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La lunga marcia della democrazia governante

Se guardiamo alla vicenda politica italiana senza rincorrere affannosamente il filo delle tante polemiche correnti, ma cercando di collocare gli avvenimenti quotidiani in una più ampia prospettiva temporale, non è difficile accorgersi di un fatto di indubbia portata, e che non è forse esagerato definire di valore storico. Da parecchi anni, oramai, il sistema politico italiano non è più un sistema bloccato al centro ma si va configurando, sia pure in modo un po’ scomposto e confuso, come una democrazia dell’alternanza. Al momento delle elezioni politiche, infatti, gli elettori non sono solo chiamati a nominare i rappresentanti parlamentari che debbono sedere nelle due camere, ma anche a scegliere, contestualmente, un possibile governo. Sia pure non formalizzata in alcuna disposizione scritta, questa procedura si è imposta oramai da circa un decennio. Inoltre, essa viene comunemente considerata, tanto dall’opinione pubblica quanto dalle forze politiche, come la maniera più adeguata di regolare il rapporto tra governanti e governati.

Dall’unità d’Italia in avanti (ovviamente non considerando il ventennio fascista nel quale furono soppresse le libertà politiche e civili) per oltre centodieci anni il sistema politico del nostro paese è stato un sistema centrista nel quale lo spazio delle forze di governo era delimitato da maggioranze, certo variabili, ma comunque formate tenendo fuori le ali estreme. Dal connubio cavouriano (che temporalmente si colloca ancora nel Piemonte sabaudo) al trasformismo di Depretis, alla accorta manipolazione delle varie forze parlamentari che caratterizza il periodo giolittiano, fino alle formule dell’Italia repubblicana (il centrismo degasperiano, il centro sinistra, il cosiddetto pentapartito), si può ritrovare un filo di continuità davvero impressionante. L’Italia non ha mai conosciuto alternanza di governo, bensì un susseguirsi di regimi, si potrebbe chiosare adoperando un efficace e polemico slogan. Ovviamente fra il sessantennio liberale e l’età repubblicana sono esistite differenze assai rilevanti, che certo non ci azzarderemmo a negare. Per restringerci ad una formula riassuntiva, che non può contenere tutte le sfumature e i distinguo necessari, si può dire che nella fase liberale l’obbligazione politica era mediata dal notabilato, mentre in età repubblicana la razionalizzazione delle maggioranze avveniva soprattutto con il concorso dei partiti. Tuttavia in ogni caso, ed è quello che conta ai fini del nostro discorso, il funzionamento del sistema era assicurato da una maggioranza parlamentare centrista, in qualche modo inamovibile. Le elezioni non servivano a definire, sia pure attraverso lunghi periodi di prevalenza di un determinato orientamento politico, una maggioranza incaricata di governare, ma confermavano sostanzialmente il governo preesistente. Semmai le aggiustature e le variazioni avvenivano indipendentemente dal risultato elettorale sulla base di calcoli, scambi, contrattazioni interne alla classe politico-parlamentare. Dal 1994 in avanti, invece, le elezioni politiche sono diventate il momento centrale della vita pubblica e agli elettori è rimessa non una generica potestà di designare dei deputati che in parlamento si comporteranno a loro grado, ma di scegliere fra maggioranze alternative. Queste una volta designate dovrebbero restare immutate per l’intera legislatura.

Simili considerazioni risultano ancora più confortanti se diamo uno sguardo all’evoluzione politico-istituzionale degli altri grandi paesi europei. Storicamente il modello di governo libero che ha goduto di maggior prestigio è stato quello britannico. Nel corso del XIX secolo, in particolare, si è cercato di importare il governo di gabinetto, o government by discussion, anche sul continente europeo. Questo trapianto non è però riuscito in maniera soddisfacente. La sua adozione, infatti, non ha dato vita a sistemi centrati su governi autorevoli, perché responsabili di fronte al parlamento e responsivi rispetto all’opinione pubblica, e in grado perciò di guidare con mano sicura la nazione per l’arco di una legislatura. Al contrario, nella sua versione continentale il regime parlamentare si è caratterizzato come un regime assembleare, dove la camera elettiva faceva e disfaceva a piacimento governi deboli e di scarsa durata. È stato questo il caso della Francia della III Repubblica e dell’Italia liberale. Nella Germania bismarckiana, poi, le istituzioni rappresentative si sono acclimatate secondo una particolare declinazione caratterizzata da un governo forte ma non responsabile verso il parlamento. Insomma, si può dire che il secondo Reich tedesco si è caratterizzato come una versione tecnicamente aggiornata della monarchia amministrativa di derivazione prussiana, nella quale le istituzioni rappresentative, e anche l’opinione pubblica, svolgevano una funzione accessoria e non caratterizzante rispetto alla forma di governo.

