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di Antonio Cocco

 

La sanguinosa repressione in Siria riporta a galla una storia fatta di contrapposizioni etnico-religiose che si innesta nella più generale richiesta di libertà data dalla “Primavera Araba”. In questo contesto la Turchia, l’unico Paese musulmano e democratico dell’area, gioca un ruolo di primo piano data la sua vicinanza geografica e il suo possibile ruolo di mediatore e modello per i popoli arabi desiderosi di coniugare libertà, democrazia ed Islam. In questo breve articolo si vuole analizzare la questione siriana con un focus sugli effetti diretti che tale crisi determina nella politica estera turca.

Turchia e Siria: la fine di un idillio.

La guerra civile che si sta combattendo in Siria ha determinato un progressivo ma costante mutamento della posizione della Turchia. La dirigenza turca è passata da posizioni apertamente pro-Assad e fiduciose nella stabilizzazione della crisi intesa come una questione interna allo Stato siriano sino a giungere ad una aperta sfiducia nelle capacità della leadership di quel Paese di riformare il regime e alla  richiesta di uno stop immediato delle violenze. L’ultimo episodio di tale escalation si è avuto il 6 febbraio quando il Primo Ministro turco Erdoğan ha definito il Presidente Assad come uno che «fa violenza contro il proprio popolo», ricordando come gli attuali massacri abbiano uno stretto legame con quelli che causarono la morte di migliaia di civili perpetrati negli anni Ottanta ad Homs dal padre Hafez al-Assad. Nella stessa occasione Erdoğan ha pronunciato un avvertimento che è suonato come una minaccia: riferito ad Assad egli ha intimato come «la strada che sta seguendo non è positiva. Finirà in un vicolo cieco e raccomando ancora una volta di cambiare strada prima che venga versato ulteriore sangue»[1]. È inoltre notizia recente come il capo della CIA, il generale David Petreus, si sia recato ad Ankara il 12 marzo per tenere delle consultazioni col suo omologo e il governo turco in merito alla crisi siriana.

Quali sono gli elementi che hanno contribuito a modificare la linea di politica estera di collaborazione sino a qualche mese fa portata avanti dalla Turchia nei confronti della Siria? Quali effetti la crisi siriana potrebbe determinare nella politica estera turca? E infine, tale crisi può rendere possibile un nuovo avvicinamento di Ankara all’Occidente?

La politica estera turca dell’AKP: pragmatismo economico e ideologismo politico.

La politica estera turca può essere essenzialmente ricondotta all’operato del Primo Ministro Tayyp Recep Erdoğan e del suo Ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu. Questa diarchia guida la politica estera di Ankara dal 2003, imprimendo un forte cambiamento nella posizione del Paese nelle relazioni internazionali. Essi sono riusciti a traghettare la Turchia da una posizione di quasi isolamento nel Medio Oriente a una politica di attiva partecipazione e gestione delle vicende dell’area.

Tale cambiamento ha determinato non poche frizioni all’interno del Paese, in particolare fra i ranghi della burocrazia e dell’esercito, che vi hanno visto una sorta di tradimento dei tradizionali indirizzi di politica estera. Nel passato l’establishment turco ha cercato di evitare, per quanto possibile, un diretto coinvolgimento nelle vicende mediorientali, anche sulla base della sua tradizionale propensione filo-occidentale forgiatasi durante la Guerra Fredda. Questa impostazione è a sua volta radicata su una ben più antica idea dello status internazionale della Turchia, sviluppatasi durante i primi anni del Novecento e poi confermata dalla guerra di indipendenza condotta dal padre della patria Mustafa Kemal Ataturk dal 1919 al 1922. Tale concezione assume come elemento certo la forma di stato-nazione di matrice westfaliana e si sviluppa nella considerazione che la Turchia sia un Paese in costante stato di allerta a causa dei nemici interni ed esterni[2]. Nel passato la presenza della Grecia ad ovest, dell’URSS a nord, dell’Iran ad est e dei Paesi arabi a sud ha imposto alla Turchia di rivolgere il suo sguardo direttamente all’Occidente, anche sulla spinta ideale di uno stretto legame con l’Europa basato su di un lungo processo di modernizzazione/occidentalizzazione nato agli albori del XIX secolo e conosciuto come Tanzimat (Riorganizzazione).

