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Relazione al Convegno “Lo stato delle istituzioni” – Fondazione Magna Carta – Roma 17 febbraio 2017

 

sommario: I. Il contesto della sent. n. 35 del 2017. II. Le singole indicazioni della Corte. III. La necessità di una nuova legge elettorale.

 

  1. La sentenza n. 35 ha scritto un’ennesima pagina storica nella evoluzione della legislazione elettorale italiana. Si tratta ora di capire se nei 12 mesi che ci separano dalla scadenza naturale della legislatura, il Parlamento riuscirà a dar seguito all’esigenza di scrivere una nuova legge elettorale.

Se volessimo ragionare sul piano teorico, potremmo pensare che il Parlamento abbia una serie infinita di ipotesi di intervento sulla legge elettorale,andando a valutare i vari modelli possibili (pressoché infiniti: proporzionali, maggioritari, dall’uninominale inglese a varie forme di doppio turno). Ma, volendo essere realisti, anche in considerazione dei tempi brevi, appaiono concretamente praticabili poche strade. Secondo me, le soluzioni possibili sono una equiparazione del Senato alla Camera, oppure la reintroduzione di modelli comunque noti, come il c.d. Mattarellum o il proporzionale semplice del 1946.

Ad ogni modo, è utile una ricognizione dei punti fissati dalla Corte costituzionale (non solo nella sent. n. 35, ma anche nella sent. n. 1 del 2014), per capire quali sono le coordinate entro le quali il Parlamento si potrà muovere.

Prima di effettuare la ricognizione, una precisazione teorica. Potremmo lungamente discutere del se in un modello di repubblica democratica sia opportuno che le leggi elettorali siano “scritte” da sentenze della Corte costituzionale. Sarebbe una discettazione ricca di spunti interessanti sulla configurazione della forma di governo e anche della forma di stato. Per quanto, ad oggi, le decisioni della Consulta siano un dato di fatto da cui non si può prescindere e che è superfluo criticare a livello di impianto teorico. Certo, tutta la vicenda di come si è arrivati a dover attendere un doppio intervento di supplenza della Corte sulle leggi elettorali ci deve far riflettere su come si sta evolvendo la nostra forma di governo. Tuttavia, non mi pare che sia questa la sede per farlo.

 

  1. La Corte costituzionale con le due sentenze ha scritto una specie di Digesto della “buona” legge elettorale. In due volumi. Ho provato a “vivisezionare” le due sentenze per individuare le linee guida che il Parlamento dovrà seguire.

In premessa va ricordato che la Corte ricorda numerose volte che “al legislatore un’ampia discrezionalità nella scelta del sistema elettorale che ritenga più idoneo in relazione al contesto storico-politico in cui tale sistema è destinato ad operare, riservandosi una possibilità di intervento limitata ai casi nei quali la disciplina introdotta risulti manifestamente irragionevole (sentenze n. 1 del 2014, n. 242 del 2012, n. 271 del 2010, n. 107 del 1996, n. 438 del 1993, ordinanza n. 260 del 2002)” (§ 6 cons. dir.). Ho contato che la Corte ripete la parola discrezionalità addirittura per 24 volte. Di questo riconoscimento quasi ostinato si possono dare due letture, opposte: da un lato, può essere visto come una forma di rispetto al Parlamento, dall’altro può essere inteso come una forma di pungolo-rimprovero per l’inerzia parlamentare sul punto.

Ma passiamo ai contenuti. A mio avviso, sono otto i profili da considerare, tralasciando alcuni punti di minore impatto (come ad es. lo “slittamento”). Forse l’esposizione che segue potrà anche apparire in alcuni passaggi troppo “pedissequa”; ma ritengo necessario riportare i passaggi delle sentenze in modo testuale, dovendo da esse trarre i punti di riferimento.

1  – premio di maggioranza al primo turno.

2 – premio di governabilità

3 – soglia di sbarramento

4 – turno di ballottaggio

  1. – preferenze e capilista bloccati
  2. – pluricandidature
  3. – premio di maggioranza al senato

8 – preferenze al Senato

 

1  -premio di maggioranza al primo turno.

La Corte si dilunga a esaminare la legittimità di un premio di maggioranza al primo turno.

Ci ricorda che “Le disposizioni portate ora all’esame di legittimità costituzionale prevedono, invero, una soglia minima di voti validi per l’attribuzione del premio, pari al 40 per cento di questi. Si è pertanto in presenza di un premio “di maggioranza”, che consente di attribuire la maggioranza assoluta dei seggi in un’assemblea rappresentativa alla lista che abbia conseguito una determinata maggioranza relativa. Alla luce della ricordata discrezionalità legislativa in materia, tale soglia non appare in sé manifestamente irragionevole, poiché volta a bilanciare i principi costituzionali della necessaria rappresentatività della Camera dei deputati e dell’eguaglianza del voto, da un lato, con gli obbiettivi, pure di rilievo costituzionale, della stabilità del governo del Paese e della rapidità del processo decisionale, dall’altro. 

Ma resta salvo il controllo di proporzionalità riferito alle ipotesi in cui la previsione di una soglia irragionevolmente bassa di voti per l’attribuzione di un premio di maggioranza determini una taledistorsione della rappresentatività da comportarne un sacrificio sproporzionato, rispetto al legittimo obbiettivo di garantire la stabilità del governo del Paese e di favorire il processo decisionale.

L’esito dello scrutinio fin qui condotto non è inficiato dalla circostanza, messa criticamente in luce dal giudice a quo, per cui la soglia del 40 per cento è calcolata sui voti validi espressi, anziché sul complesso degli aventi diritto al voto. Pur non potendosi in astratto escludere che, in periodi di forte astensione dal voto, l’attribuzione del premio avvenga a favore di una lista che dispone di un’esigua rappresentatività reale, condizionare il premio al raggiungimento di una soglia calcolata sui voti validi espressi ovvero sugli aventi diritto costituisce oggetto di una delicata scelta politica, demandata alla discrezionalità del legislatore e non certo soluzione costituzionalmente obbligata (sentenza n. 173 del 2005)” (§6 Cons. dir., neretti aggiunti).