Quando, dopo la stagione dei totalitarismi e la fine della seconda guerra mondiale, negli anni quaranta dello scorso secolo si è avuta una ripresa della vita democratica e si è aperto un nuovo ciclo costituente, gli equilibri precedente si sono, almeno immediatamente, ristabiliti. In Italia, sia pure attraverso una razionalizzazione “partitocratica”, si è ripresentata una caratteristica instabilità governativa. L’unica novità stava nel fatto che le maggioranze erano esposte non più ai ricatti delle consorterie parlamentari, bensì ai mutevoli equilibri fra le varie correnti del partito dominante e, in via subordinata, dei suoi alleati. A sua volta la Francia con la formazione della IV Repubblica ha riproposto una versione assembleare del parlamentarismo nel quale gli elementi di razionalizzazione erano largamente sopravanzati dalla forte continuità con il passato. In Germania, paese nel quale il processo costituente era stato svolto dalle forze alleate di occupazione, si è avuta una lenta ripresa della vita libera, caratterizzata da governi dove era prevalente la presenza del partito cristiano. Una sorta di convalescenza democratica che sembrava riproporre un bismarckismo assai edulcorato, ma altrettanto immobile.

Tanto in Francia quanto in Germania, però, l’apparente continuità è stata largamente smentita dall’evoluzione successiva. In Germania la radicale revisione ideologica operata dalla Spd nel 1959, combinata con piccoli ma efficaci aggiustamenti costituzionali (la clausola di sbarramento al 5%, approvata nel 1956, che ha impedito la frammentazione partitica), hanno rafforzato la formula del cancellierato con sfiducia costruttiva, aprendo la strada al ricambio di governo. Così dalla fine degli anni sessanta in avanti il sistema politico tedesco si è configurato come una democrazia compiuta nel quale è il corpo elettorale a scegliere il governo del paese. In questo equilibrio i partiti minori (i liberali e poi anche i verdi) lungi dall’essere l’ago della bilancia di una democrazia rissosa hanno svolto una funzione ausiliaria rispetto alle formazioni maggiori. Il sistema politico tedesco, insomma, si è caratterizzato come un sistema politico a geometria solo in parte variabile, e con alto tasso di governabilità.

Più accidentata e traumatica, ma con esiti sostanzialmente analoghi, è stata la vicenda francese. Nel 1958, la crisi di Algeria ha messo a nudo l’insufficienza della costituzione della IV repubblica. Ci si è affidati, perciò, alla legittimità di riserva del generale de Gaulle. La riscrittura costituzionale che ha dato vita alla V repubblica, però, non è stata effimera. Lungi dal disegnare un sistema ritagliato a misura della singolare personalità del suo inventore, il semipresidenzialismo francese ha aperto la strada a una contesa politica orientata sulla scelta popolare fra leader contrapposti, togliendo spazio progressivamente ai partiti antisistema. Tale processo si è consolidato nel tempo, con le presidenze del liberal-democratico Giscard D’Estaing e del socialista Mitterrand, ed è stata confermata anche dai più recenti e apparentemente traumatici avvenimenti. Le elezioni presidenziali del 2002, infatti, hanno mostrato, in maniera tanto drammatica quanto evidente, che solo consolidando delle alleanze in grado di tenere a bada la conflittualità interna ai due schieramenti è possibile concorrere in modo credibile al governo del paese.

Questa evoluzione dei sistemi politici dell’Europa continentale verso regimi caratterizzati da governi stabili scelti dagli elettori fra una destra e una sinistra egualmente legittimate, è stata confermata anche dal caso della Spagna, che alla fine degli anni settanta è tornata ad affacciarsi alla vita democratica dopo la lunga dittatura franchista. Da subito il paese iberico ha proposto un regime di democrazia competitiva nel quale alla guida del paese concorrevano due schieramenti contrapposti. Finora, in circa un quarto di secolo di vita libera, si è avuta una prima fase a prevalenza socialista, cui ha fatto seguito una nuova fase (tuttora in corso) nella quale a risultare maggioritario è il partito popolare.

Da questa breve e limitata panoramica (un discorso analogo si potrebbe fare per altri paesi, ad esempio un’altra democrazia giovane come la Grecia) si possono forse ricavare delle indicazioni di portata generale. In questo secondo dopoguerra le democrazie dei maggiori paesi europei sembrano essere riuscite, finalmente, ad imitare e a mutuare con successo quella stabilità ed efficacia di governo, combinata con una piena libertà di espressione e di dissenso, che sembrava essere l’imprendibile segreto della costituzione britannica. In altri termini, e per rifarci alla terminologia di Walter Bagehot (l’autore che meglio è riuscito a definire il regime politico britannico), in varie e diverse circostanze e con varie e diverse modalità pratiche si è riusciti ad trapiantare altrove le «parti efficaci» della costituzione inglese. Certo, questa imitazione non è stata pedissequa e ciascun paese è giunto al risultato finale di avere governi stabili ed autorevoli non copiando in modo letterale, bensì adattando alle proprie esigenze e modellando secondo la propria cultura lo scheletro ultimo del costituzionalismo britannico. Senza pensare di indicare una legge di sviluppo storico, si può osservare in termini del tutto empirici che la democrazia concorrenziale e governante sembra rispondere assai egregiamente alle esigenze poste da società aperte, libere, economicamente progredite, scarsamente condizionate dal retaggio tradizionale, e progressivamente meno ingabbiate da griglie ideologiche precostituite.

