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  1. Le cause del mutamento politico della regione 

La regione MENA (Middle East and North Africa) è caratterizzata da una notevole instabilità. Quest’ultima è stata accelerata per il Medio Oriente prima dalla rivoluzione komeinista – a cui le monarchie del Golfo avevano reagito finanziando l’aggressione di Saddam Hussein all’Iran – poi dall’attacco americano all’Iraq. In tutta la regione, i mutamenti geopolitici sono stati accelerati dalle primavere arabe e dal sorgere di movimenti terroristici di matrice islamica: al-Qaeda e ISIS. L’instabilità si è estesa negli ultimi anni al Mediterraneo Orientale, per i contrasti esistenti fra la Turchia e gli altri paesi nella definizione delle Zone Economiche Esclusive (ZEE), finalizzata allo sfruttamento del Bacino Levantino e delle sue ricche risorse di petrolio (secondo lo USA Geological Survey, pari a 1,7 miliardi di barili) e di gas naturale (all’incirca 1.000 miliardi di metri cubi). Le tensioni si sono accresciute dopo il provocatorio “colpo di mano” turco del novembre scorso. Erdogan ha esteso, d’intesa con il GNA del libico Sarraj, le ZEE della Turchia e della Libia. La decisione viola il diritto del mare e l’interesse di altri Stati, in particolare della Grecia, di Cipro, dell’Egitto e d’Israele, oltre che dell’Italia (ENI) e della Francia (TOTAL). L’intera UE è poi interessata al gasdotto EastMed, sostenuto anche dagli USA per diminuire la dipendenza dell’Europa dal gas russo, che secondo Washington ne sta condizionando la politica. Il gasdotto, che avrebbe una capacità iniziale di 12 miliardi di metri cubi di gas all’anno – dovrebbe portare in Europa il gas del Bacino. Una sua piccola parte,  peraltro, sta già affluendo in Europa dopo essere stato liquefatto nei due impianti di liquefazione egiziani. Con l’EastMed l’UE potrebbe diversificare l’approvvigionamento di gas naturale, diminuendo la sua dipendenza dalle forniture russe, che con il Turkstream (capacità di 31miliardi di metri cubi all’anno) transitano in misura crescente dalla Turchia. Quest’ultima mira a divenire l’hub gasiero del corridoio Sud, acquisendo un notevole leverage sull’UE, che certamente Erdogan si propone di utilizzare disinvoltamente come sta facendo con la minaccia di far affluire in Europa i milioni di rifugiati presenti sul suo territorio. Le dispute energetiche si sommano a quelle preesistenti fra la Turchia, la Grecia e Cipro e quelle fra la Turchia e l’Egitto, acuitesi dopo il colpo di Stato che ha cacciato dal potere al Cairo il presidente Morsi e la Fratellanza Musulmana, facendo svanire il sogno “ottomano” di Erdogan di potere influenzare i regimi sorti a seguito della “prima primavera araba”. Le critiche del presidente turco all’accordo Sykes-Picot, che aveva diviso fra la Gran Bretagna e la Francia le spoglie dell’impero ottomano, le ingerenze turche anti-curde in Siria, in Iraq (la Turchia non ha mai rinunciato a Mosul, per la cui area sono previsti sin dal 1923 – pace di Losanna – fondi nei bilanci annuali) e anche il recente accordo militare con il GNA libico di Sarraj, concluso unitamente a quello sulle ZEE, rientrano in questo disegno a lungo termine. La Turchia, da fattore di stabilità, si è trasformata in uno d’instabilità nell’intera area, anche perché ha consolidato la strada del ritorno di Mosca in Medio Oriente. La politica islamo-nazionalista di Erdogan è alquanto disinvolta, malgrado le difficoltà economiche, alcune sconfitte politiche (particolarmente bruciante è la perdita del municipio di Istanbul e la scissione dell’AKP voluta dai due ex-primi ministri Babacan e Davutoglu. 

