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Tunisi, 22 Novembre 2011

Fuori dal Parlamento. Le manifestazioni di fronte al Parlamento del Bardo, nel giorno in cui si apre ufficialmente l’Assemblea Costituente tunisina, non hanno il significato avuto nell’ultimo anno. Non sono alla base di pressioni rivoluzionarie per cacciare un dittatore ventennale, come quelle del gennaio scorso, né rappresentano il supporto a partiti politici che per la prima volta nella storia del paese partecipano democraticamente ad una campagna elettorale, come a fine ottobre. Questa volta l’atmosfera è più formale, e ha un che di malinconico: l’anno dell’entusiasmo prepolitico, del sentimento di condividere con i candidati e le loro irresponsabili promesse una comune scelta per il paese, si arresta fuori dalla sede assembleare.

Pur essendo centinaia, infatti, le persone venute con i loro striscioni non rivendicano un qualcosa di preciso, ma lanciano un nostalgico e deciso avvertimento ai neodeputati. Un’anziana e curata signora spiega che “l’associazione delle donne democratiche è qui per dire che la Costituzione non dovrà mettere in discussione i diritti femminili conquistati”; uno dei pochi cartelloni non scritti in arabo ricorda ai parlamentari che “i tunisini stanno lottando per una costituzione democratica”, “tunisians are struggling for a democratic constitution”. Tutti, compresi coloro che temono che la democrazia normalizzerà i rapporti con Israele, sembrano dire: ora questi cancelli si chiuderanno e come previsto voi, politici eletti, entrerete in un’aula oscura per parlare di cose che in molti non capiranno. Siamo però noi ad avervi votato e la rivoluzione si può sempre rifare; sappiate, insomma, che siamo qui fuori.

In aula. L’informalità dell’accesso all’area stampa è assoluta. A gestire il tutto è una donna accanto ad un enorme cancello con in mano una lista disordinata ed infinita di accrediti. Scarabocchiando cancella e aggiunge molti nomi come su un cruciverba sbagliato, e quando va ad abbracciare chi conosce da tempo sospende per minuti, leggera, ogni interesse per i giornalisti ammassati. La sala ha la struttura di una camera dei deputati europea, forme e decorazioni elegantemente arabe. Un semicerchio classico, duecentodiciassette seggi in totale. All’eccitazione per l’importanza del momento è certo che non corrisponde la fretta di avviare la seduta. Un po’ perché tutto è nuovo, un po’ perché manca ancora il regolamento parlamentare e siamo in Tunisia, i ritmi sono allegri ed indolenti; e mentre gli spettatori stranieri istintivamente fotografano deputate velate e le copie del Corano su ogni banco, i politici chiacchierano al centro dell’aula come se si fossero casualmente incontrati per strada.

Molti tra loro circondano il vincitore di queste elezioni, il leader degli islamisti moderati di Ennahda, Rached Gannouchi. Altri, per quanto atteggino disinvoltura, sono emozionati. Stando a quel che traduce il capoufficio stampa del Partito democratico progressista (PDP), il più anziano tra i deputati, che per convenzione deve sovrintendere all’elezione del presidente dell’Assemblea, non vuole abbandonare il suo ruolo ad interim prima della mattina seguente. Gli è piaciuto, non ci sono altri motivi, e serve correre a spiegargli che la sua funzione si è conclusa. Come previsto, ad essere eletto presidente della Camera è Mustafa Ben Jafaar, leader di Ettakatol e firmatario insieme a Moncef Marzouki (Congrès pour la République) dell’accordo tripartito per governare con Ennahda. L’edizione de “La Presse de Tunisie” del giorno successivo nota che, dato il pluralismo inedito dell’evento, il clima di serietà impacciata e la commozione per l’inno e il ricordo delle vittime della rivoluzione era comprensibile, e sincero. Dopo l’acclimatamento, l’Assemblea fa la sua entrata in quest’anno, forse due, difficilmente tre, di riscrittura parziale della Costituzione.