Letta in questa più ampia cornice, l’evoluzione politica italiana dell’ultimo decennio appare quindi un necessario, seppur tardivo, adeguamento agli standard di civiltà politica europei. Se ne ricava, da un altro punto di vista, una conferma dell’importanza e della portata del processo descritto all’inizio. In altri termini sia sul piano della storia italiana, che in rapporto allo sviluppo costituzionale dell’Europa contemporanea, l’Italia sembrerebbe aver compiuto un passo decisivo in quel processo di modernizzazione e di civilizzazione che gli osservatori più avvertiti avevano sempre ritenuto ancora non del tutto soddisfacente.

Se tutto questo è vero resta da chiedersi quanto gli esiti attuali del sistema politico possono considerarsi definitivi. Se cioè la democrazia dell’alternanza configuri un approdo perenne della vita pubblica italiana, o se essa non sia invece un temporaneo mutamento di rotta destinato, come per esempio la rivoluzione parlamentare del 1876, a venire riassorbito dal gorgo ineluttabile degli assetti centristi. Per dare una risposta non apodittica e non estemporanea ad un simile interrogativo è necessario intendere le ragioni del ritardo italiano. Senza ripercorrere, neppure in estrema sintesi, la storia dell’Italia repubblicana converrà concentrarsi sui punti nodali dell’evoluzione recente del nostro sistema politico, fissando in modo schematico poche linee di sviluppo essenziali che servano a mettere in luce le articolazioni funzionali del sistema.

Capire le ragioni del ritardo italiano

Per un lungo un arco di tempo, che va dal 1945 al 1992, il sistema politico italiano si è configurato come una democrazia a partito dominante. In questo periodo un’unica compagine politica, la Democrazia cristiana, ha detenuto quasi senza interruzioni la presidenza del consiglio e si è assicurata la gran parte degli incarichi ministeriali. In questo senso, e senza nessuna connotazione valutativa, è lecito parlare di regime democristiano. All’interno di questo lungo orizzonte cronologico è possibile ritagliare delle periodizzazioni, individuare dei momenti di svolta e di assestamento. In particolare risultano importanti due date, dopo le quali l’articolazione interna del sistema può ritenersi fissata. La prima è quella delle elezioni politiche dell’aprile 1948, quando la paura del comunismo assegna una netta superiorità elettorale alla DC. Questa verrà erodendosi successivamente in modo graduale, ma le ragioni sistemiche della supremazia democristiana rimarranno valide fino al momento della crisi finale. La seconda data periodizzante può essere indicata nella successiva scadenza elettorale, quella del 7 giugno 1953. In quell’occasione, il mancato raggiungimento del quorum per attivare il premio di maggioranza previsto dalla nuova legge elettorale segna una parziale rivincita del partito comunista, che acquista definitivamente il rango di maggior partito dell’opposizione, anche se non legittimato a governare. Certamente, in sede di analisi storica sarà possibile delineare e meglio caratterizzare queste due cesure, e individuarne altre, ma ai fini del discorso che svolgiamo in questa sede è sufficiente sottolineare la continuità di direzione politica goduta dalla Democrazia cristiana.

A questa immobilità sistemica corrisponde però una notevole instabilità governativa. La durata media delle compagini governative susseguitesi nel dopoguerra è di circa dieci mesi, e ciò pur includendo nel conteggio governi più duraturi come i ministeri De Gasperi della prima legislatura e quelli Craxi tra il 1983 ed il 1987. Tale irrequietezza era una conseguenza indiretta della predominanza politica democristiana: posto che il partito maggiore era sempre al potere, occorreva assicurare un certo ricambio al suo interno. In altri termini, il sistema veniva gestito secondo il principio guicciardiniano del «più largo pasto». Governi mutevoli consentivano di avvicendare nell’arco di una legislatura un più grande numero di ministri e di sottosegretari, offrendo così alla classe dirigente del partito di maggioranza relativa una più ampia e più “equa” ripartizione delle spoglie. Le elezioni, che come si è visto non servivano ad avvicendare maggioranze diverse, ma a confermare la maggioranza preesistente, erano una sorta di megasondaggio ufficiale che consentiva di calcolare esattamente quanti posti assegnare a ciascuna delle correnti del partito democristiano. Dati questi equilibri, le scadenze elettorali non erano particolarmente distinguibili l’una dall’altra. Per cui, se a seguito delle elezioni politiche si varavano nuovi governi (frutto spesso di lunghe e complesse trattative), anche dopo consultazioni elettorali parziali o amministrative erano del tutto normali ricomposizioni della maggioranza, verifiche, rimpasti.