Per effetto della politica di Ankara, il Mediterraneo Orientale sta trasformandosi in un’area di competizione e di crescente militarizzazione, anche per il disimpegno navale americano e per le divisioni esistenti nell’UE, incapace di reagire alle provocazioni e minacce turche. Anche i rapporti con la NATO e gli USA si sono raffreddati a seguito dell’acquisto da parte turca di sistemi antimissile russi, a cui è fortunatamente seguita la cancellazione da parte USA della cessione di F35B, che sarebbero stati imbarcati su navi anfibie, aumentando le capacità turche di proiezione di potenza in tutto il Mediterraneo. Gli intenti “ottomani” a medio-lungo termine di Ankara sono stati chiaramente esplicitati nell’articolo di Erdogan pubblicato dal “Politico” il 18 gennaio. 

Con il loro solo soft power e con i continui, ormai fastidiosi, appelli al “dialogo” alla “prudenza” e al “senso di responsabilità”, l’UE, in particolare l’Italia non solo divengono irrilevanti, ma stanno suscitando il sarcasmo generale. Stanno anche incentivando Erdogan a iniziative disinvolte e provocatorie. Fa parzialmente eccezione la Francia, come dimostra l’invio in Mediterraneo Orientale del gruppo navale della portaerei Charles de Gaulle, con il chiaro scopo di creare una deterrenza a favore delle attività svolte dalla TOTAL nell’area. 

La posizione italiana a riguardo dei problemi del Bacino Levantino e del gasdotto EastMed (raccordato con il Salento dalla sua diramazione Poseidon) è stata oscillante e ambigua. Il presidente Conte aveva dichiarato a Bari, la scorsa estate, il disinteresse italiano per l’opera; il ministro Patuanelli ne ha sostenuto invece la necessità con l’omologo greco; il ministro degli esteri Di Maio non ha firmato al Cairo un documento in cui i partecipanti all’Eastern Gas Forum, esprimevano pesanti critiche nei confronti della prepotenza turca nella definizione unilaterale delle ZEE. La mancanza di coordinamento nel governo è stata simile a quella tenuta nei confronti della crisi libica, oscillante a seconda degli umori della politica interna, con conseguente marginalizzazione del nostro Paese e compromissione degli interessi nazionali. L’ENI è stata lasciata politicamente sola. Solo il nostro ambasciatore a Tripoli Buccino Grimaldi e gli ottimi rapporti con il capo della NOC libica, Mustafà Sanalla, hanno salvaguardato la posizione della nostra compagnia, presente in Libia da oltre cinquant’anni. Come recentemente posto in rilievo dal presidente della Federpetroli- Italia, trarremo vantaggi anche dal possibile ritorno sulla scena politica libica di Seif al-Islam Ghaddafi, che sembra disporre di notevoli risorse finanziarie depositate all’estero e che ha ricevuto una specie di avallo da parte del maresciallo Haftar.   

     

  1. Cause interne dell’instabilità dell’area MENA

Le ragioni dell’instabilità della regione sono innanzitutto interne ai singoli Stati. Derivano dalla loro debolezza in tutto il mondo arabo. La “forma Stato-nazione” è estranea alla cultura politica dell’Islam arabo. E’ stata imposta dalle potenze coloniali. Gli Stati non si sono legittimati con la creazione delle nazioni, ”plebiscito di ogni giorno”, con il processo iniziato in Europa dopo la guerra dei trent’anni e la pace di Westfalia. Gli Stati sono rimasti sostanzialmente tribali, con l’eccezione della Turchia e dell’Iran, cioè delle potenze regionali non-arabe, orgogliose eredi di grandi imperi del passato. 

Con la debolezza delle istituzioni statali, indebolite anche dalle primavere arabe, gli Stati sono rimasti in mano alle forze militari dei regimi autoritari o, quando esse non sono sufficientemente forti, ai tradizionali attori sub-statali, spesso legati ad affinità e a movimenti transnazionali. Prevalgono le dinamiche delle identità etniche, tribali e religiose. Almeno nel breve-medio periodo è da escludere che il trentennio dell’instabilità dell’area possa concludersi con il prevalere di un modello simile a quello di Westfalia. 