L’indicazione è molto chiara. Un premio di maggioranza è assolutamente plausibile purché non comporti un sacrificio sproporzionato della rappresentanza. La “soglia” del 40% è ritenuta “non manifestamente irragionevole”, anche se calcolata solo sui voti validi, il che significa che il legislatore potrebbe modificarla, ma sempre senza comprimere eccessivamente la rappresentanza. Cioè sarebbe pensabile una soglia comunque congrua (ad es il 38%, ma certo non il 30%).

Interessante come la Corte giustifica il premio. Quale bilanciamento della necessaria rappresentatività della Camera dei deputati e dell’eguaglianza del voto, da un lato, con gli obbiettivi, della stabilità del governo del Paese e della rapidità del processo decisionale, dall’altro. Il punto meriterebbe approfondimenti, perché è ben evidente quale sia l’ancoraggio costituzionale di rappresentatività (art. 1, 55 ss.) e eguaglianza del voto (art. 48 e anche 3), mentre è più difficile individuare quello della stabilità e della rapidità del processo decisionale, che non sono esplicitamente contemplati in Costituzione.

 

2 – premio di governabilità

La Corte prende anche in esame la possibilità – sia pure per incidens – che si preveda non un premio di maggioranza, ma un premio di governabilità.

A ritenere il contrario, si dovrebbe argomentare la non compatibilità con i principi costituzionali di una determinata soglia numerica per l’attribuzione del premio, fino a considerare – quale condizione per il positivo scrutinio di ragionevolezza e proporzionalità della disciplina premiale – la sola attribuzione, non già di un premio “di maggioranza”, ma di un premio “di governabilità”, condizionato al raggiungimento di una soglia pari almeno al 50 per cento dei voti e/o dei seggi, e destinato ad aumentare, al fine di assicurare la formazione di un esecutivo stabile, il numero di seggi di una lista o di una coalizione che quella soglia abbia già autonomamente raggiunto” (§ 9.2 cons. diritto).

Si tratta della ipotesi tentata in Italia nel 1953 con la c.d. legge truffa. La Corte lascia trasparire la sicura legittimità costituzionale di un premio di governabilità per chi raggiunge il 50%, mentre non si traggono argomenti sufficienti per comprendere la eventuale legittimità di un premio di governabilità a prescindere dal raggiungimento del 50% (come era previsto in Grecia), cioè mediante il riconoscimento di un numero di seggi alla lista comunque vincente.

Ad ogni modo, leggendo in maniera sistematica l’intera sentenza n. 35, anche alla luce della pregressa giurisprudenza costituzionale, non mi pare da escludere la legittimità di un premio di questo genere, comunque ove non comporti un eccessivo effetto distorsivo della rappresentanza. Volendo esemplificare, il Parlamento potrebbe comunque prevedere un premio non eccessivo in seggi alla lista vincente (direi tra il 5 e il 10%).

 

3 –soglia di sbarramento

Infine, nemmeno pone in discussione la conclusione raggiunta l’ulteriore carattere criticamente evocato dal rimettente al fine di sollecitare l’accoglimento delle questioni sollevate, cioè la presenza, accanto al premio, di un correttivo alla rappresentatività (sentenza n. 1 del 2014), costituito dalla soglia di sbarramento del 3 per cento sui voti validamente espressi su base nazionale, quale condizione per l’accesso delle liste al riparto dei seggi. 

In linea generale, infatti, anche «[l]a previsione di soglie di sbarramento e quella delle modalità per la loro applicazione […] sono tipiche manifestazioni della discrezionalità del legislatore che intenda evitare la frammentazione della rappresentanza politica, e contribuire alla governabilità» (sentenza n. 193 del 2015).

Nel caso di specie, invero, il giudice a quo dubita degli effetti derivanti dalla contestuale previsione di un premio di maggioranza e di una soglia di sbarramento, traendo proprio da tale compresenza la convinzione dell’illegittimità costituzionale del premio. 

Tuttavia, in primo luogo, le previsioni della legge n. 52 del 2015 introducono una soglia di sbarramento non irragionevolmente elevata, che non determina, di per sé, una sproporzionata distorsione della rappresentatività dell’organo elettivo. 

Inoltre, non può essere la compresenza di premio e soglia, nelle specifiche forme ed entità concretamente previste dalla legge elettorale, a giustificare una pronuncia d’illegittimità costituzionale del premio. Ben vero che qualsiasi soglia di sbarramento comporta un’artificiale alterazione della rappresentatività di un organo elettivo, che in astratto potrebbe aggravare la distorsione pure indotta dal premio. Ma non è manifestamente irragionevole che il legislatore, in considerazione del sistema politico-partitico che intende disciplinare attraverso le regole elettorali, ricorra contemporaneamente, nella sua discrezionalità, a entrambi tali meccanismi. Del resto, se il premio ha lo scopo di assicurare l’esistenza di una maggioranza, una ragionevole soglia di sbarramento può a sua volta contribuire allo scopo di non ostacolarne la formazione. Né è da trascurare che la soglia può favorire la formazione di un’opposizione non eccessivamente frammentata, così attenuando, anziché aggravando, i disequilibri indotti dalla stessa previsione del premio di maggioranza” (§ 6 Cons. diritto; neretti aggiunti).

Anche sulla soglia di sbarramento la Corte utilizza il criterio della non sproporzionata distorsione della rappresentatività dell’organo elettivo. Pertanto una soglia è legittima se proporzionata. Per cui dovremmo ritenere illegittima una soglia del 10%(come in Turchia), mentre una soglia fra il 2 e il 5% potrebbe essere plausibile. Ovviamente, il legislatore ben potrebbe anche eliminare qualsiasi soglia, senza incorrere in dubbi di incostituzionalità.

La Corte ritiene, inoltre, possibile la compresenza di premio e soglia, anche qui con i soliti limiti della ragionevolezza e della proporzionalità, anche in considerazione dell’effetto di bilanciamento della soglia rispetto al premio (formazione di opposizione non eccessivamente frammentata; punto peraltro su cui si potrebbe a lungo ragionare, soprattutto in un sistema molto frammentato come quello della politica italiana).

 

 

4 – turno di ballottaggio

Sul turno di ballottaggio, la Corte spende ampie considerazioni, sia per ritenere incostituzionale il premio di maggioranza al ballottaggio per come configurato dall’Italicum, sia per spiegare che comunque un ballottaggio potrebbe essere costituzionalmente legittimo, in generale.