Tenendo presente questa generale continuità, occorre individuare due importanti punti di rottura, per così dire verso l’esterno, che pongono le premesse per la crisi definitiva del sistema. La discrasia del mondo politico rispetto all’evoluzione sociale che matura dalla fine degli anni sessanta in poi, e la perdita di spinta propulsiva del sistema politico, che si consuma verso la fine degli anni settanta. La società italiana, grazie alla sviluppo produttivo innestato dal piano Marshall e dall’integrazione della nostra economia con il mercato europeo e internazionale, muta in maniera profonda, e con una velocità crescente, a partire dalla fine degli anni cinquanta. Tale cambiamento si rivela in maniera irreversibile circa un decennio dopo. Questo fenomeno non è una caratteristica particolare dell’Italia. Analoghe crisi si manifestano negli altri principali paesi europei. Quello che differenzia la nostra vicenda sono gli esiti che si producono. Come si è visto negli accenni fatti in precedenza, negli altri paesi europei la crisi di sviluppo produce significativi mutamenti nel sistema politico, che reagisce dinamicamente alle sollecitazioni provenienti dallo sviluppo sociale. In Italia, invece, a un mutamento sociale che investe e rivoluziona in profondità stili di vita, orientamenti privati, aspettative di carriera, e l’intero complesso della vita associata, non corrispondono significativi mutamenti nel mondo politico. Il sistema politico resta sostanzialmente fermo e non riesce a proporre credibili alternative di governo.

Questo immobilismo va riportato alla presenza di forti partiti antisistema che risultavano non appetibili per l’elettorato moderato. La presenza di partiti antisistema investiva entrambe le estreme, ma essa risultava sistemicamente significativo specialmente a sinistra. A destra, infatti, il Movimento sociale italiano copriva sostanzialmente una nicchia di elettorato composto da nostalgici del passato e da frange di confuso ribellismo giovanile. Era, invece, soprattutto la composizione delle forze di sinistra che contribuiva fortemente a rendere impossibile l’alternanza. Se, pur fra molte contraddizioni e ancora più severi condizionamenti, il Partito comunista aveva avviato un processo di revisione ideologica, questo risultava troppo lento, soprattutto rispetto al mutamento della società. A sua volta tale lentezza si può spiegare principalmente con ragioni endogene. Il Partito comunista italiano, nel suo gruppo dirigente storico e nel suo impianto di fondazione, era fortemente integrato alla tradizione terzinternazionalista. Così anche le tante scelte rassicuranti operate nel corso del tempo, e in generale la duttilità politica di cui ha sempre dato prova, erano vissute come varianti tattiche, ma non toccavano la sostanza ancora rivoluzionaria o filosovietica del partito.

D’altronde, la mancanza di alternativa e il costante consenso al partito di maggioranza relativa che si registra comunque alle elezioni, non significano un apprezzamento della sua politica e non ne rafforzano la legittimazione. Non solo perché l’evoluzione sociale, che investe anche la chiesa cattolica, manda in crisi, ed erode progressivamente, il collateralismo religioso che era sempre stato un tramite importante di consenso, ma anche per una più fondamentale ragione. A partire dalla fine degli anni sessanta in avanti, il partito democristiano ha, rispetto all’opinione pubblica, un’immagine decisamente appannata. A sua volta questa opacità corrisponde ad un effettivo logoramento del partito che perde capacità di interlocuzione sociale e fa leva, in maniera sempre più esclusiva, sulla capacità di attrazione derivante dalla gestione del potere.