Il nuovo corso della politica estera turca impresso dal governo dell’AKP si è tradotto in una vasta apertura politica e commerciale verso i Paesi limitrofi, secondo il principio del «Zero problems policy toward neighbours»[3]. In questa chiave il Ministro Davutoğlu ha voluto indicare come la nuova priorità strategica fosse di sanare gli antichi contrasti e riallacciare i rapporti con tutti i Paesi limitrofi, immaginando la Turchia quale fulcro di una vasta regione che va dai Balcani al Caucaso e dal Mar Nero al Mediterraneo orientale. Alla base di tale impostazione teorica vi è la convinzione di come la diplomazia e l’intensificazione dei rapporti commerciali possano sanare le fratture storiche, religiose, etniche e ideologiche alla base delle crisi internazionali presenti nell’area mediorientale. Il fine ultimo di tale politica è far acquisire alla Turchia la guida dei Paesi dell’area, ottenendo così un ruolo di primo piano a livello globale. Gli analisti indicano questo sforzo egemonico col termine di «Neo-Ottomanismo». Se si volesse dare una nozione di questo termine, lo si potrebbe intendere quale il tentativo di ricostituzione di un’area geopolitica che essenzialmente ricalca i vecchi confini ottomani nella quale la Turchia – vuoi per la sua posizione baricentrica, la sua stabilità politica, il dinamismo economico e la possibilità di divenire esempio riguardo la sua felice amalgama fra Islam e modernità – diviene il Paese leader dell’area così da giocare un ruolo di primo piano nella politica mondiale come «central country»[4].

Sulla spinta del Ministro degli Esteri Davutoğlu, il governo dell’AKP ha quindi cercato una forte cooperazione politica ed economica con la Siria (e in misura minore con l’Iran) scommettendo in una stabilizzazione dell’area mediorientale tramite il massiccio ricorso al soft power. Su questa base, la Turchia ha dovuto perseguire una nuova cooperazione con la Siria sia in funzione geo-strategica che in funzione di accrescimento della propria sicurezza interna. Occorre ricordare come la Siria occupi una posizione strategica invidiabile nella regione mediorientale in quanto, dato il suo essere al centro della stessa, ha la capacità di influenzare direttamente gli altri attori dell’area. La Siria è storicamente coinvolta nel conflitto israelo-palestinese e nel Libano, dove ha intessuto una forte cooperazione politico-strategica con l’Iran supportando gli Hezbollah in funzione anti-israeliana e anti-occidentale. Infine, la Turchia ha avuto un precipuo interesse a garantirsi l’amicizia di Damasco per eliminare la possibilità di un appoggio siriano alla guerriglia curda, sostenuta attivamente dalla Siria nei decenni passati.

La ricerca di una maggiore cooperazione con la Siria è stata quindi il risultato di un progetto coerente volto a rafforzare la sicurezza e l’interdipendenza economica e politica fra i Paesi dell’area mediorientale. In quest’ottica il raffreddamento dei rapporti della Turchia con Israele e con gli stessi Stati Uniti, il suo maggiore sponsor, rappresenta l’altra faccia della stessa medaglia. La Turchia ha inteso come una maggiore cooperazione con gli altri Paesi dell’area non potesse andare di pari passo con il mantenimento di una forte partnership politico-militare con Israele. I toni forti usati da Erdoğan durante la guerra di Gaza del 2008 e, successivamente all’incidente della Freedom Flotilla, alla Conferenza di Davos nel 2009 sono stati un pegno da pagare alle nuove alleanze di Ankara. Alla base di tale condotta si è posta non solo la consapevolezza che l’alleanza con Israele fosse diventata politicamente un fardello troppo pesante per la Turchia, ma anche di come una cooperazione con i Paesi confinanti avrebbe potuto risolvere in maniera più adeguata i problemi di sicurezza legati alla guerriglia del PKK rispetto alla conclusione di alleanze volte a ristabilire l’equilibrio di potenza. La Turchia è così passata dalla ricerca di un’alleanza con Israele nel 1996[5], anche per bilanciare l’appoggio dato dalla Siria al PKK, a un nuovo corso che vedeva Israele come un elemento di disturbo all’equilibrio regionale.

Democrazia o realpolitik? Il dilemma da sciogliere.