Sul ballottaggio nella legge n. 52 si appuntano censure non dissimili da quelle della sent. n. 1 del 2014, per mancanza di proporzionalità e ragionevolezza.

Quanto al merito della censura, i giudici a quibus lamentano che la maggioranza risultante dal turno di ballottaggio sarebbe «artificiosa», in quanto il legislatore si sarebbe limitato a prevedere che a tale turno accedano le sole due liste più votate (purché ottengano il 3 per cento dei voti validi espressi, o il 20 per cento se rappresentative di minoranze linguistiche); in quanto il premio sarebbe attribuito a chi ottiene il 50 per cento più uno dei voti validi espressi, senza alcuna considerazione per l’importanza, anche rilevante, che potrebbe assumere l’astensione dal voto, come prevedibile conseguenza della radicale riduzione dell’offerta elettorale nel turno di ballottaggio, e quindi senza prevedere correttivi, quali, ad esempio, il raggiungimento di un quorum minimo di votanti in tale turno, o di un quorum minimo al primo turno; e in quanto è esclusa, in vista del turno di ballottaggio, qualsiasi forma di collegamento fra liste.

….

La questione è fondata.

Come si è già ricordato, ben può il legislatore innestare un premio di maggioranza in un sistema elettorale ispirato al criterio del riparto proporzionale di seggi, purché tale meccanismo premiale non sia foriero di un’eccessiva sovrarappresentazione della lista di maggioranza relativa (sentenza n. 1 del 2014). 

Il legislatore ha ritenuto di tener fede alle indicazioni della giurisprudenza costituzionale, sia prevedendo una soglia minima di voti per l’attribuzione del premio di maggioranza, sia disponendo che, qualora nessuna lista raggiunga 340 seggi, si proceda a un turno di ballottaggio tra le due liste più votate. Se, come sopra affermato (punto 6), la prima previsione non determina un’irragionevole compressione della rappresentatività dell’organo elettivo, sono invece le concrete modalità dell’attribuzione del premio attraverso il turno di ballottaggio a determinare la lesione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.

Innanzitutto, nel sistema delineato dalla legge n. 52 del 2015, il turno di ballottaggio non è costruito come una nuova votazione rispetto a quella svoltasi al primo turno, ma come la sua prosecuzione. In questa prospettiva, al turno di ballottaggio accedono le sole due liste più votate al primo turno, senza che siano consentite, tra i due turni, forme di collegamento o apparentamento fra liste. Inoltre, la ripartizione percentuale dei seggi, anche dopo lo svolgimento del turno di ballottaggio, resta – per tutte le liste diverse da quella vincente, ed anche per quella che partecipa, perdendo, al ballottaggio – la stessa del primo turno. Il turno di ballottaggio serve dunque ad individuare la lista vincente, ossia a consentire ad una lista il raggiungimento di quella soglia minima di voti che nessuna aveva invece ottenuto al primo turno.

È vero – come osserva l’Avvocatura generale dello Stato – che la soglia minima si innalza, al secondo turno, al 50 per cento più uno dei voti, ma non potrebbe che essere così, dal momento che le liste ammesse al ballottaggio sono solo due. La legge n. 52 del 2015, prevedendo una competizione risolutiva tra due sole liste, prefigura stringenti condizioni che rendono inevitabile la conquista della maggioranza assoluta dei voti validamente espressi da parte della lista vincente; e poiché, per le caratteristiche già ricordate, il ballottaggio non è che una prosecuzione del primo turno di votazione, il premio conseguentemente attribuito resta un premio di maggioranza, e non diventa un premio di governabilità. Ne consegue che le disposizioni che disciplinano l’attribuzione di tale premio al ballottaggio incontrano a loro volta il limite costituito dall’esigenza costituzionale di non comprimere eccessivamente il carattere rappresentativo dell’assemblea elettiva e l’eguaglianza del voto. 

Il rispetto di tali principi costituzionali non è tuttavia garantito dalle disposizioni censurate: una lista può accedere al turno di ballottaggio anche avendo conseguito, al primo turno, un consenso esiguo, e ciononostante ottenere il premio, vedendo più che raddoppiati i seggi che avrebbe conseguito sulla base dei voti ottenuti al primo turno. Le disposizioni censurate riproducono così, seppure al turno di ballottaggio, un effetto distorsivo analogo a quello che questa Corte aveva individuato, nella sentenza n. 1 del 2014, in relazione alla legislazione elettorale previgente. 

Il legittimo perseguimento dell’obbiettivo della stabilità di Governo, di sicuro interesse costituzionale, provoca in tal modo un eccessivo sacrificio dei due principi costituzionali ricordati. Se è vero che, nella legge n. 52 del 2015, il turno di ballottaggio fra le liste più votate ha il compito di supplire al mancato raggiungimento, al primo turno, della soglia minima per il conseguimento del premio, al fine di indicare quale sia la parte politica destinata a sostenere, in prevalenza, il governo del Paese, tale obbiettivo non può giustificare uno sproporzionato sacrificio dei principi costituzionali di rappresentatività e di uguaglianza del voto, trasformando artificialmente una lista che vanta un consenso limitato, ed in ipotesi anche esiguo, in maggioranza assoluta.

Anche in questo caso, pertanto, si conclude negativamente lo scrutinio di proporzionalità e ragionevolezza (art. 3 Cost.), il quale impone di verificare – anche in ambiti, quale quello in esame, connotati da ampia discrezionalità legislativa – che il bilanciamento dei principi e degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva”.

Inoltre, è vero che la previsione legislativa di un turno di ballottaggio eventuale – basato su una competizione risolutiva fra due sole liste, finalizzata ad attribuire alla lista vincente la maggioranza assoluta dei seggi nell’assemblea rappresentativa – innesta tratti maggioritari nel sistema elettorale delineato dalla legge n. 52 del 2015. Ma tale innesto non cancella la logica prevalente della legge, fondata su una formula di riparto proporzionale dei seggi, che resta tale persino per la lista perdente al ballottaggio, la quale mantiene quelli guadagnati al primo turno. Sicché il perseguimento della finalità di creare una maggioranza politica governante in seno all’assemblea rappresentativa, destinata ad assicurare (e non solo a favorire) la stabilità del governo, avviene a prezzo di una valutazione del peso del voto in uscita fortemente diseguale, al fine dell’attribuzione finale dei seggi alla Camera, in lesione dell’art. 48, secondo comma, Cost. (§ 9.2 Cons. diritto – neretti aggiunti).