La crisi nel rapporto con la società si riflette puntualmente nelle formule politiche elaborate in quel periodo. Su questo piano, la risposta più articolata che il mondo politico riesce ad elaborare è quella di un coinvolgimento del Partito comunista nella maggioranza di governo. In altri termini il sistema politico italiano continua a muoversi secondo una logica di allargamento della propria area di legittimazione e non secondo una dinamica di aperta competizione fra diverse forze politiche per il governo del paese. Fautore di questa linea è soprattutto Aldo Moro, che, dopo il centrismo e il centro sinistra, teorizza una terza fase della repubblica. Nella sua visione l’ingresso del Partito comunista nell’area di governo non presupponeva una revisione ideologica da promuovere o da sollecitare in tempi brevi, ma veniva affidata ad una lenta e naturale evoluzione, che replicasse su scala più ampia quanto era stato fatto con il partito socialista all’epoca del centro-sinistra. Al massimo, da parte democristiana, occorreva scolorire il profilo atlantico della politica estera per renderlo più digeribile alla dirigenza comunista. Il necessario pendant di questa strategia di paziente apertura al mondo comunista era la forte rivendicazione della necessaria centralità della DC nella vita politica italiana. Le idee di Moro trovavano una parziale consonanza con la proposta di compromesso storico avanzata dal segretario comunista Enrico Berlinguer. La proposta berlingueriana veicolava l’idea che per il governo del paese fosse indispensabile un accordo duraturo tra i due principali partiti di ispirazione popolare. Certo, le due formule politiche non erano paragonabili, e rispondevano a logiche diverse. I comunisti speravano in una rapida evoluzione del quadro politico, mentre per Moro il coinvolgimento del PCI nel governo doveva avveniva in maniera assai graduale. Tuttavia esse avevano alcuni elementi in comune, che converrà sottolineare. Per quanto indubbiamente coerente, e al di là della oracolare tortuosità con cui era espressa, la linea di evoluzione del quadro politico espressa dal leader democristiano aveva fortissime controindicazioni che Moro non era in grado di percepire. Sul piano interno, sottolineare la necessaria prevalenza democristiana, senza farsi promotore di un rinnovamento del partito e di una bonifica di quei sistemi di gestione personalistica dell’apparato amministrativo che l’opinione pubblica rimproverava (spesso non a torto) alla DC, significava offrire una copertura ideologica alla spartizione dorotea e svolgere di fatto il ruolo di teorico della lottizzazione. Sul piano internazionale, poi, la sua strategia, proponendo un provincialissimo sonderweg italico, sottovalutava quasi totalmente i condizionamenti internazionali imposti dalla guerra fredda. La proposta berlingueriana soffriva di difetti analoghi. Essa non incoraggiava la revisione ideologica del partito, ma lo irrigidiva in una narcisistica rivendicazione della propria virtuosa originalità. Inoltre, esprimeva, e contemporaneamente alimentava, una forte avversione a quelle esperienze laburiste e socialdemocratiche europee che quindici anni dopo sarebbero stato l’approdo obbligato per il partito erede del PCI.

Oltre ai difetti interni, per così dire, alla sfera politica, queste ipotesi di sviluppo del sistema ne assommavano un altro che concerneva il rapporto con l’esterno. Tanto la terza fase morotea quanto il compromesso berlingueriano non si trovavano in sintonia con l’evoluzione della società italiana, perché ai grandi mutamenti avvenuti nel costume e nella cultura si rispondeva riproponendo il ruolo di tutela dei grandi partiti di massa, che erano ritenuti gli unici custodi autorizzati di una non contaminata eticità. In definitiva, insomma, le soluzioni prospettate dalle principali forze politiche acceleravano quella estraneità fra universo politico e realtà sociale che, una dozzina di anni dopo, la fine della guerra fredda avrebbe rapidamente e drammaticamente messo in luce.

Per una tragica ironia della storia il fallimento della strategia morotea sarebbe coinciso con l’uccisione dell’uomo politico pugliese da parte delle Brigate rosse. A partire dalla fine degli anni settanta il sistema politico italiano è avvitato in una dinamica di lenta implosione. Il partito democristiano, privo di una leadership autorevole, rimane il principale azionista di governo ma non è in grado di esprimere una linea politica diversa dalla gestione dell’esistente. A sua volta il partito comunista non è in grado di imboccare con decisione la strada della definitiva socialdemocratizzazione, e non lavora per dotarsi di un’aggiornata cultura di governo. Non casualmente proprio in questi anni la Democrazia cristiana perde per periodi anche lunghi la presidenza del consiglio, che passa ad esponenti di forze politiche laiche. Si tratta dei governi Spadolini e Craxi, che si hanno rispettivamente nel 1981-82 e dal 1983 al 1987. Le ragioni immediate e particolari di questi avvicendamenti vanno riportate alle complesse alchimie interne della DC e dei suoi alleati di governo. Tuttavia, guardando le cose da un punto di vista più generale, questo mutamento va ricondotto ad una complessiva perdita di capacità di leadership del partito di maggioranza relativa. Una crisi che trova riscontro in un andamento elettorale caratterizzato da una lenta erosione di voti. In sostanza, a partire dai primi anni ottanta, la Democrazia cristiana è un partito oramai completamente doroteizzato, incapace di indicare una credibile prospettiva di sviluppo. A loro volta i governi a guida laica e socialista, per i limiti di crescita elettorale delle rispettive forze politiche, non riescono a imprimere mutamenti decisivi al sistema. Per una non breve stagione Spadolini interpreta il malcontento verso la politica di settori dell’establishment economico e dell’opinione illuminata, ma solo marginalmente riesce a intercettare la protesta montante. Craxi, partito con un programma di vivace confronto ideologico a sinistra (di svecchiamento del PSI in funzione propulsiva e polemica verso i comunisti), dopo aver affermato in modo generico la necessità di una grande riforma, si riduce a vivacchiare giorno per giorno, ritenendo di avere una rendita di posizione inscalfibile. A partire dal 1987, poi, si limita a giocare pericolosamente con le contraddizioni e le beghe interne del partito dominante. Talché, al momento della crisi finale si trova privo di risorse politiche e diviene il capro espiatorio del malcostume e del malgoverno democristiani.

