunista. Su questo si sta avverando però la profezia filosofico-politica di Antonio Gramsci, in relazione al cattolicesimo progressista e in generale al modernismo. Per lui il vecchio PPI ha il compito di ravvivare le forze cattoliche e condurle sul terreno della democrazia. Compiuto questo compito storico i cattolici democratici si suicidano e consegnano le masse cattoliche ad una dialettica politica non più influenzata da modelli e rappresentazioni religiose. Per Gramsci tale dialettica politica della democrazia sarebbe stata determinata essenzialmente dalla lotta di classe e quindi le masse cattoliche avrebbero dovuto, seguendo il loro interesse di classe, sottoporsi alla direzione del partito rivoluzionario marxista. (Ordine Nuovo, 1921)

Per Mauro comunque tutti possono svolgere un lavoro di “lobbying” a sostegno delle loro convinzioni e delle loro ragioni in un paese democratico. Solo i cattolici non possono, perché essi sono nel nostro paese una massa oscurantista, rurale e analfabeta (come scriveva Fortebraccio sull’Unità di un tempo). Ma le cose stanno diversamente. Sulla questione infatti dell’equiparazione delle coppie omosessuali alla famiglia fondata sul matrimonio non sono in gioco pressioni dei vescovi sullo stato ma la coscienza dei cittadini credenti, e probabilmente anche di tanti non credenti. Con questa coscienza e con le sue ragioni Mauro deve fare i conti se ne è capace invece di invitare i vescovi a tacere ed a fare tacere i laici cattolici con la minaccia di destabilizzare la politica italiana. Forse Mauro in questi anni si è distratto e il suo ragionamento è vecchio e polveroso. La rivoluzione contro la famiglia c’è già stata, negli anni ’70, ed è finita. È finita perchè non si è riusciti a trovare nessuna agenzia alternativa alla famiglia per la educazione dei bambini. In America, e forse fra poco anche da noi, sta crescendo una nuova generazione di uomini che non hanno efficaci modelli paterni, che non hanno voglia di lavorare e di osservare le leggi perchè sono cresciuti fuori di un contesto familiare. Per ridare una spina dorsale alla società bisogna tornare ai valori familiari. Non lo dicono i vescovi cattolici, lo dice Tony Blair, lo ha ripetuto più volte, anche nel suo programma elettorale, W.J.Clinton, ed essi non lo dicono per ragioni ideologiche. Lo dicono per ragioni pragmatiche, per trovare soluzioni ai problemi dei loro paesi. Paesi dove la rivoluzione anti/famiglia c’è già stata, ed è finita, ed ha lasciato dietro di sé solo enormi disastri sociali che i politici locali cercano di rimettere insieme.

Con buona pace di Mauro né Kant né Mill forse sarebbero mai arrivati a concepire l’idea di mettere sullo stesso piano giuridico del matrimonio le unioni omosessuali, semplicemente perché sapevano che il matrimonio ha a che fare con la riproduzione biologica, sociale e culturale della società, e perciò non può essere solo una questione che riguarda le forme della vita privata – così come la convivenza di persone dello stesso sesso – bensì una realtà sociale, un interesse pubblico e una prestazione sociale, che necessita di riconoscimento morale, sostegno statale, favor giuridico e morale corrispondenti, così come di regolazione mediante le leggi. Ma è proprio vero che il permissivismo (“vietato vietare”) ed il relativismo assoluto (“nulla è vero quindi tutto è permesso”) sono la filosofia adeguata per una società di libero mercato e di istituzioni liberaldemocratiche? Sembra lecito e doveroso dubitarne. Sembra piuttosto che le nostre società, come del resto ogni altro tipo di società, abbiano bisogno di un forte insieme di motivazioni altruistiche e di morale. Il mercato funziona sulla base di un insieme di presupposti etici e giuridici. Esso suppone una precisa regolamentazione istituzionale, anzi è esso stesso, in un certo senso, una istituzione liberaldemocratica. Quando queste motivazioni etiche vengono meno, allora lo stato si dissolve. Incontriamo qui il paradosso delle società liberali, ben formulato da Bockenforde: se esse hanno una ideologia, che fa capo a valori assoluti ufficialmente sanzionata dallo stato, cessano di essere liberali e diventano totalitarie. Se invece non hanno nessuna ideologia, allora non producono i valori di cui pure hanno bisogno per sussistere e si decompongono a causa della corruzione.