Interessante, poi, come la Corte comunque ritiene plausibile un turno di ballottaggio differente (come ben conosciuto in altri modelli).

È necessario sottolineare che non è il turno di ballottaggio fra liste in sé, in astratto considerato, a risultare costituzionalmente illegittimo, perché in radice incompatibile con i principi costituzionali evocati. In contrasto con gli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost. sono invece le specifiche disposizioni della legge n. 52 del 2015, per il modo in cui hanno concretamente disciplinato tale turno, in relazione all’elezione della Camera dei deputati. 

Il turno di voto qui scrutinato – con premio assegnato all’esito di un ballottaggio in un collegio unico nazionale con voto di lista – non può essere accostato alle esperienze, proprie di altri ordinamenti, ove al ballottaggio si ricorre, nell’ambito di sistemi elettorali maggioritari, per l’elezione di singoli rappresentanti in collegi uninominali di ridotte dimensioni. In casi del genere, trattandosi di eleggere un solo rappresentante, il secondo turno è funzionale all’obbiettivo di ridurre la pluralità di candidature, fino ad ottenere la maggioranza per una di esse, ed è dunque finalizzato, oltre che alla elezione di un solo candidato, anche a garantirne l’ampia rappresentatività nel singolo collegio. 

Appartiene invece ad una logica diversa – presentandosi quale istanza risolutiva all’interno di una competizione elettorale selettiva fra le sole due liste risultate più forti, nell’ambito di un collegio unico nazionale – l’assegnazione di un premio di maggioranza, innestato su una formula elettorale in prevalenza proporzionale, finalizzato a completare la composizione dell’assemblea rappresentativa, con l’obbiettivo di assicurare (e non solo di favorire) la presenza, in quest’ultima, di una maggioranza politica governante. Se utilizzato in un tale contesto, che trasforma in radice la logica e lo scopo della competizione elettorale (gli elettori non votano per eleggere un solo rappresentante di un collegio elettorale di limitate dimensioni, ma per decidere a quale forza politica spetti, nell’ambito di un ramo del Parlamento nazionale, sostenere il governo del Paese), un turno di ballottaggio a scrutinio di lista non può non essere disciplinato alla luce della complessiva funzione che spetta ad un’assemblea elettiva nel contesto di un regime parlamentare.

Nella forma di governo parlamentare disegnata dalla Costituzione, la Camera dei deputati è una delle due sedi della rappresentanza politica nazionale (art. 67 Cost.), accanto al Senato della Repubblica. In posizione paritaria con quest’ultimo, la Camera concede la fiducia al Governo ed è titolare delle funzioni di indirizzo politico (art. 94 Cost.) e legislativa (art. 70 Cost.). L’applicazione di un sistema con turno di ballottaggio risolutivo, a scrutinio di lista, dovrebbe necessariamente tenere conto della specifica funzione e posizione costituzionale di una tale assemblea, organo fondamentale nell’assetto democratico dell’intero ordinamento, considerando che, in una forma di governo parlamentare, ogni sistema elettorale, se pure deve favorire la formazione di un governo stabile, non può che esser primariamente destinato ad assicurare il valore costituzionale della rappresentatività.

Le stringenti condizioni cui la legge n. 52 del 2015 sottopone l’accesso al ballottaggio non adempiono, si è detto, a tali compiti essenziali. Ma non potrebbe essere questa Corte a modificare, tramite interventi manipolativi o additivi, le concrete modalità attraverso le quali il premio viene assegnato all’esito del ballottaggio, inserendo alcuni, o tutti, i correttivi la cui assenza i giudici rimettenti lamentano. Ciò spetta all’ampia discrezionalità del legislatore (ad esempio, in relazione alla scelta se attribuire il premio ad una singola lista oppure ad una coalizione tra liste: sentenza n. 15 del 2008), al quale il giudice costituzionale, nel rigoroso rispetto dei propri limiti d’intervento, non può sostituirsi. 

Inoltre, alcuni di questi interventi (che, in astratto considerati, potrebbero rendere il turno di ballottaggio compatibile con i tratti qualificanti dell’organo rappresentativo nazionale) non sarebbero comunque nella disponibilità di questa Corte, a causa della difficoltà tecnica di restituire, all’esito dello scrutinio di legittimità costituzionale, una disciplina elettorale immediatamente applicabile, complessivamente idonea a garantire l’immediato rinnovo dell’organo costituzionale elettivo (da ultimo, sentenza n. 1 del 2014).

Merita, infine, precisare che l’affermata illegittimità costituzionale delle disposizioni scrutinate non ha alcuna conseguenza né influenza sulla ben diversa disciplina del secondo turno prevista nei Comuni di maggiori dimensioni, già positivamente esaminata da questa Corte (sentenze n. 275 del 2014 e n. 107 del 1996). Tale disciplina risponde, infatti, ad una logica distinta da quella che ispira la legge n. 52 del 2015. È pur vero che nel sistema elettorale comunale l’elezione di una carica monocratica, quale è il sindaco, alla quale il ballottaggio è primariamente funzionale, influisce in parte anche sulla composizione dell’organo rappresentativo. Ma ciò che più conta è che quel sistema si colloca all’interno di un assetto istituzionale caratterizzato dall’elezione diretta del titolare del potere esecutivo locale, quindi ben diverso dalla forma di governo parlamentare prevista dalla Costituzione a livello nazionale (§ 9.2 Cons. diritto – neretti aggiunti).

In buona sostanza il Parlamento ben potrebbe introdurre un secondo turno di ballottaggio, similmente a quanto previsto in altri Stati (Francia) o altri modelli (Comuni di maggiori dimensioni), in quanto si configurano come contesti differenti e non comportano una sovra-rappresentazione della lista di maggioranza relativa, come invece avveniva nel doppio turno dell’Italicum, che poteva portare addirittura a raddoppiare i seggi ottenuti.

I limiti da rispettare sono comunque ragionevolezza e proporzionalità, da valutare rispetto alla configurazione del modello elettorale prescelto.