Anche il modello alternativo, quello degli Accordi di Helsinki, che dovrebbe sancire nuovi equilibri interni e regionali, sembra impraticabile. Senza istituzioni statali sufficientemente solide non sono possibili neppure strutture multilaterali. L’imposizione di nuovi equilibri da parte dell’Occidente – in pratica una ricolonizzazione – è impraticabile. Non esistono né la volontà né gli strumenti né l’interesse a farlo. Il binomio “mercante-guerriero” (a cui spesso si aggiungeva il missionario), che aveva provocato la colonizzazione da parte degli Stati europei non esiste più. Gli eserciti ipertecnologici occidentali non sono più in grado di controllare i territori. I principi e valori dell’Occidente impediscono di praticare il livello di violenza che sarebbe necessario per domare i “barbari guerrieri”, tanto più che essi sono resi forti dalla diffusione delle tecnologie belliche.

Anche i modelli imperiali ottomano e safavide-persiano non appaiono in grado di garantire nuovi equilibri nell’area MENA. Gli arabi non li accettano, come dimostra la forza dei movimenti sciiti iracheni anti-Iran. 

Non si può realisticamente sperare in nuovi equilibri di potenza locali e regionali. I problemi di sicurezza dell’Occidente (rifornimenti energetici, terrorismo, ondate migratorie, traffici di droga e di armi, ecc.) permarranno. Le fantasie di democratizzazione, accarezzate dai neo-conservatori americani –  sono miseramente affondate. Hanno provocato solo nuovi disastri. Forse, la soluzione meno pericolosa è quella di favorire la diffusione di strutture autoritarie, in pratica il dominio di una tribù sulle altre. Solo così Medio Oriente e Africa Bianca potranno servire da filtro alle ondate migratorie dell’Asia Meridionale e dell’Africa sub-sahariana. Donald Trump l’ha forse capito, definendo al-Sisi (e forse anche Haftar) il suo “dittatore preferito”, dopo le fantasiose ubriacature di Barack Obama sulla convertibilità alla democrazia di tipo occidentale.

L’instabilità interna delle società MENA, deriva non da ragioni economiche e dalla crescita demografica, peraltro inferiore a quelle della regione sub-sahariana, ma anche dalla diffusione dei social media, elemento già rivelatosi determinante nelle primavere arabe. Le loro “reti” conferiscono ai movimenti di massa una capacità e, soprattutto, una rapidità di mobilitazione molto superiore a quella delle forze di sicurezza. Queste ultime sono organizzate gerarchicamente, con sistemi di comando, controllo e informativi “a piramide”, quindi più lenti. Anche gli Stati autoritari, che dispongono di forti apparati d’intelligence e di sicurezza, hanno difficoltà a prevenire proteste e rivolte e a intervenire tempestivamente per contenerle. Sono perciò costretti ad usare una forza eccessiva, che trasforma le manifestazioni di piazza in insurrezioni, come avvenuto in Siria e in Libia. 

Le brutali repressioni non solo erodono la coesione e la legittimità dei governi, ma creano vuoti di potere. Essi, da un lato, attivano la cultura della rivalsa e della vendetta, propria di tutti i paesi MENA, da parte dei gruppi locali e tribali che si ritengono danneggiati o semplicemente offesi. Attirano anche l’intervento di altri paesi o di attori sub-statali stranieri a sostegno dei gruppi a cui si sentono legati per ragioni settarie, etniche o religiose. Le guerre civili si trasformano così in guerre per procura, difficilissime da gestire. Il caos da locale si trasforma in regionale. Ha ormai interessato l’intera area MENA. Egitto, Arabia Saudita ed Emirati combattono in Libia la Fratellanza musulmana, sostenuta da Turchia e Qatar. La Turchia combatte i curdi in Siria e in Iraq. L’Iran ha approfittato della guerra in Iraq e in Siria per perseguire il sogno della “Mezzaluna Sciita” dall’Afghanistan al Mediterraneo. Anche la Russia ha approfittato del caos in Siria e in Libia, per fare ritorno nel Mediterraneo. Nella prima ha cooperato con l’Iran e anche con la Turchia, con gli accordi di Astana e di Sochi. Nella seconda, appoggia Haftar d’intesa soprattutto con l’Egitto, nel quale cerca di consolidare la sua presenza anche con l’investimento di 7 miliardi di dollari nella zona del Canale. 

