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di Armando Torno

 

Frédéric Attal, Maître de conférences à l’Ens de Cachan, sta per pubblicare una Histoire des intellectuels italiens del XX secolo. Il saggio, di circa 500 pagine, uscirà il 16 maggio presso la casa editrice parigina Les Belles Lettres, una tra le più prestigiose di Francia e tra le prime al mondo per le sue collane di classici. Il sottotitolo del libro Prophètes, philosophes et experts è una sorta di compendio della ricerca svolta: osservare, catalogare e conoscere attraverso i documenti essenziali della produzione intellettuale le fgure di riferimento dell’ultimo secolo italiano. Una storia che si intreccia con la politica, anzi a essa si abbraccia, che va – ecco il primo e l’ultimo documento posti in cronologia da Attal – tra le Lettere meridionali di Pasquale Villari (1875) e Il Caimano di Nanni Moretti (2006). Pagine che cominciano dagli anni delle riviste che rinnovano e capovolgono gli schemi culturali dell’Italietta umbertina, come La Critica o Leonardo o La Voce, e che si chiudono con il berlusconismo e con il naufragio dell’«intellettuale impegnato». I nomi sono scelti da Attal meticolosamente. Si parte con fgure quali Benedetto Croce, Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini e si arriva a Pier Paolo Pasolini, Norberto Bobbio, Galante Garrone. Sono studiati intellettuali liberali, fascisti, socialisti, comunisti, cattolici.

«I profeti», spiega l’autore, «sono in parte i letterati che da D’Annunzio a Moravia o a Pasolini si volevano, pure con grandi differenze tra loro, oracoli o interpreti del mondo. Coesistono prima con i flosof, che ambivano a foggiare la cultura nazionale e a partecipare alla formazione della classe dirigente con più serietà e sistematicità dei letterati. Si pensi a Croce o a Gentile. Poi sono emersi gli esperti, con gli anni della ricostruzione e del miracolo economico, in parte eredi dei meridionalisti. Il sociologo è il loro modello. Egli capisce meglio di altre fgure – profetiche, flosofche – la società italiana, la può trasformare, creando la nuova cultura nazionale. Gli anni della contestazione possono essere interpretati come quelli della crisi degli intellettuali esperti e del confronto con i nuovi profeti».

Attal ha lavorato sei anni al libro, ma l’indagine è stata favorita da una ricerca precedente che partiva dalla fne del secolo scorso; insomma una decina d’anni di scavo per mettere a punto il funzionamento di questa singolare macchina. Perché un francese se ne occupa? Oltralpe gli intellettuali hanno conosciuto più visibilità internazionale (si pensi, per esempio, a Sartre o a Camus) e l’Italia in molte occasioni ha guardato a quello che stava accadendo a Parigi.

Paradossi d’arte. Lo stesso Attal ricorda che le ragioni del suo interesse sono molteplici. «Avevo», confida, «alla scuola media un’insegnante d’italiano senese; inoltre i miei erano di Nizza e l’Italia è stata per me meta di vacanze. La sua storia poi, quando si comincia a conoscere, insegna molto». Aggiunge: «Gli intellettuali italiani, che hanno avuto il partito comunista più forte d’Occidente, hanno dato vita anche a un marxismo non legato al socialismo reale. È un caso raro nel Novecento». Il nostro Paese, in altri termini, ha ospitato un laboratorio di sinistra. Era attivo in uno Stato con l’enclave del Vaticano, che ha vissuto gli anni di contrapposizione o di impegno nel marxismo con caratteristiche degne di essere ancora studiate. Di più. Attal ricorda che «lo scatto di interesse lo ebbi alla fine degli Anni 80 quando fu aperto l’Archivio dell’Istituto Gramsci e mi stavo occupando del Politecnico di Vittorini». Precisa: «Mi posi una prima domanda sui comunisti italiani: erano o no migliori, più tolleranti, meno stalinisti dei francesi? La risposta doveva tenere conto del fatto che nel Belpaese viveva un dibattito dentro e anche fuori dal partito. Nel Pci esisteva una commissione culturale; nel Pcf no. In Francia, il partito non poteva fare granché con la cultura perché alla testa dei comunisti non c’era un intellettuale. Togliatti, del resto, lo era di formazione, come Amendola, come altri. La chiusura esisteva comunque nel Pci quando voleva dirigere la cultura».