Se il progetto gramsciano fosse riuscito esso avrebbe sostituito la Chiesa cattolica con una Chiesa marxista, e ciò avrebbe portato di per sé ad una società totalitaria. Poiché esso è fallito siamo alle prese con una società relativista e in parte corrotta. Non è quindi il cattolicesimo ma il diffondersi del relativismo etico la causa della crisi morale del paese. Il pensiero laicista è riuscito ad indebolire il cattolicesimo ma non è riuscito a sostituirlo. Anzi, nelle sue ultime versioni, ha rinunciato a combattere il relativismo e si è piuttosto identificato con esso. L’opposizione fra cattolicesimo e senso dello stato sussiste certamente se si ha in mente uno stato etico o “stato come tutto” alla Mauro, che si pone come un assoluto nell’ordine morale e che è quindi al tempo stesso una vera e propria chiesa laicizzata e immanentizzata. In questo caso, però, è difficile qualificare l’assenza di quel senso dello stato in modo negativo. Al contrario essa è una potente resistenza contro il totalitarismo, condivisa da molte correnti del pensiero liberale.

Lo stato rinuncia ad avere una ideologia propria immanente. Esso rinuncia quindi ad avere una chiesa di stato, che abbia la funzione di formare gli uomini dotati dell’insieme di valori di cui lo stato ha bisogno per esistere e deve dunque sperare che questi valori emergano dalla società. È questa che deve fornire autonomamente la atmosfera morale in cui lo stato può prosperare. Nella società questa funzione formativa è svolta dalle chiese. Non è un caso che la democrazia emerga in un ambiente umano profondamente religioso. Lo stato non si crea una sua “religione civile” di tipo rousseauniano ma utilizza gli elementi che gli forniscono le religioni esistenti. Esso rinuncia a privilegiare una religione particolare ma ha un atteggiamento fondamentalmente positivo verso le religioni in generale. Non si limita a tollerarle rigettandole nel privato ma ne riconosce la funzione sociale e le favorlsce nel suo espletamento (Tocqueville). Ciò suppone una chiara distinzione di religione e politica, ma anche una consapevolezza della loro connessione. Le religioni immanentistiche travestite da filosofie, con cui la questa modernità spesso ha cercato di sostituire il cristianesimo, hanno il difetto di trasformare immediatamente la religione in politica. La dissoluzione dell’etica nella politica produce però, come è noto, lo spettacolo terribile del ’900. Le religioni trascendenti, e in modo del tutto particolare il cristianesimo, conoscono la differenza fra questo mondo e un altro mondo, in cui soltanto regnerà una perfetta e consumata giustizia. Per questo pensano di poter giudicare la società esistente e di poter indicare le vie del suo miglioramento senza però mai far coincidere una forma politica con il bene assoluto. In questo senso si può dire che le religione trascendenti hanno di per sé un certo potenziale antiautoritario.

Tirando le somme delle cose dette possiamo dire che lo stato libero vive di un delicato equilibrio di religione e politica. La religione crea le condizioni per la desacralizzazione della politica (contro il totalitarismo) ma al tempo stesso le fornisce un contenuto morale (contro il relativismo). Fa questo non nell’assolvimento di un compito che le viene attribuito dallo stato, ma svolgendosi secondo la propria natura e mantenendo intera la sua indipendenza. Conflitti particolari fra sfera politica e sfera religiosa sono pertanto sempre possibili ma il loro rapporto fondamentale è di collaborazione. La religione influenza la politica non direttamente ma per mezzo della società civile, di cui forma, in regime di libertà, le convinzioni morali.

È tempo forse di passare ad una nozione di laicità che per un verso distingua la politica dalla religione in modo rigoroso (rifiutando ogni religione civile o secolare) e dall’altro riconosca senza pregiudizi l’ineliminabile funzione sociale della religione, garantendo le condizioni esterne perchè questa funzione possa essere svolta a favore di tutta la collettività. Non serve allora rivolgere minacce di un nuovo Kulturkampf anticattolico sperando di intimidire sia la Chiesa sia i laici cattolici. Conviene piuttosto praticare il rispetto e l’ascolto perché si dovrà percorrere assieme un lungo tratto di strada. I cattolici italiani amano più che mai il dialogo ed il confronto sul futuro etico-politico della nostra società ma sapranno certamente reagire alla prepotenza di chi pretende confinarli fuori dalla storia.