  1. Le cause esterne dell’instabilità della regione MENA

Altrettanto importanti sono i fattori esterni del caos geopolitico diffusosi nell’intera regione.  Ad alcuni abbiamo già accennato. Ma ne esistono molti altri, connessi direttamente o indirettamente all’ambiguità e al relativo disimpegno americano e all’assenza della divisa e imbelle Europa. Entrambi hanno determinato in tutta l’area “vuoti di potere” che altre grandi potenze si sono affrettate a colmare. L’intera area MENA è divenuta un terreno di competizione e, almeno potenzialmente, di scontro fra di esse. Il ritorno di Mosca è stato soprattutto politico e militare. Quello della “sorniona” Cina economico, anche con gli investimenti della nuova Via della Seta, sia marittima che continentale. “Sorniona” perché Pechino evita accuratamente di assumersi responsabilità, a differenza di Mosca che con le sue manie imperiali rischia di sovraesporsi nell’area, in modo analogo a quanto Stati Uniti. Con gli accordi del Quincy del 1945, gli USA subentrarono alla Gran Bretagna come potenza dominante nel Medio Oriente, inizialmente con una specie di Yalta, spartitrice del petrolio fra i due paesi. Roosevelt aveva chiarito a Churchill I termini della divisione di vantaggi e di responsabilità: “Persian oil is yours; we share the oil of Iraq; the oil of Saudi Arabia is ours”.  

Il controllo del petrolio del Golfo e delle vie di comunicazione marittime con la Grecia, la Turchia e Israele determinarono la politica americana nell’area durante la guerra fredda. Il “peso” degli USA si espanse con il ritiro britannico in entrambe le aree, acceleratosi dopo la sfortunata spedizione franco-britannica a Suez nel 1956. L’egemonia di Washington non aveva solo scopi strategici, ma anche economici. Gli USA l’utilizzarono non solo per coprire il crescente divario fra i loro consumi e le loro produzioni energetiche, ma anche per indebolire l’URSS, con la diminuzione dei prezzi dell’“oro nero” – linfa vitale dell’economia sovietica – negli ultimi dieci anni della guerra fredda. Lo shale gas and oil , unitamente al collasso dell’URSS e al crescere della Cina hanno modificato profondamente tale politica. Gli interessi strategici statunitensi si sono spostati sul sistema indo-pacifico. L’importanza del Medio Oriente è stata attenuata dall’indipendenza energetica USA. Il ciclo ormai quasi ventennale delle disastrose e costose guerre mediorientali ha eroso la volontà americana di essere i gendarmi del mondo, paladini della libertà, della democrazia e dell’ordine mondiale liberale, creato dalle istituzioni di Bretton Woods. Si è determinato un progressivo e relativo disimpegno degli USA dalla regione. Ciò ha creato un vuoto di potenza, che altri Stati regionali e globali si sono affrettati a riempire. E’ aumentata l’instabilità dell’intera regione, dopo che – nei vent’anni dell’ordine unipolare, seguito alla fine della guerra fredda – gli USA ne avevano garantito la stabilità con la loro influenza politica ed economica e, qualora essa non era sufficiente, anche militare. 

Occorre intendersi su cosa significhi progressivo e relativo. E’ difficile farlo anche per le ambiguità e le frequenti variazioni della politica estera USA, condizionata dalle contrapposizioni della lotta politica interna, dopo che è finito l’approccio bipartisan che era sopravvissuto per tutta la guerra fredda. Nulla illustra meglio i mutamenti della politica americana che i discorsi tenuti a Il Cairo nel 2005, nel 2009 e nel 2019 da Condoleezza Rice, da Barack Obama e dell’attuale Segretario di Stato di Donald Trump, Mike Pompeo.

