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di Gaetano Quagliariello

 

Nella storia del pensiero politico contemporaneo è propria della tradizione cristiano democratica la nozione di comunità come elemento che integra e nutre la democrazia.

Tale affermazione la si può convalidare innanzitutto per differenza. Il pensiero socialista, non meno della pratica, si fonda sulla nozione di classe e, in particolare, intorno all’esigenza di organizzare la classe operaia.

L’altra grande corrente di pensiero otto-novecentesco – quella liberale –, almeno nella sua versione continentale, si fonda invece sulla nozione di individuo, di derivazione illuministica, che deriva dalla tradizione della rivoluzione francese. Nel mondo anglosassone non è proprio così. Ma questo, come ci spiega il grande storico Élie Halévy, avviene proprio per la contaminazione tra il pensiero liberale e il pensiero religioso, in particolare per l’esperienza delle cosiddette “Chiese libere” che sono all’origine stessa della peculiarità del liberalismo anglosassone. Sicché non è del tutto improprio parlare, in questo caso, di tradizione cristiano liberale.

A queste due correnti, una fondata sul concetto di classe e l’altra sul concetto di fondo di individuo, pensatori cristiano-democratici contrappongono proprio la centralità della comunità.

Per citare un esempio emblematico, ci si può riferire al Tocqueville della Democrazia in America, laddove la comunità – sia quella territoriale sia quella che, come associazione, nasce dalla libera unione di più persone –, è intesa come antidoto “liberale” ai processi egualitari, inevitabilmente messi in atto dal processo democratico. Al punto che il pensatore francese avrebbe scritto:

 

Fra le leggi che reggono le società umane, ve n’è una che appare più chiara e precisa di tutte le altre: perché gli uomini restino civili o lo divengano, bisogna che l’arte di associarsi si sviluppi e si perfezioni presso di loro nello stesso rapporto con cui si accresce l’eguaglianza delle condizioni[1].

 

Per Tocqueville questa è la sola possibilità che l’inevitabile e inarrestabile processo democratico trovi un bilanciamento, evitando di sfociare in dispotismo.

Qualcosa – e, come si vedrà, anche più di qualcosa – di questa centralità della nozione di comunità la si ritrova negli esordi stessi della storia del cattolicesimo politico italiano, in particolare nel processo che avrebbe portato quella corrente di pensiero a farsi partito.

Se ripercorriamo la vicenda umana e politica del fondatore del Partito Popolare don Luigi Sturzo, ci accorgiamo di come sia proprio la comunità – sia quella territoriale sia quella sociale – a trovarsi alla base della sua azione.

Egli caratterizza gli anni precedenti la formazione del Partito Popolare per una incessante opera all’interno delle istituzioni locali, e per una riflessione sul ruolo che le istituzioni locali vissute proprio come comunità autonome possono e devono avere all’interno di uno Stato liberale.

Parallelamente lo vediamo impegnato anche in una organizzazione su scala nazionale di sindacati, cooperative e altre associazioni a sfondo cristiano che saranno poi gli elementi che confluiranno nell’edificio del futuro partito nazionale.

 Sicché non dobbiamo stupirci se di tutto ciò si trova traccia non solo nei 12 punti che rappresentano il programma originario del Partito Popolare, ma anche e soprattutto nell’ordine del giorno che Sturzo farà approvare al primo congresso del PPI che si svolge a Bologna nel giugno del 1919: ordine del giorno sulla costituzione, le finalità e il funzionamento del PPI[2].

Questa sottolineatura dell’importanza che la comunità ha non solo nel pensiero ma anche nella concreta opera politica sturziana, ci porta a una duplice considerazione.

La prima è che nella riflessione sturziana sul rapporto tra corpi intermedi e Stato, possiamo rintracciare uno dei primi tentativi teorici d’integrare la nozione di sussidiarietà verticale (fondata sulle comunità locali) con quella di sussidiarietà orizzontale (fondata sulle comunità naturali, a iniziare dalla famiglia).

La seconda riflessione riguarda il rapporto che vi è tra l’ideale stesso di comunità e la nascita dei moderni partiti politici: per intenderci, quei partiti politici che hanno consistenza anche sociale ed “extraparlamentare”, che non esauriscono il loro compito solo in un’azione all’interno dei parlamenti e che appaiono per la prima volta nella storia politica europea a cavaliere tra l’Ottocento e il Novecento.

A mio avviso non è un caso se questi partiti trovano accoglienza proprio laddove la nozione di comunità è più avvertita. Soprattutto se essi sono pensati e costruiti come parti dello Stato liberale, e non come strumenti atti a distruggerlo o quanto meno a superarlo.

Se noi, infatti, ricostruiamo, anche a grandi linee, la storia degli esordi dell’antipartitismo – di quella corrente che tra Otto e Novecento si oppone alla nascita di queste speciali comunità politiche – scopriamo che questa corrente ha due fondamentali motivi ispiratori i quali, come spesso accade alle tendenze opposte, si trovano alleati per il conseguimento di uno stesso obiettivo.

Vi è un filone di opposizione al moderno partito politico di derivazione illuministica, e questa non comprende solo autori francesi, ma persino un teorico come Moisei Ostrogorski[3].