Per le strade di Tunisi. Abbandonando la zona del parlamento – tra democrazia emozionata e operosa al suo interno e manifestazioni vigili sulla piazza di fronte – l’impressione è che molti cittadini di Tunisi, dopo l’annuncio dei risultati elettorali, abbiano chiuso con la politica per un bel po’. Per due ragioni. La prima è che visitando la Medina, il centro storico, ci si rende conto che la desolante assenza di turismo pone alle centinaia di negozianti, fiaccati dall’anno rivoluzionario, priorità molto meno giuridiche delle minuziose modifiche agli articoli costituzionali del 1959.

L’eccedenza straripante di merci è debolmente protetta dai rispettivi venditori, che si allontanano per spartire il malessere con gli ex concorrenti, ormai colleghi di scarsità di affari. Due uomini che urlano in un vicolo sono ancora incagliati su una dichiarazione scandalosa contro il Corano fatta in un programma televisivo di due anni prima. La seconda causa del disinteresse precoce per la nuova politica è che tutti, per ragioni diversissime, si sentono delusi dalle elezioni. Delusi sono innanzitutto i partiti democratici che avevano fondato la campagna elettorale sull’opposizione ad Ennahda. In particolare lo è il Partito democratico progressista (PDP), che in base ai sondaggi sarebbe dovuto essere la seconda forza politica del paese (e quindi l’unico avversario credibile di Gannouchi), e che in realtà si è trovato con uno scarno sette per cento, un quinto posto e nessuna posizione governativa. “Il nostro risultato è stato disastroso – ammette un volontario del PDP – non solo perché ad avere successo sono stati quelli che si erano mostrati neutrali nei confronti degli islamisti, ma soprattutto per la tempistica. Chebbi (leader storico del partito, n.d.r.), ha sbagliato a farsi avanti per il governo provvisorio a soli due giorni dalla fuga di Ben Ali. È stato visto come un ambizioso che aveva fretta di andare al potere”. Come spiega un altro membro dell’organizzazione del partito, poi, “è ovvio che la strategia comunicativa del PDP non ha funzionato. Siamo stati percepiti come lontani dai problemi reali delle persone e non abbastanza attenti alla religione”. Tutto il contrario di Ennahda, che ha innestato in maniera capillare (e scientemente studiata) la sua immagine di custode della tradizione e di sostegno concreto alla gente.

Al di là dei democratici, però, sorprende che tra i più interdetti ci siano gli elettori di Ettakatol e del CPR di Marzouki, quindi dei soli due partiti che grazie ad un successo inaspettato andranno al governo con i seguaci di Gannouchi. “La verità – afferma con certezza emancipata una donna avvocato in tailleur che sta andando in tribunale – è che, ad eccezione di Ennahda, i tunisini hanno votato le singole personalità, non un partito. Hanno scelto i leader per la loro “integrità”, o perché li avevano sentiti nominare”. L’effetto di un voto dai toni clientelari e inesperti è ovvio: aver votato un partito non ha significato necessariamente (anzi, quasi mai) aver ragionato sulle possibili alleanze successive. Ed è così che dalle parole di un tassista passa chiaramente, oltre che la furia per l’accordo del proprio partito con Ennahda, la totale ignoranza di tutte quelle palesi dichiarazioni di apertura agli islamisti rilasciate da Ben Jafaar in campagna elettorale.