La Rice, intervenendo all’Università Americana del Cairo il 20 gennaio 2005, prima cioè che l’occupazione dell’Iraq si rivelasse un disastro, ha sostenuto la fantasia, propria dei neo-conservatori americani e di Bush jr. della missione di diffondere la democrazia e di poterla esportare anche con la forza. Il presidente Barack Obama intervenendo nella stessa università e poi al Centro al-Azhar, nel giugno 2009 (“Remarks for a new beginning”), ha chiesto praticamente scusa al mondo islamico della cattiva condotta del suo predecessore, nella sua fantasia di poter diminuire lo scontro fra sciiti e sunniti, di tendere la mano agli Ayatollah iraniani e di far fare la pace fra Israele e i Palestinesi. Tale linea di Obama ha costituito l’allontanamento americano dalle autocrazie fino ad allora alleate con gli USA e viene considerato causa non ultima delle “primavere arabe” e del sostegno di Washington ai partiti sostenuti dalla Fratellanza Musulmana.

L’intervento del Segretario di Stato Mike Pompeo del 10 gennaio 2019 (“A force for good: the American power in the Middle East”) illustra chiaramente la tendenza di Trump di fare tutto il contrario del suo predecessore, ma senza obiettivi strategici definiti, sfruttando pragmaticamente le opportunità contingenti che si presentano e seguendo anche gli “umori” prevalenti in quel momento alla Casa Bianca. Più che evidente sono il divario esistente fra le promesse USA e la realtà e le contraddizioni nelle prime. Ad esempio, Pompeo afferma che gli USA sono l’unico baluardo contro l’espansionismo iraniano e che intendono cacciare i militari iraniani dalla Siria. Come è un mistero, dato che subito dopo Pompeo dichiara che gli USA intendono ritirare le loro forze dal Medio Oriente. 

Nel critico teatro d’operazioni del Golfo, dopo aver subito senza reagire diversi attacchi e provocazioni da parte degli iraniani e dei loro affiliati, Trump continuava a esaltare la bontà della sua “pazienza strategica”. All’inizio di gennaio, ma sicuramente spinto dalle critiche rivolte ad essa, ha reagito con forza dopo l’uccisione di un contractor americano a Kirkuk e l’assalto all’ambasciata USA a Baghdad, eliminando con un missile lanciato da un drone il generale Kassem Suleimani, capo del Quds, branca del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica, dagli USA considerato un terrorista, mentre in Iran è ritenuto un eroe. E’ ancora troppo presto per giudicare se si sia trattato di un “colpo da maestro” o di un rischioso azzardo. Le reazioni di Teheran sono state sinora contenute, anche perché il regime degli Ayatollah ha visto il suo prestigio internazionale per l’abbattimento di un aereo civile ucraino e quello interno messo a dura prova dalle massicce dimostrazioni di protesta verificatesi soprattutto in diverse università. 

Malgrado il loro andamento ondivago e la mancanza di coordinamento fra la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato (Pompeo ha condannato l’offensiva del maresciallo Haftar per occupare Tripoli, mentre Trump ne ha elogiato la lotta contro i terroristi e per la salvaguardia delle infrastrutture petrolifere libiche) gli USA rimangono indispensabili per ogni prospettiva di stabilità nell’area MENA. Tale fatto è stato evidente anche nella Conferenza di Berlino del 19 gennaio scorso sulla Libia. 

Solo Washington può obbligare gli EAU e l’Egitto a limitare il loro sostegno al maresciallo Haftar, convincere la Turchia a non opporsi all’EastMed e indurre la Russia a collaborare al progetto di stabilità dell’area. L’impegno USA rimane poi determinante per la sicurezza d’Israele, dell’Arabia Saudita e degli Emirati, nonché per il contenimento dell’Iran anche in Iraq. Resta essenziale anche per impedire a Teheran di dotarsi di armi nucleari e di soverchianti forze missilistiche. Gli USA mantengono nel Medio Oriente oltre 50.000 soldati e sono presenti anche nel Sahel e nell’Africa Orientale con reparti di drones, utilizzati per la lotta al terrorismo di matrice islamica. 