Per fornire un’interpretazione credibile degli avvenimenti è necessario, a questo punto, affrontare il tema della corruzione politica e la sua incidenza nella crisi ultimativa del sistema. Va detto in primo luogo che la diffusione della corruzione politica è il frutto di un accresciuto costo della politica. Sotto questo profilo si possono indicare molteplici fattori. Anzitutto la prevalenza del partito organizzato e di integrazione sociale come modello politico dominante, cioè di un tipo di partito costoso e difficilmente finanziabile unicamente attraverso i proventi del tesseramento e degli atti di liberalità spontanei dei simpatizzanti. Va poi considerata la grande estensione territoriale dei collegi legata alla proporzionale con scrutinio di lista, e il connesso fenomeno del cannibalismo di lista per assicurarsi un numero sufficiente di preferenze. Da qui deriva una spesa assai elevata per condurre in porto con successo una campagna elettorale. Infine, occorre ricordare l’aumentato numero delle elezioni, che dagli anni settanta vedono aggiungersi come scadenze fisse, e assai gravose in termini economici, le competizioni regionali e poi quelle europee.

Bisogna poi considerare la crescita parallela delle occasioni e dei canali attraverso i quali era possibile drenare o stornare illegalmente denaro ai fini del finanziamento personale o del partito. In tal senso va ricordata la crescita, costante per tutto il dopoguerra, dell’intervento pubblico in economia, con il conseguente aumento delle risorse controllate ed indirizzate dal sistema politico. A questo va aggiunta la scelta del decentramento che, dopo la nascita delle regioni, moltiplica i centri di spesa dipendenti da una decisione politica e moltiplica anche le occasioni di corruzione.

Tuttavia, pur facendo la tara di tutto questo, per intendere la diffusione della corruzione politica occorre mettere in primo piano un aspetto tanto evidente quanto non sempre sufficientemente sottolineato dai commentatori. Ci sembra di poter dire, infatti, che il fattore primo della corruzione politica vada riportato al blocco del sistema politico e all’effetto assai negativo che questa situazione di immobilità aveva sul principale partito di governo. La costante permanenza al potere in funzione assolutamente predominante per oltre quarantacinque anni aveva reso la Democrazia cristiana una sorta di nomenklatura che si sentiva destinata eternamente alla guida del paese. Da qui un accrescersi degli aspetti patrimonialistici della gestione della cosa pubblica, che si era poi trasmesso inevitabilmente anche alle altre forze di governo.

La via italiana alla modernizzazione

Nonostante il complessivo offuscamento di immagine, e la mancanza di prospettive di evoluzione, però, alla fine degli anni ottanta il consenso detenuto dal partito democristiano, oltre ad essere numericamente assai rilevante, sembra ancora abbastanza saldo. Tuttavia, sia pure in maniera non immediatamente visibile, le ragioni del consenso si vanno assottigliando. Oltre al voto derivante dalla gestione del potere e dall’uso delle risorse pubbliche, comunque largamente minoritario, perso il collateralismo cattolico, smarrito il consenso dei settori più dinamici della società, la notevole forza elettorale residua resta affidata alle condizioni internazionali. La guerra fredda ancora all’inizio degli anni novanta condiziona le scelte dell’elettorato, soprattutto della sua parte meno politicizzata. Il grosso dell’elettorato moderato, composto di elettori del ceto medio tendenzialmente non interessato alla politica, continua a ritenere che il voto alla Dc sia la garanzia per un ordinato e non caotico svolgimento della vita pubblica. Si sa che i voti, per dirla con Guicciardini, «si noverano e non si pesano». Tuttavia, se fosse possibile pesare un voto alla DC dato nell’ultimo scorcio della cosiddetta prima repubblica, esso lascerebbe quasi immobile la lancetta della bilancia. In termini più generali, la fase che va dalla fine degli anni settanta ai primi anni novanta segna una lunga agonia della prima repubblica, incapace di rinnovare le proprie formule politiche e di offrire un coerente sbocco istituzionale alle mutate condizioni del paese. Questo sistema, oramai in lento degrado preagonico da più di un decennio, viene tenuto in vita, per così dire artificialmente, dalla guerra fredda. La crisi si rivela solo dopo la fine dell’Unione sovietica, ovvero del paese guida del movimento comunista mondiale. A quel punto il nostro sistema politico conosce un improvviso tracollo che vede scomparire e quasi dissolversi, nel giro di poco più di un anno, la Democrazia cristiana e gli altri minori partiti di governo. Per quanto sorprendentemente repentina sia stata, questa liquidazione di una classe politica si comprende agevolmente se la si inserisce nella catena di eventi che si è cercato di delineare. La guerra fredda era una sorta di polmone d’acciaio per un sistema politico oramai incapace di vivere di vita propria. Quando il polmone artificiale, per ragioni indipendenti dalla vita pubblica italiana, smette di funzionare, il sistema muore rapidamente.