Ci sono dei paradossi segnalati da Attal. Ci ricorda che un film come La strada di Fellini «fu recepito con molto interesse dai comunisti francesi mentre Alicata, che dirigeva la commissione culturale del Pci, lo stroncò». Non soltanto. Precisa: «Lo stesso si può dire de Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa: bene accolto dai comunisti francesi, male dal solito Alicata. Gli uni valorizzavano le opere d’arte stroncate dagli altri. Il motivo? Una certa cultura dei dirigenti italiani faceva da velo a tutto quello che non entrava nella loro forma mentis. Drenavano sia le avanguardie che le opere di interesse artistico. La cultura che praticavano gli impediva di cogliere le novità. C’erano rigidità, chiusure, intolleranze. Nonostante l’insuperabile stalinismo e zdanovismo culturale, la stroncatura delle avanguardie – si pensi a Picasso censurato nel 1953 per un disegno di Stalin giovane – i francesi si salvarono perché, ripeto, non avevano ai vertici degli intellettuali e in fin dei conti diventarono sempre più agnostici in materia di cultura ». Una pausa. Attal prosegue con un altro esempio: «Il rifiuto in Italia di nuove discipline come la sociologia: veniva bollata come “non scienza”, un giudizio che si ritrova in Croce e Gentile, ovvero nei filosofi che più di altri avevano formato Gramsci e Togliatti. Ironia della sorte: la sociologia trovò credito grazie a padre Gemelli o a un imprenditore come Olivetti, su riviste progressiste ma non marxiste come Il Mulino. Qui c’era un bel lavoro di squadra con Fabio Luca Cavazza, Nicola Matteucci, Giuseppe Federico Mancini, Luigi Pedrazzi, Giorgio Galli». Aggiunge una chicca: «La sociologia, non va dimenticato, resta un frutto del Centro-Nord; l’idealismo, come l’attualismo, prodotti – già lo scrisse Bobbio – del Sud. Con qualche eccezione come Torino, con situazioni e figure quali Gobetti, il liceo D’Azeglio con Augusto Monti, Balbino Giuliano: qui hanno studiato Pavese, Mila, Ginzburg eccetera. Non bisogna però dimenticare che la rivista meridionalista liberale Nord e Sud, fondata a Napoli, diffonde la geografia economica di stampo francese come la sociologia economica e politica di matrice statunitense. Le cose sono dunque più complesse di quanto l’opposizione culturale e accademica Centro-Nord versus Mezzogiorno potrebbe suggerire».

E oggi? Attal prosegue: «Finisco il libro con la rinascita di una forma liberale, conservatrice, moderata, insomma una specie di destra non fascista e non monarchica: Panebianco, Galli della Loggia hanno riscoperto un discorso non soggetto alla sinistra. Gaetano Quagliariello mi sembra un intellettuale che ha dato vita a un serbatoio di idee nell’area conservatrice con la fondazione Magna Carta. Sicché, pure nel campo intellettuale, esiste ora in Italia un vero bipolarismo. A sinistra non mancano direttori di riviste quali Flores d’Arcais con Micromega. È schierata, impegnata». Tra le figure che attirano l’attenzione, cita Gaetano Salvemini, professore ad Harvard e poi docente itinerante, interventista contro gli imperi centrali, antifascista, uomo di moralità esemplare, «per il quale ho una grande stima». Nel campo del «giornalismo di razza, Montanelli ha avuto due vite». «La prima», ricorda Attal, «da borghese, conservatore, provocatore. Certo, provocatore è sempre rimasto, e anche borghese; ma dalla metà Anni 50 è diventato sempre più indipendente ed equilibrato. Giudice della destra come della sinistra, anzi giudice supremo della vita politica, non ha un equivalente». La sua seconda vita «conosce la svolta nel 1956 con i fatti d’Ungheria: Ernesto Rossi gli scrive e si complimenta con lui per l’articolo che firma, informato e dettagliato. Resta un personaggio affascinante, unico. Preferisco il secondo Montanelli al primo, forse perché in quel periodo ha rifiutato di essere senatore a vita ed è diventato il campione dell’antiberlusconismo, dopo aver lavorato in accordo con il cavaliere. Ha vissuto con coraggio e onestà intellettuale». Infine: «Prezzolini, invece, è interessante per la prima parte della sua vita. Quella della Voce. Ha fatto l’agente della diplomazia culturale del regime mussoliniano negli Usa, ha cercato di propagandare il fascismo in America quando fu direttore della Casa Italiana di New York. Non ha mai riconosciuto questo ruolo; certo, è stato emarginato, nella seconda parte della sua vita non ha avuto peso come nella prima. Ma fu un vero organizzatore di cultura, anche se dopo il 1945 non ha più lasciato una vera traccia».

Senza egemonia. Morale della ricerca: «C’è stata in Italia una vera ricchezza nel dibattito del mondo intellettuale, forse più di quanto si poteva osservare in Francia, perché, checché se ne pensi oggi o se ne pensava all’epoca, non ci fu una reale egemonia – marxista, cattolica – ma un confronto continuo tra varie tendenze ideologiche e culturali che coesistevano tra di loro e si esprimevano attraverso un gran numero di riviste impegnate». «In Italia», conclude Attal, «c’è stata abbondanza di pensiero, centri di fabbricazioni di idee; era presente un’intellettualità molto ricca nella sinistra anticomunista (Il Mondo, Il Mulino eccetera) che la Francia non ha avuto. Si poteva essere di sinistra, anticomunisti, liberali e riformatori. Altrove era pressoché impossibile».

(tratto da “Sette”, Magazine del Corriere della Sera, numero 19, 10 maggio 2013, pp. 52-54)