Il loro interesse per l’intera Africa, oltre che per il Mediterraneo e l’area MENA, sta però diminuendo, malgrado la crescente presenza cinese. Washington spera in parte di compensarla economicamente con l’aumento di quella indo-giapponese, e militarmente con un maggior impegno europeo, soprattutto francese. Parigi non soffre dei complessi di altri Stati europei, in particolare dell’Italia disperatamente aggrappata alla pretesa di risolvere tutti i problemi con il solo “dialogo” e con il ricorso alle sempre più impotenti organizzazioni internazionali.

  1. Le primavere arabe

Le primavere arabe hanno condizionato – e stanno tuttora condizionando – i mutamenti geopolitici dei paesi MENA. Si è usato il plurale perché esse non sono concluse. Sta anzi verificandosi una loro seconda fase, almeno in Algeria e in Libano. Inoltre, le turbolenze in atto nel Sahel – dalla Mauritania al Sudan – stanno contagiando l’Africa settentrionale. Sotto il profilo geostrategico le due aree vanno ormai considerate unitariamente. 

Le “primavere arabe” del 2011 hanno consentito alla Turchia di Ankara di aumentare la propria influenza anche in Africa settentrionale, tramite la vittoria elettorale dei partiti collegati alla Fratellanza Musulmana e quindi all’AKP, il partito di Erdogan, sempre più islamizzato e contrario alla laicità imposta alla Turchia da Kemal Ataturk. Quest’ultima aveva caratterizzato anche il pan-arabismo nell’Egitto di Nasser e dei suoi successori militari. L’Islam politico, risvegliatosi in Iran con la rivoluzione khomeinista, è divenuto una realtà con cui fare i conti in tutto il mondo sunnita. In esso esistono le profonde divisioni a cui si è già accennato fra salafiti e fratelli musulmani. L’intervento in Siria, ha fatto avvicinare la Turchia alla Russia, anche per il sostegno dato dagli USA ai curdi, e consolidato il modus vivendi abbastanza cooperativo esistente fra la Turchia dell’AKP e il regime degli ayatollah. 

Per ora, tale realtà ha impedito la costituzione di un poderoso blocco sunnita, comprendente anche la Turchia oltre che l’Arabia Saudita e l’Egitto, che si sarebbe opposto all’espansionismo sciita-iraniano. 

Oggi, esistono tre blocchi. Il primo è costituito da Turchia e Qatar; il secondo da Egitto, Israele e Arabia Saudita; il terzo dall’Iran, dalla Siria e dalle forze filo-iraniane esistenti in Iraq, in Libano e in parte anche a Gaza. Il primo blocco si estende in Libia con l’appoggio a Tripoli-Misurata e al GNA di Sarraj. Ha però dovuto registrare un insuccesso in Tunisia dove, il governo seppur dominato dall’Enhada legata alla Fratellanza Musulmana, ha rifiutato di concedere ad Erdogan, in visita a Tunisi il 25 dicembre 2019, le basi a cui appoggiare le forze turche di previsto afflusso in Libia per appoggiare Sarraj contro Haftar. Il diniego tunisino può vanificare le promesse fatte da Erdogan a Sarraj dell’invio di un consistente contingente militare, comprendente anche una decina di F16. 