 

5. –preferenze e capilista bloccati

La parte in cui la Corte affronta il problema dei capilista bloccati appare il punto in cui la motivazione risulta meno ariosa e convincente. Come ben sappiamo, in mancanza della opinione dissenziente, i punti in cui la motivazione risulta troncata o asfittica sono in genere quelli in cui il dissenso all’interno del collegio è stato più ampio.

Nella sentenza n. 1 del 2014, questa Corte rilevò che il sistema allora vigente determinava la lesione della libertà del voto garantita dall’art. 48, secondo comma, Cost., poiché non consentiva all’elettore alcun margine di scelta dei propri rappresentanti, prevedendo un voto per una lista composta interamente da candidati bloccati, nell’ambito di circoscrizioni molto ampie e in presenza di liste con un numero assai elevato di candidati, potenzialmente corrispondenti all’intero numero dei seggi assegnati alla circoscrizione, perciò difficilmente conoscibili dall’elettore. In quel sistema, alla totalità dei parlamentari, senza alcuna eccezione, mancava il sostegno della indicazione personale degli elettori, in lesione della logica della rappresentanza prevista dalla Costituzione. Simili condizioni di voto, che imponevano all’elettore di una lista di scegliere in blocco anche tutti i numerosi candidati in essa elencati – che non aveva avuto modo né di conoscere né di valutare – perciò automaticamente destinati, in ragione della posizione in lista, a diventare deputati o senatori, rendevano quella disciplina «non comparabile né con altri sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi, né con altri caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali)».

In sostanza, mentre lede la libertà del voto un sistema elettorale con liste bloccate e lunghe di candidati, nel quale è in radice esclusa, per la totalità degli eletti, qualunque indicazione di consenso degli elettori, appartiene al legislatore discrezionalità nella scelta della più opportuna disciplina per la composizione delle liste e per l’indicazione delle modalità attraverso le quali prevedere che gli elettori esprimano il proprio sostegno ai candidati. 

Alla luce di tali premesse, le disposizioni censurate non determinano una lesione della libertà del voto dell’elettore, presidiata dall’art. 48, secondo comma, Cost. 

Il sistema elettorale previsto dalla legge n. 52 del 2015 si discosta da quello previgente per tre aspetti essenziali: le liste sono presentate in cento collegi plurinominali di dimensioni ridotte, e sono dunque formate da un numero assai inferiore di candidati; l’unico candidato bloccato è il capolista, il cui nome compare sulla scheda elettorale (ciò che valorizza la sua preventiva conoscibilità da parte degli elettori); l’elettore può, infine, esprimere sino a due preferenze, per candidati di sesso diverso tra quelli che non sono capilista. 

Né è irrilevante, nella complessiva valutazione di una siffatta disciplina, la circostanza che la selezione e la presentazione delle candidature (sentenze n. 429 del 1995 e n. 203 del 1975) nonché, come nel caso di specie, l’indicazione di candidati capilista, è anche espressione della posizione assegnata ai partiti politici dall’art. 49 Cost., considerando, peraltro, che tale indicazione, tanto più delicata in quanto quei candidati sono bloccati, deve essere svolta alla luce del ruolo che la Costituzione assegna ai partiti, quali associazioni che consentono ai cittadini di concorrere con metodo democratico a determinare, anche attraverso la partecipazione alle elezioni, la politica nazionale.

Si deve, per di più, osservare che l’effetto del quale il giudice a quo in prevalenza si duole – le liste di minoranza potrebbero avere eletti solo tra i capilista bloccati – costituisce una conseguenza (certo rilevante politicamente) che deriva, di fatto, anche dal modo in cui il sistema dei partiti è concretamente articolato, e che non può, di per sé, tradursi in un vizio d’illegittimità costituzionale (sull’irrilevanza dei cosiddetti inconvenienti di fatto nel giudizio costituzionale, ex multis, sentenze n. 219 e n. 192 del 2016; ordinanze n. 122 e n. 93 del 2016). 

Inoltre e infine, come correttamente osserva l’Avvocatura generale dello Stato, molte sono le variabili in grado di determinare quanti candidati sono eletti con o senza preferenze: oltre al numero dei capilista candidati in più collegi, che possono liberare seggi da assegnare ad eletti con preferenze, rileva anche la diffusione, sul territorio nazionale, del consenso che ciascuna lista ottiene. L’effetto temuto presuppone che tale consenso sia omogeneamente diffuso per tutte le liste di minoranza. Laddove esso sia invece concentrato soprattutto in determinati collegi, una lista potrà conseguire, in questi, più di un seggio, eleggendo così, oltre al capolista, uno o più candidati con preferenze” (§ 11.2 Cons. diritto – neretti aggiunti).

La Corte, in pratica, giustifica che ci siano capilista bloccati essenzialmente perché il sistema delle candidadure è comunque “misto”. Cioè una parte dei candidati è eletto su indicazione fissa (ma l’indicazione riguarda un solo candidato con nome stampato sulla scheda – garanzia di conoscibilità), mentre gli altri sono frutto di preferenze. E liquida la circostanza che assai probabilmente solo le liste che raggiungano un consenso significativo (si dice addirittura il 18%) possano eleggere anche candidati non capilista costituisca solo un inconveniente fattuale, come tale non incostituzionale.

Interessante anche la valorizzazione del ruolo dei partiti politici ex art. 49 Cost., quali motore di trasmissione del sistema di rappresentanza democratica, in una stagione in cui invece assistiamo a un progressivo scolorire del loro ruolo sociale e politico. Anche di questo di potrebbe a lungo discutere.

Ad ogni modo, l’indicazione per il Parlamento è chiara. Sono possibili candidati “bloccati”, per cui non escluderei la tentazione per i partiti di importare anche al Senato un modello come quello della legge n. 52.

 

 

6. – pluricandidature

Sulle pluricandidature la Corte accoglie la questione sulla disposizione che consente al candidato capolista, eletto in più collegi plurinominali, di optare in base ad una sua mera valutazione di opportunità, e non subordina tale opzione ad alcun criterio oggettivo e predeterminato, rispettoso, nel massimo grado possibile, della volontà espressa dagli elettori.