Mettere l’accento sulla mutata congiuntura internazionale come chiave per intendere la situazione politico-istituzionale italiana consente di evitare un equivoco che spesso ha offuscato la comprensione degli eventi. Ricordare che la cosiddetta prima repubblica è caduta perché è venuta a mancare la sua unica legittimazione residua porta, infatti, a ridimensionare il peso delle inchieste giudiziarie come fattore decisivo della crisi. Per dirlo con una formula, tangentopoli è stata sintomo e non causa di quello che stava accadendo. Per verificare la giustezza di un simile assunto basta ricordare che finché è durata la guerra fredda i pur numerosi scandali, che hanno investito spesso uomini politici di primo piano, non hanno mai avuto un effetto destabilizzante. Pensiamo al caso Lockheed, o alla tante accuse di corruzione e di malversazione che costellano le cronache politiche negli anni Ottanta. Se tra il 1992 ed il 1993 accuse analoghe hanno avuto conseguenze ben più gravi ciò non è dipeso dall’operato della magistratura, bensì dal mutato clima di opinione. Venuta meno la legittimazione offerta dalla situazione internazionale, la classe politica è apparsa per quello che era: un ceto chiuso, impermeabile alle domande dei settori più dinamici della società, sordo a qualunque mutamento, assorto in riti bizantini e incomprensibili, inamovibile e irresponsivo. Così, a guerra fredda conclusa, l’opinione pubblica ha salutato le inchieste della magistratura come un succedaneo per quel ricambio del ceto politico da sempre irrealizzabile attraverso il voto.

D’altronde, la luna di miele della magistratura vendicatrice con l’opinione pubblica è durata una breve stagione. In un paese democratico, dotato di una costituzione liberale, alla magistratura spetta il compito di amministrare la giustizia secondo le forme di legge. Così se molti uomini politici sono stati messi indebitamente alla gogna, questo è stato più per l’effetto di un perverso circuito giudiziario-mediatico, che ha fatto scattare l’anatema al momento dell’invio della comunicazione giudiziaria, che per una reale e accertata (o accertabile) responsabilità penale. Non solo al termine dell’iter giudiziario molti inquisiti sono stati prosciolti, ma anche quelli condannati si sono visti comminare determinate pene in base alle risultanze processuali e non in ragione della importanza delle cariche pubbliche ricoperte o delle responsabilità oggettive nel malgoverno. Quando si è capito che i giudici non potevano, per ragioni intrinseche e pena una stravolgimento delle norme fondamentali dell’ordinamento, essere il volano del cambiamento, l’entusiasmo è man mano svanito. Tuttavia l’effetto ottico di tangentopoli, favorito dal temporaneo unanime appoggio dell’opinione, ha aggiunto un elemento destabilizzante alla crisi. Alcuni settori della magistratura, per fortuna assai minoritari, hanno subito (e tuttora subiscono) la tentazione di abbandonare il ruolo di tutori dell’imparziale applicazione della legge, per ergersi a custodi della moralità pubblica. Peraltro, questa impropria funzione sostitutiva operata dall’ordine giudiziario era parte di un più generale clima avvelenato che ha caratterizzato quella che possiamo chiamare la transizione italiana. In altri termini, occorre rilevare che la crisi finale della prima repubblica avrebbe potuto avere anche esiti pericolosi, illiberali, o giustizialisti, perché in essa si è manifestato il subitaneo scatenarsi di insofferenze, insoddisfazioni, rancori, a lungo covati, ma rimasti sempre compressi per via della situazione internazionale. Per fortuna il malcontento sociale ha trovato modo di incanalarsi abbastanza presto, certo non totalmente ma comunque in modo assai consistente, in un alveo istituzionale perfettamente legale. Le campagne referendarie condotte da Mario Segni, che hanno prodotto una legge elettorale parzialmente maggioritaria; la riforma del sistema di elezione dei sindaci, che ha messo in circolazione un modello di democrazia competitiva, orientata al governo e alla legittimazione del governo da parte dell’elettore; le candidature a presidente del consiglio di Berlusconi e di Prodi in occasione delle elezioni politiche del 1994 e del 1996, hanno indirizzato il sistema verso una democrazia dell’alternanza, che è il nuovo orizzonte condiviso della vita politica italiana.