È infine proprio la base sociale degli islamisti a esprimere lo scetticismo più nero su quello che sarà la democrazia rispetto al regime di Ben Ali. E non si tratta di un caso. “Lei è un’ingenua. Ma non lo sa che i politici sono tutti uguali, che la politica è corruzione? Solo la religione è superiore a tutto questo, è l’Islam a doverci guidare nella vita quotidiana”. Parla un elettore degli islamisti, dicendo cose che tutti i sostenitori del partito condividono. Bastano in effetti brevi conversazioni casuali per capire qual è il punto. Ennahda, è vero, ha stravinto le elezioni perché è una formazione storica e perché i suoi membri, dopo ventitré anni tra carceri ed esilio, hanno fatto il loro ingresso in democrazia da eroi immacolati. Ma ha vinto soprattutto perché ha tratto vantaggio dall’antipolitica e dall’antilaicismo incubati negli anni della dittatura. Gli islamisti, cioè, sono riusciti a dare l’idea di essere non un partito come gli altri, corrotti e atei quanto quello di Ben Ali e dei suoi parenti, ma uno strumento necessario per il recupero della tradizione ingiuriata. C’è chi ha scelto Ennahda per il suo “non interesse al potere, la sua volontà di governare con tutti”, e chi l’ha votato in quanto “aiuta le persone perché è l’unico attaccato ai precetti religiosi e ai valori della Tunisia”.

Nella sede di Ennahda. La frase più abusata negli ultimi mesi è che la rivoluzione araba “è esplosa grazie alla svolta tecnologica, ai social network”. Sappiamo che è vero. Nonostante la consapevolezza verbale, però, entrare nelle sedi dei partiti tunisini significa normalmente trovarsi sì connessi a internet, ma in stanze quasi vuote, fax buttati in mezzo a corridoi da ridipingere, una decina di computer vecchi. Ennahda, anche in questo caso, è l’eccezione. La sua sede è un’intera palazzina di sei piani, in una strada dall’aria abbandonata a un paio di chilometri da Avenue Bourguiba. I tunisini la conoscono, e chi tra loro supera la soggezione ed entra a chiedere informazioni, esce con espressioni di sbigottimento. Già dall’ingresso sembra di stare in un’amministrazione statale atipica per efficienza. Il passaggio di persone è continuo; l’accoglienza è uno sportello con due gentilissime segretarie velate che fanno sedere in sala d’attesa mentre scelgono, tra le decine di opzioni, il tasto del telefono che colleghi al dipartimento richiesto. Dopo aver dato minime informazioni di sé, con un appuntamento o un margine di fortuna nell’orario, si entra nel mondo – sotto controllo – della totale disponibilità nei confronti dello straniero. Seguendo per scale e qualche corridoio un ragazzo disorientato ma rassicurante, in poco tempo si riesce a parlare con uno dei coautori del programma economico del partito, il docente universitario Ridha Chkoundali. Il giorno dopo con il presidente dei giovani universitari di Ennahda.

Nel commentare l’avvio dell’Assemblea Costituente, il primo quarto d’ora di intervista al consulente politico Chkoundali è un manifesto di elogio dei principi democratici. Il professore è infatti consapevole che  “l’opposizione è importantissima per il funzionamento della democrazia”, e proprio per questo è convinto (come tutto il partito), che “il sistema parlamentare sia la forma di governo migliore” mentre, al contrario, “il presidenzialismo rischierebbe di reinstaurare la dittatura”. Il pluralismo, sottolinea poi, non è solo questo, non si limita a dinamiche procedurali da far rispettare in parlamento: “in parallelo alla democrazia istituzionale”, infatti, “è la società civile che deve essere incentivata, soprattutto per mezzo delle organizzazioni non governative, delle associazioni”. Questa visione traina alla conclusione, affermata con tono di ovvietà, che “il popolo tunisino ha piena libertà religiosa, e nei costumi”. Ennahda, insomma, non avrebbe né forme di pregiudizi, né la volontà di imporre una linea valoriale precisa.  “Coerentemente, lo saprà già, abbiamo candidato senza discriminazioni donne con o senza velo”.