L’assenza nella disposizione censurata di un criterio oggettivo, rispettoso della volontà degli elettori e idoneo a determinare la scelta del capolista eletto in più collegi, è in contraddizione manifesta con la logica dell’indicazione personale dell’eletto da parte dell’elettore, che pure la legge n. 52 del 2015 ha in parte accolto, permettendo l’espressione del voto di preferenza. L’opzione arbitraria consente al capolista bloccato eletto in più collegi di essere titolare non solo del potere di prescegliere il collegio d’elezione, ma altresì, indirettamente, anche di un improprio potere di designazione del rappresentante di un dato collegio elettorale, secondo una logica idonea, in ultima analisi, a condizionare l’effetto utile dei voti di preferenza espressi dagli elettori.

Da questo punto di vista, non errano i giudici a quibus laddove lamentano che l’opzione arbitraria affida irragionevolmente alla decisione del capolista il destino del voto di preferenza espresso dall’elettore nel collegio prescelto, determinando una distorsione del suo esito in uscita, in violazione non solo del principio dell’uguaglianza ma anche della personalità del voto, tutelati dagli artt. 3 e 48, secondo comma, Cost. Né la garanzia di alcun altro interesse di rango costituzionale potrebbe bilanciare tale lesione, poiché la libera scelta dell’ambito territoriale in cui essere eletto – al fine di instaurare uno specifico legame, in termini di responsabilità politica, con il corpo degli elettori appartenenti ad un determinato collegio – potrebbe semmai essere invocata da un capolista che in quel collegio abbia guadagnato l’elezione con le preferenze, ma non certo, ed in ipotesi a danno di candidati che le preferenze hanno ottenuto, da un capolista bloccato.

Accertata l’illegittimità costituzionale dell’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957 (come modificato dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del 2015) nella parte in cui consente l’opzione arbitraria, questa Corte deve riconoscere – nella rigorosa osservanza dei limiti dei propri poteri, tanto più in materia elettorale, connotata da ampia discrezionalità legislativa (sentenze n. 1 del 2014, n. 242 del 2012, n. 271 del 2010, n. 107 del 1996, n. 438 del 1993; ordinanza n. 260 del 2002) – che più d’uno sono, in realtà, i possibili criteri alternativi, coerenti con la disciplina della legge n. 52 del 2015 in tema di candidature e voto di preferenza.

Infatti, e solo in via meramente esemplificativa, secondo una logica volta a premiare il voto di preferenza espresso dagli elettori, potrebbe stabilirsi che il capolista candidato in più collegi debba esser proclamato eletto nel collegio in cui il candidato della medesima lista – il quale sarebbe eletto in luogo del capolista – abbia riportato, in percentuale, meno voti di preferenza rispetto a quelli ottenuti dai candidati in altri collegi con lo stesso capolista. Ancora, secondo una logica assai diversa, tesa a valorizzare il rilievo e la visibilità della sua candidatura, potrebbe invece prevedersi che il capolista candidato in più collegi debba essere proclamato eletto in quello dove la rispettiva lista ha ottenuto, sempre in percentuale, la maggiore cifra elettorale, in relazione agli altri collegi in cui lo stesso si era presentato quale capolista. 

La scelta tra questi ed altri possibili criteri, e tra i vantaggi e i difetti che ciascuno di essi presenta, appartiene alla ponderata valutazione del legislatore, e non può essere compiuta dal giudice costituzionale. 

Da tale considerazione, però, non consegue la rinuncia al dovere, che questa Corte ha, di dichiarare costituzionalmente illegittima una disposizione che tale risulti, nella parte che i giudici a quibus effettivamente censurano.

Infatti, all’esito della caducazione dell’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957, nella parte in cui prevede che il deputato eletto in più collegi plurinominali debba dichiarare alla Presidenza della Camera dei deputati quale collegio nominale prescelga, permane, nella stessa disposizione, quale criterio residuale, quello del sorteggio. 

Tale criterio è già previsto dalla porzione di disposizione non coinvolta dall’accoglimento della questione, e non è dunque introdotto ex novo, in funzione sostitutiva dell’opzione arbitraria caducata: è in realtà ciò che rimane, allo stato, dell’originaria volontà del legislatore espressa nella medesima disposizione coinvolta dalla pronuncia di illegittimità costituzionale.

Il permanere del criterio del sorteggio restituisce pertanto, com’è indispensabile, una normativa elettorale di risulta anche per questa parte immediatamente applicabile all’esito della pronuncia, idonea a garantire il rinnovo, in ogni momento, dell’organo costituzionale elettivo (da ultimo, sentenze n. 1 del 2014, n. 13 del 2012, n. 16 e n. 15 del 2008).

Ma appartiene con evidenza alla responsabilità del legislatore sostituire tale criterio con altra più adeguata regola, rispettosa della volontà degli elettori” (§ 12.2 Cons. diritto – neretti aggiunti).

La Corte ritiene arbitraria l’opzione libera del capolista pluricandidato. Si sforza di individuare un criterio residuo (il sorteggio) per lasciare comunque una legge autoapplicativa, ma invita caldamente il Parlamento a individuare una regola maggiormente rispettosa della volontà degli elettori, facendo anche alcuni esempi possibili.

 

7. – premio di maggioranza al Senato

Per completezza di analisi occorre considerare anche alcuni passaggi della sent. n.1 del 2014, con specifico riferimento al Senato.

In primo luogo c’è la questione del premio di maggioranza.

La Corte ricorda che, dopo la declaratoria di incostituzionalità del c.d. Porcellum: “Ciò che resta, invero, è precisamente il meccanismo in ragione proporzionale delineato dall’art. 1 del d.P.R. n. 361 del 1957 e dall’art. 1 del d.lgs. n. 533 del 1993, depurato dell’attribuzione del premio di maggioranza; e le norme censurate riguardanti l’espressione del voto risultano integrate in modo da consentire un voto di preferenza.