Certo, il nuovo equilibrio del sistema è ben lontano dalla perfezione. Va considerato in primo luogo un fattore culturale di più lungo periodo. Per la prima volta le elezioni sono una contesa vera nella quale è possibile individuare un vincitore e uno sconfitto. Questo crea un disagio nella classe politica, abituata alle sue defatiganti cerimonie politiciste, che si sono largamente trasmesse, per inevitabile inerzia, anche nella nuova situazione. Un disagio analogo si riscontra anche in parte dell’opinione pubblica, quella che era abituata a considerare le elezioni come una scadenza in cui celebrare il rito della personale appartenenza politica, che non modificava sostanzialmente la distribuzione del potere. Adesso, invece, le elezioni fissano per l’intera legislatura una maggioranza e un’opposizione. Metabolizzare tale diversa articolazione della vita politica non è un processo indolore ed emergono malumori e insofferenze. Dall’interno del mondo politico le due coalizioni mimano i comportamenti della prima repubblica, con un gioco al massacro continuo ma scarsamente produttivo perché non più finalizzabile a quel continuo negoziato delle quote di potere che era tipico della precedente forma di governo. Anche per l’opinione pubblica le appartenenze identitarie sono una tentazione rassicurante rispetto al sentimento finora ignoto, ma perfettamente ovvio in una democrazia governante, di dover accettare il governo che non si è scelto alle elezioni. Se questo fattore culturale vedrà necessariamente sbiadire il suo effetto, man mano che si avvicenderanno governi di legislatura designati dal voto popolare e si sarà fatta, quindi, l’abitudine alla novità, resta il problema di perfezionare le riforme fin qui più praticate inconsapevolmente che deliberatamente scelte. Il sistema che si è delineato in Italia, infatti, non è il frutto di scelte meditate in sede politico-costituzionale, ma il prodotto di un bricolage istituzionale in gran parte occasionale ed estemporaneo. Mancano ancora procedure sicure che regolino le più importanti scadenze della vita pubblica. Soprattutto manca una regolamentazione del potere di scioglimento delle camere che assicuri al premier designato dagli elettori la possibilità di attivare la procedura di dissoluzione, in modo da poter disporre di un adeguato strumento difensivo contro imboscate parlamentari e ed eventuali “ribaltoni”. Inoltre, per rafforzare la reciproca legittimazione fra centro-destra e centro-sinistra occorrerebbe fissare più accortamente ambiti di garanzia reciproca che sterilizzino le aree calde del confronto politico (circuito dell’informazione, riforma della giustizia). Nonostante questi difetti, però, il nuovo sistema ha retto per circa un decennio e nessuno sembra volerlo mettere in discussione, anche perché esso corrisponde ad orientamenti profondi presenti nel paese. Come è stato dimostrato da recenti analisi dei risultati delle ultime elezioni politiche, lungi dall’essere una camicia di forza, che ingabbia coattivamente la dispersiva articolazione di opinioni politiche che sarebbe connaturata agli italiani, il sistema bipolare che abbiamo adottato corrisponde alle propensioni della grande maggioranza dei cittadini. Semmai si può dire che tale orientamento preesisteva alla cosiddetta seconda repubblica, ma non poteva manifestarsi in un sistema di democrazia bloccata. La linea di divisione che separa gli elettorati non è solo ideale, e risponde ad un’appartenenza sociale. Gli elettori del centro-destra sono in genere lavoratori autonomi, quelli del centro-sinistra lavoratori dipendenti, soprattutto del pubblico impiego. I temi più sentiti sono legati alla realtà socio-economica: le tasse e il controllo dell’immigrazione. In altri termini, se si scava un pochino sotto la crosta delle polemiche quotidiane si scopre che la contesa politica appare oramai largamente laicizzata e che anche in Italia il conflitto politico si articola non in base a pregiudiziali ideologiche, bensì rispetto a concrete opzioni pratiche. Fare previsioni sul futuro non è solo azzardato, è inutile. Tuttavia, si può affermare con una certa approssimazione che se si arriverà a una riscrittura delle parti della costituzione relative alla forma di governo, in modo da tradurre in regole precise il sistema di premierato di fatto che l’orientamento dell’opinione pubblica e i condizionamenti del sistema politico hanno modellato in questi anni, la lunga e faticosa transizione italiana si potrà considerare conclusa. L’Italia avrà fatto un passo decisivo nel suo lungo processo di modernizzazione.