Anche in tema di modelli economici Chkoundali è la political correctness. “Ad oggi, in base alle leggi che abbiamo, la Tunisia è già un’economia di mercato. Nella pratica, il regime di Ben Ali ha affossato il settore privato e usurpato quello pubblico per i suoi interessi e quelli della famiglia di sua moglie”. Il dato da cui parte è tanto oggettivo da essere stato la causa della rivoluzione del 14 gennaio: “Facendo una media dei ventitré anni della dittatura, ogni anno i disoccupati sono stati 42000 in più. In totale, una perdita di 920.000 posti di lavoro”. Per questo – continua Chkoundali con un ottimismo brillante che stona per demagogia e crisi globale -“ora è prioritario, avendo come modello il miracolo Erdogan, rifondare un rapporto di complementarietà tra pubblico e privato, incentivare gli investimenti esteri e un sistema economico liberale, ma anche redistribuire le risorse e creare nuovi posti di lavoro”.

Tralasciando slogan e ottime intenzioni, due sono a breve termine le azioni certe di Ennahda. Uno. Fatta eccezione per la proposta di un sistema parlamentare, il partito non modificherà Costituzione e legislazione, “perché i tunisini si sono abituati a certe regole e quindi vanno bene così”. Due. Il governo darà priorità assoluta al finanziamento della cultura e delle organizzazioni non governative. “Fino al 2010 solo lo 0.3 del PIL nazionale era devoluto a sostegno delle iniziative spontanee della società civile. È una vergogna. Noi ci muoveremo da subito in favore di tutte le ONG”.

Il tema della cultura e dell’istruzione è ripreso, in una stinta copia preconfezionata, dal rappresentante partitico degli studenti universitari. Sollevato dalla presenza di Oussema che traduce le domande, e che gli permette così di evitare di rivolgersi ad occhi femminili, si dilunga sulla noiosa separazione organizzativa di sindacato e partito nelle facoltà accademiche. Parla meccanicamente soprattutto all’inizio. È teso: membri più influenti di lui, avvertiti dell’intervista, sono venuti a distribuire scientifici sorrisi di controllo. Si arriva poi a temi più interessanti. Entra una deputata di Ennahda, si unisce alla discussione. Entrambi sono concordi nel dire che dopo Ben Ali, che opprimeva la libertà d’espressione e aveva imposto il sistema scolastico francese, serviranno “un metodo scientifico più efficiente e la revisione dei testi scolastici”. Oussema, acuto studente di legge a Tunisi e volontario del PDP, a sentire parlare di libertà si irrigidisce, e chiede: “per Ennahda fino a quanto può spingersi questa tanto elogiata libertà d’espressione? Cosa ne pensate in particolare delle violenze scatenate dal cartone iraniano Persepolis? La replica è, ancora una volta, una dichiarazione “apolitica” di impotenza: “I limiti del decoro pubblico non lo decidono né la politica né le leggi, tantomeno i singoli partiti. Solo la società civile può stabilirli”.

La società civile per Ennahda. I tunisini colti anti Ennahda conoscono ovviamente meglio di chiunque le ragioni per cui detestano, temono, o comunque non amano, gli islamisti. E si sono fatti un’idea sia delle ragioni per cui i suoi leader non vogliano stare al governo da soli, sia di quale sia il loro disegno di lungo termine. Tra questi c’è Oussema. “Loro vogliono spartire le responsabilità politiche, soprattutto in tempi di crisi, per continuare tra le altre cose a sfruttare l’antipolitica che li ha fatti vincere; allo stesso tempo, si accerteranno di avere controllo pieno sul Ministero della Cultura e dell’Educazione. Il loro fine ultimo è islamizzare la società in venti, trent’anni, perché sono convinti che tutti debbano essere dei perfetti islamici”. Le leggi e la Costituzione non cambieranno, quindi. Imposizioni non ci saranno. Ma mentre la democrazia continuerà sul piano delle procedure, impeccabile, a funzionare, Ennahda finanzierà generosamente e senza fretta centinaia di associazioni di ispirazione islamica, università, istituti di ricerca: “In questa maniera gli islamisti cambieranno la mentalità delle persone, e poi potranno dire che il partito non ha volontà propria, che Ennahda si piega al volere della società civile sovrana, espressione massima della democrazia. Intoccabile”.