Nel medio-lungo periodo, i rapporti fra Ankara e Teheran potrebbero mutare. E’ prevedibile che la Turchia cerchi di contrastare l’influenza dell’Iran e delle milizie irachene, siriane e libanesi legate all’Iran nella “mezzaluna fertile”. Si riprodurrebbero i contrasti che nel passato erano esistiti fra gli imperi sassanide e ottomano per il dominio sulla Mesopotamia. Ora le relazioni sono state consolidate dall’alleanza esistente di fatto fra la Russia, la Turchia e l’Iran, che ha portato agli accordi di Astana-Sochi. E’ da notare che anche la Russia considera con preoccupazione l’espansionismo iraniano. L’instabilità rischia di coinvolgerla troppo nel ginepraio mediorientale, in modo abbastanza simile a quanto avvenuto per gli USA. I coùsti sarebbero insopportabili per Mosca. I suoi istinti imperiali le impediscono di essere una potenza mercantile. La Russia ha abilmente sfruttato il vuoto di potenza determinato in Siria dalle indecisioni di Obama. E’ così rientrata nel “gioco” della competizione delle grandi potenze nell’area MENA, estendendo subito la sua influenza in Libia, dove sta sostenendo il maresciallo Haftar. Inoltre, l’identità ortodossa è strumentalizzata da Putin, che trae consenso interno dai suoi continui riferimenti alla tradizione di Mosca “Terza Roma” e al suo compito storico di essere protettrice dei cristiani del Medio Oriente. In un certo senso, esiste una similitudine fra l’immaginario collettivo della Russia ortodossa e imperiale e l’escatologismo evangelico dei neoconservatori americani. Anche per questo taluni analisti strategici pensano che, nel lungo-lunghissimo termine, il vero vincitore che emergerà dal caos mediorientale non sarà Mosca ma Pechino. Già ora, la Cina ha tratto grandi vantaggi economici, soprattutto per le sue società petrolifere in Iraq, senza però sostenere alcun costo né assumersi particolari responsabilità. Mantiene ottimi rapporti con tutti gli attori della scena mediorientale e nordafricana. Con le sue attività infrastrutturali e i suoi prestiti finanziari sta acquisendo un importante leverage anche politico in molti paesi. L’unica potenza che potrà sfidarne l’influenza nella regione MENA sarà, entro qualche decennio, l’India, che sta accrescendo la sua presenza economica soprattutto in Iran e nell’intera Africa in cooperazione con il Giappone. 

    

  1. L’Europa e l’Italia

L’UE non dispone di una politica estera e di sicurezza comune. Le differenze di condizionamenti storici e geografici oltre che di interessi economici impediranno che diventi un fattore essenziale anche nelle zone critiche per la sua sicurezza e per la sua economia come è l’intera area MENA. Continuerà a dipendere dagli USA. Solo essi potranno garantire una leadership abbastanza unificante delle capacità e volontà europee. La Brexit diminuirà ulteriormente le già ridotte capacità diplomatiche e soprattutto militare europee. Fa parzialmente eccezione la Francia, che ha però risorse limitate e non riesce a mobilitare quelle degli altri paesi dell’UE, malgrado la strombazzata E2I (European Intervention Initiative) proposta da Macron. Con la sua presenza nel Sahel, Parigi riesce comunque a limitare il contagio verso il Mediterraneo del terrorismo di matrice islamica, che sta crescendo soprattutto in Niger e nel Mali. L’impotenza dell’Europa è chiaramente emersa nella Conferenza di Berlino sulla Libia del 19 gennaio 2020.

Il nostro Paese si trova in posizione particolarmente critica, esposto come è alle turbolenze dell’area MENA, Mediterraneo Orientale compreso. La situazione è resa peggiore dalla pressoché completa carenza di cultura geopolitica e strategica della sua classe dirigente. Il nostro paese, oltre a non tutelare i propri interessi, sta suscitando il sarcasmo generale anche negli stessi paesi MENA e europei, con una serie di “farlocche” affermazioni e proposte, quale quella di intervenire in Libia con una no fly zone, per evitare perdite nella popolazione o con quella di imporre un embargo sulle armi, che già esiste dal 2011, anche se nessuno lo rispetta. I nostri interlocutori non riescono a comprendere che le convulse agitazioni per il “dialogo” e le telefonate e incontri “a giro d’orizzonte” sono finalizzate pressoché esclusivamente alla propaganda politica interna. Ad esse, si accompagna il sempre più fideistico appello alle impotenti organizzazioni internazionali o agli USA, che promettono “cabine di regia” e altre belle cose, ma che si fanno sempre più solo i fatti loro. Quanto conti l’Italia anche in Libia è stato plasticamente rappresentato dal vagolare del nostro presidente del consiglio dei ministri alla ricerca di un posto nella foto di gruppo finale della conferenza di Berlino.