In particolare sul premio di maggioranza osserva:

Le medesime argomentazioni vanno svolte anche in relazione alle censure sollevate, in relazione agli stessi parametri costituzionali, nei confronti dell’art. 17, commi 2 e 4, del d.lgs. n. 533 del 1993, che disciplina il premio di maggioranza per le elezioni del Senato della Repubblica, prevedendo che l’Ufficio elettorale regionale, qualora la coalizione di liste o la singola lista, che abbiano ottenuto il maggior numero di voti validi espressi nell’àmbito della circoscrizione, non abbiano conseguito almeno il 55 per cento dei seggi assegnati alla regione, assegni alle medesime un numero di seggi ulteriore necessario per raggiungere il 55 per cento dei seggi assegnati alla regione.

Anche queste norme, nell’attribuire in siffatto modo il premio della maggioranza assoluta, in ambito regionale, alla lista (o coalizione di liste) che abbia ottenuto semplicemente un numero maggiore di voti rispetto alle altre liste, in difetto del raggiungimento di una soglia minima, contengono una disciplina manifestamente irragionevole, che comprime la rappresentatività dell’assemblea parlamentare, attraverso la quale si esprime la sovranità popolare, in misura sproporzionata rispetto all’obiettivo perseguito (garantire la stabilità di governo e l’efficienza decisionale del sistema), incidendo anche sull’eguaglianza del voto, in violazione degli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, e 67 Cost.

Nella specie, il test di proporzionalità evidenzia, oltre al difetto di proporzionalità in senso stretto della disciplina censurata, anche l’inidoneità della stessa al raggiungimento dell’obiettivo perseguito, in modo più netto rispetto alla disciplina prevista per l’elezione della Camera dei deputati. Essa, infatti, stabilendo che l’attribuzione del premio di maggioranza è su scala regionale, produce l’effetto che la maggioranza in seno all’assemblea del Senato sia il risultato casuale di una somma di premi regionali, che può finire per rovesciare il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base nazionale, favorendo la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti nei due rami del Parlamento, pur in presenza di una distribuzione del voto nell’insieme sostanzialmente omogenea. Ciò rischia di compromettere sia il funzionamento della forma di governo parlamentare delineata dalla Costituzione repubblicana, nella quale il Governo deve avere la fiducia delle due Camere (art. 94, primo comma, Cost.), sia l’esercizio della funzione legislativa, che l’art. 70 Cost. attribuisce collettivamente alla Camera ed al Senato.

In definitiva, rischia di vanificare il risultato che si intende conseguire con un’adeguata stabilità della maggioranza parlamentare e del governo. E benché tali profili costituiscano, in larga misura, l’oggetto di scelte politiche riservate al legislatore ordinario, questa Corte ha tuttavia il dovere di verificare se la disciplina legislativa violi manifestamente, come nella specie, i principi di proporzionalità e ragionevolezza e, pertanto, sia lesiva degli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, e 67 Cost. 

Deve, pertanto, dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, commi 2 e 4, del d.lgs. n. 533 del 1993” (§ 4 Cons. Diritto – neretti aggiunti).

La Corte utilizza, al fondo, le medesime argomentazioni sulla compressione della rappresentatività e sulla violazione dell’eguaglianza del voto. Ma aggiunge anche un test di proporzionalità molto significativo, circa la idoneità del premio rispetto all’obiettivo prefissato. Visto che il premio serve a garantire stabilità e governabilità, la sua attribuzione su base regionale appare invece del tutto irragionevole, rischiando di produrre comunque maggioranze casuali. E, quindi, di non raggiungere lo scopo di stabilità e governabilità.

Si tratta diuna indicazione molto importante di cui il Parlamento dovrà necessariamente tenere conto quando andrà a disciplinare la nuova legge elettorale. Un premio di maggioranza al Senato è ben possibile, ma non su base regionale, altrimenti rischierebbe ugualmente l’eccesso di potere legislativo.

 

8 – preferenze al Senato

Indicazioni interessanti sono spese, sempre nella sent. n. 1 del 2014, sulle preferenze.

La Corte ritiene la questione fondata, con le seguenti specificazioni.

In questo quadro, le disposizioni censurate, nello stabilire che il voto espresso dall’elettore, destinato a determinare per intero la composizione della Camera e del Senato, è un voto per la scelta della lista, escludono ogni facoltà dell’elettore di incidere sull’elezione dei propri rappresentanti, la quale dipende, oltre che, ovviamente, dal numero dei seggi ottenuti dalla lista di appartenenza, dall’ordine di presentazione dei candidati nella stessa, ordine di presentazione che è sostanzialmente deciso dai partiti. La scelta dell’elettore, in altri termini, si traduce in un voto di preferenza esclusivamente per la lista, che – in quanto presentata in circoscrizioni elettorali molto ampie, come si è rilevato – contiene un numero assai elevato di candidati, che può corrispondere all’intero numero dei seggi assegnati alla circoscrizione, e li rende, di conseguenza, difficilmente conoscibili dall’elettore stesso.

Una simile disciplina priva l’elettore di ogni margine di scelta dei propri rappresentanti, scelta che è totalmente rimessa ai partiti. A tal proposito, questa Corte ha chiarito che «le funzioni attribuite ai partiti politici dalla legge ordinaria al fine di eleggere le assemblee – quali la “presentazione di alternative elettorali” e la “selezione dei candidati alle cariche elettive pubbliche” – non consentono di desumere l’esistenza di attribuzioni costituzionali, ma costituiscono il modo in cui il legislatore ordinario ha ritenuto di raccordare il diritto, costituzionalmente riconosciuto ai cittadini, di associarsi in una pluralità di partiti con la rappresentanza politica, necessaria per concorrere nell’ambito del procedimento elettorale, e trovano solo un fondamento nello stesso art. 49 Cost.» (ordinanza n. 79 del 2006). Simili funzioni devono, quindi, essere preordinate ad agevolare la partecipazione alla vita politica dei cittadini ed alla realizzazione di linee programmatiche che le formazioni politiche sottopongono al corpo elettorale, al fine di consentire una scelta più chiara e consapevole anche in riferimento ai candidati. 

Sulla base di analoghi argomenti, questa Corte si è già espressa, sia pure con riferimento al sistema elettorale vigente nel 1975 per i Comuni al di sotto dei 5.000 abitanti, contraddistinto anche esso dalla ripartizione dei seggi in ragione proporzionale fra liste concorrenti di candidati. In quella occasione, la Corte ha affermato che la circostanza che il legislatore abbia lasciato ai partiti il compito di indicare l’ordine di presentazione delle candidature non lede in alcun modo la libertà di voto del cittadino: a condizione che quest’ultimo sia «pur sempre libero e garantito nella sua manifestazione di volontà, sia nella scelta del raggruppamento che concorre alle elezioni, sia nel votare questo o quel candidato incluso nella lista prescelta, attraverso il voto di preferenza» (sentenza n. 203 del 1975).