Il tentativo della Turchia di stringere una forte alleanza con i Paesi confinanti secondo il principio dello «Zero problem policy towards neighbours» si basava, a parere di chi scrive, su una implicita contraddizione. Mentre il governo di Erdoğan si faceva portatore di una nuova ricetta che fondeva l’Islam con la democrazia sia all’interno del Paese che in Europa e in generale in Occidente[6], esso si prodigava per stringere accordi politici e commerciali con i regimi assolutamente non democratici dei Paesi arabi. Tale contraddizione si è retta sul presupposto dato dalla guerra irachena del 2003. In quella occasione i tentativi di “esportare la democrazia” avevano trovato l’aperta ostilità non solo di Francia, Germania, Russia e Cina, ma della stessa Grande Assemblea Nazionale turca che aveva bocciato la possibilità di permettere il passaggio di una divisione di fanteria statunitense sul suolo turco per l’attacco all’Iraq. Senza voler qui approfondire gli aspetti relativi alle relazioni internazionali e alle implicazioni geopolitiche di tale vicenda, si vuole sottolineare come la polemica riferita all’esportazione della democrazia, dai critici vista come un nuovo tentativo colonizzatore – un aggiornato “fardello dell’uomo bianco” che gli Stati Uniti si incaricavano di portare – si sia tradotta in una opinione prevalente basata su una restaurazione del diritto di non ingerenza e della tutela della sovranità nazionale. Su tali basi i turchi, da sempre sensibili a tali temi, si sono sforzati di premere per una lenta e progressiva apertura politica e commerciale dell’area mediorientale, sull’esperienza tutta europea di come la creazione di un mercato comune possa limitare i conflitti per l’appropriazione delle risorse. Tale tentativo arrivò a definire la creazione di una zona di libero scambio fra Turchia, Siria, Libano e Giordania.

Il dilemma fra democrazia e realpolitik è stato però sciolto dagli eventi. In questo senso la “primavera araba” è stato un evento di completa rottura all’interno della regione mediorientale e ha dimostrato le intrinseche contraddizioni dell’approccio turco (oltre che dei Paesi europei e degli Stati Uniti) nei confronti dei regimi dell’area. Infatti, le sollevazioni popolari hanno messo le cancellerie di tali Paesi di fronte alla necessità di scegliere se schierarsi con i regimi al potere o con i movimenti rivoluzionari. In questo senso la politica del «Zero problem policy towards neighbours» ha mostrato tutte le sue lacune e l’incapacità di adattamento al nuovo scenario. Tali lacune possono essere distinte in due tipologie: una tipologia di carattere politico-ideologico, già precedentemente enunciata, e un’altra prettamente politico-strategica e di sicurezza. Riguardo la prima categoria appare indubbia l’intrinseca contraddizione della politica estera turca nel porsi come paladino della democrazia fra i Paesi musulmani e la legittimazione di regimi autoritari attuata tramite una intensa cooperazione politico-diplomatica. Riguardo poi le contraddizioni in campo geo-strategico e della sicurezza, queste riguardano la parziale sottovalutazione degli effetti riguardanti la sicurezza del territorio turco che la stretta cooperazione con la Siria e ancor più con l’Iran determinano. Infatti il tentativo di rafforzare i rapporti con Damasco e Teheran non ha preso sufficientemente in considerazione come le esigenze di sicurezza di Ankara, data l’instabilità cronica della regione mediorientale, siano ancora soddisfatte in buona parte solo all’interno delle sue alleanze occidentali. Al riguardo, la caduta del Muro di Berlino e la disgregazione dell’URSS non hanno eliminato i tradizionali focolai di instabilità dell’area. La scommessa di Davutoğlu riguardo la creazione di una zona di pace e sicurezza nel Medio Oriente appare ormai eccessivamente azzardata. La crisi siriana e ancor maggiormente il contenzioso sul nucleare iraniano avvicinano nuovamente gli interessi di sicurezza turchi a quelli occidentali. La Turchia sembra quindi recuperare il suo tradizionale ruolo di bastione occidentale e ciò potrebbe determinare un riavvicinamento anche spirituale, ma costituito su nuove basi rispetto al passato, della Turchia all’Europa e agli Stati Uniti.

[1] http://www.todayszaman.com/news-270689-bashar-al-assad-will-pay-the-pric…ğan.html

[2] Al riguardo vedi Moiz Coen Tekinalp, in J.M. Landau, Tekinalp, Turkish patriot, Nederlands Historisch-Archaeologisch Instituutte Istanbul, 1984, Leiden, Cap. IX, p. 127 e ss.

[3] Ahmet Davutoğlu, Turkey’s Zero-problems Foreign Policy, «Foreign Policy», 20th May, 2010.

[4] Ahmet Davutoğlu, Turkey’s Foreign Policy Vision: An assessment of 2007, Insight Turkey, vol.10/No.1/2008, p.78.

[5] Valeria Talbot, Turchia e Israele: verso la fine della partnership strategica?,Osservatorio di Politica Internazionale – ISPI,

n. 14, Luglio 2010.

[6] Vedi ad esempio Recep Tayyip Erdoğan address by h.e. recep tayyip erdogan, Prime Minister of Turkey Harvard university, Kennedy school of government, 30 january 2003, «Turkish Weekly», http://www.turkishweekly.net/article/8/erdogan-democracy-in-the-middle-e…