Nella specie, tale libertà risulta compromessa, posto che il cittadino è chiamato a determinare l’elezione di tutti i deputati e di tutti senatori, votando un elenco spesso assai lungo (nelle circoscrizioni più popolose) di candidati, che difficilmente conosce. Questi, invero, sono individuati sulla base di scelte operate dai partiti, che si riflettono nell’ordine di presentazione, sì che anche l’aspettativa relativa all’elezione in riferimento allo stesso ordine di lista può essere delusa, tenuto conto della possibilità di candidature multiple e della facoltà dell’eletto di optare per altre circoscrizioni sulla base delle indicazioni del partito. 

In definitiva, è la circostanza che alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna eccezione, manca il sostegno della indicazione personale dei cittadini, che ferisce la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione. Simili condizioni di voto, che impongono al cittadino, scegliendo una lista, di scegliere in blocco anche tutti i numerosi candidati in essa elencati, che non ha avuto modo di conoscere e valutare e che sono automaticamente destinati, in ragione della posizione in lista, a diventare deputati o senatori, rendono la disciplina in esame non comparabile né con altri sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi, né con altri caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali).

Le condizioni stabilite dalle norme censurate sono, viceversa, tali da alterare per l’intero complesso dei parlamentari il rapporto di rappresentanza fra elettori ed eletti. Anzi, impedendo che esso si costituisca correttamente e direttamente, coartano la libertà di scelta degli elettori nell’elezione dei propri rappresentanti in Parlamento, che costituisce una delle principali espressioni della sovranità popolare, e pertanto contraddicono il principio democratico, incidendo sulla stessa libertà del voto di cui all’art. 48 Cost. (sentenza n. 16 del 1978).

Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 4, comma 2, e 59 del d.P.R. n. 361 del 1957, nonché dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza per i candidati, al fine di determinarne l’elezione”(§ 5.1 Cons. Diritto – neretti aggiunti).

In buona sostanza, già nel 2014 la Corte contestava il sistema delle liste bloccate, in quanto escludeva la indicazione di una preferenza per la totalità dei candidati. In pratica, l’orientamento della Corte comunque consente un sistema di preferenze misto, con alcuni candidati bloccati e altri individuati sulla base delle preferenze. Su questo, troviamo una linea di piena coerenza con il modello dei capilista bloccati ritenuto costituzionalmente legittimo nella sent. n. 35.

Per il Parlamento l’indicazione è chiara. E’ pensabile importare anche al Senato un sistema come quello dell’Italicum per la Camera, con un numero di candidati “bloccati”.

 

 

III. Forse la parte più significativa della sent. n. 35 è contenuta a pag. 96 (su 100). Come in un buon romanzo giallo, in cui il colpo di scena è giustamente all’ultima pagina.

Fermo restando quanto appena affermato, questa Corte non può esimersi dal sottolineare che l’esito del referendum ex art. 138 Cost. del 4 dicembre 2016 ha confermato un assetto costituzionale basato sulla parità di posizione e funzioni delle due Camere elettive.

In tale contesto, la Costituzione, se non impone al legislatore di introdurre, per i due rami del Parlamento, sistemi elettorali identici, tuttavia esige che, al fine di non compromettere il corretto funzionamento della forma di governo parlamentare, i sistemi adottati, pur se differenti, non devono ostacolare, all’esito delle elezioni, la formazione di maggioranze parlamentari omogenee” (§ 15.2).

Per quanto la Corte abbia ostinatamente ribadito che il modello elettorale residuo è comunque autoapplicativo, lancia un monito deciso al Parlamento – del resto già anticipato in parte ai punti 9.2 e 15.1 della motivazione della sent. n. 35 – per intervenire sulle due leggi elettorali di Camera e Senato (entrambe residuo di sentenze della Corte), al fine di modificare le leggi elettorali in modo da garantire la formazione di maggioranze parlamentari omogenee. In fondo la Corte vuole anche ricordare che la sua è unafunzione di controllo e di supplenza, per cui non si può che richiamare il Parlamento al proprio ruolo costituzionale.

Sul piano pratico, del resto, i due modelli di legge elettorale si differenziano, ad oggi, per almeno cinque profili non banali:

  1. premio di maggioranza
  2. soglie di sbarramento
  3. articolazione dei collegi
  4. capilista bloccati
  5. preferenze (anche di genere)

Il monito della Corte è allora assai opportuno, per evitare che anche la XVIII legislatura abbia problemi di fragilità della compagine governativa. Ed è anche molto interessante come la Corte nell’invito alla omogeneità superi la distinzione costituzionale fra le Camere (che vuole il Senato “eletto a base regionale”), giustificandosi anche con il referendum costituzionale non approvato il 4 dicembre. Si tratta sicuramente di un punto che merita una riflessione più ampia, al di là di quella che sarà la prossima legge elettorale.

In conclusione, non spetta certo a me prevedere come il Parlamento eserciterà la sua discrezionalità. Potendo, semplicemente, equiparare il modello del Senato a quello della Camera. O viceversa quello della Camera a quello del Senato. Oppure, più liberamente, individuare una nuova legge elettorale per le due camere, con profili comuni che seguano le indicazioni della Corte. Del resto, a pensarci bene sia il proporzionale pure del 1946 sia il Mattarellum, per restare a modelli già noti, sarebbero in linea con le indicazioni della Consulta.

Ad ogni modo, il punto centrale è che il Parlamento non può non intervenire soprattutto per riaffermare, di fronte ai cittadini, il corretto ruolo rappresentativo nella formazione discrezionale delle leggi.Un ulteriore silenzio parlamentare rischierebbe di delegittimare ulteriormente le Camere di fronte all’opinione pubblica, in un periodo in cui comunque la rappresentanza parlamentare già è ampiamente in crisi.

 

* La relazione del Prof. Alfonso Celotto è stata pubblicata anche sulla rivista AIC – Associazione Italiana dei Costituzionalisti