In esso si possono rinvenire evidenti tracce di una opposizione ideologica in nome di una libertà illimitata dell’individuo e del timore che questo spazio di libertà possa essere in qualche modo coartato dal nuovo soggetto politico.

Non ci si deve far confondere dal fatto che il grande storico Augustin Cochin, in polemica con la rivoluzione, rintracci proprio nei club giacobini il prototipo primo dei moderni partiti politici.

Cochin, infatti, in un’analisi a sfondo fortemente ideologico, ritiene che il partito di derivazione rivoluzionaria non sia una comunità stabile che si integra e agevola il funzionamento di uno Stato liberale ma è strumento per giungere all’abbattimento prima e alla conquista poi dello Stato.

L’altra corrente di pensiero che si oppone ai nascenti partiti come comunità politica, non solo consentita ma addirittura utile alla vita dello Stato moderno, è quella controrivoluzionaria.

Può apparire strano: per la destra controrivoluzionaria la categoria di comunità è certamente presente, addirittura centrale.

La comunità alla quale essa si riferisce, però – e che poi ritroveremo nel corso della cosiddetta “era delle tirannie” trasfigurata all’interno di alcune teorie corporative –, è basata sull’idea di una organicità assoluta, per la quale l’idea di comunità e l’idea di società giungono a coincidere, senza lasciare spazi ai corpi intermedi e tantomeno alle persone.

Le comunità consentite, insomma, fanno parte di “un tutto organico” e si inseriscono all’interno di una visione della società senza contraddizioni. Esse non sono libere aggregazioni fatte da persone, ma le inglobano e le sovrastano.

Non è certo un caso che proprio un uomo come Sturzo si sarebbe impegnato in una fine analisi allo scopo di distinguere il corporativismo di matrice cristiana da quello che nel nostro Paese si sarebbe poi affermato assieme al regime fascista.

D’altro canto, dal punto di vista storico, con il fallimento dello Stato pluripartitico e pluralista, sotto la spinta dei processi innescati dalla Prima Guerra Mondiale, è proprio questa idea di comunità organica che si afferma, con due varianti e in due differenti contesti:

– nei regimi socialisti la “Comunità Principe” è il partito che è un tutto e che ha un ruolo preminente persino sullo Stato.

– nei regimi fascisti o autoritari la comunità è ritenuta quasi come un succedaneo del partito; essa risponde a un disegno organico che sfocia in una concezione totale dello Stato.

Nell’una e nell’altra ipotesi, in ogni caso, essa assorbe totalmente la persona. Non è certo concepita come corpo intermedio.

Questa declinazione totalizzante della categoria di comunità, che diviene o parte di uno Stato organico o qualcosa di addirittura sovraordinato rispetto allo Stato, nel nostro Paese non si esaurisce con la fine della stagione autoritaria.

Forse la principale delle ragioni di tale continuità ce la spiega Adolfo Omodeo in uno degli articoli che inaugurano “L’Acropoli”, la rivista che avrebbe caratterizzato il suo impegno culturale nei primi anni del dopoguerra. Scrive Omodeo:

 

Qualche residuo del vecchio regime fascista è, bisogna pure dirlo, nei nuovi partiti, e dobbiamo spogliarcene se vogliamo creare veramente una libera comunità. Forse non è del tutto priva di fondamento la diffidenza di molti che temono che i nuovi partiti possano tendere a colmare il vuoto lasciato dal defunto PNF[4].

 

Questo residuo, con ogni evidenza, ingombra anche il campo della cultura cristiano-democratica. Ne cogliamo la presenza leggendo alcune delle pagine più dense delle memorie del Cardinale Giacomo Biffi laddove, riferendosi alla fase politica subito successiva la Seconda Guerra Mondiale, si intrattiene sul peso avuto da Giuseppe Dossetti nel nuovo inizio del partito cattolico[5].

 

Secondo Biffi, Dossetti ebbe una influenza in ambito culturale sul rinato partito cattolico più forte persino di quella esercitata da De Gasperi.

Egli nota, in particolare, come nella concezione politico-istituzionale del sacerdote emiliano lo Stato godesse di una indubbia centralità, al punto che il problema più rilevante dell’impegno politico era individuato nel compito di associare il più compiutamente possibile gli individui alla vita dello Stato.

Il partito dunque, più che come coordinamento centrale di libere comunità nate dal basso, così come nella concezione sturziana, diveniva, nella visione di Dossetti, lo strumento attivo del collegamento tra Stato e cittadini.

Per questo si potrebbe persino affermare che la differenza fondamentale rispetto alla stagione autoritaria da poco conclusa consisteva nel declinare al plurale ciò che nel ventennio precedente era stato coniugato al singolare.

Se si consultano gli atti della Seconda Sottocommissione dell’Assemblea Costituente, e in particolare quelli inerenti il dibattito sul riconoscimento giuridico del partito – e ancora più specificamente gli interventi che in quella sede produssero Moro, La Pira e lo stesso Dossetti –, è veramente difficile non dar ragione al vecchio Cardinale.

Nella cultura politica cattolica della rinascita, insomma, i fattori determinanti divenivano tre, strettamente coordinati tra di loro: lo Stato, il partito, l’individuo. In tal modo, si selezionava spontaneamente lo spazio per un possibile incontro con la cultura comunista nella sua variante gramsciana, egemone nel contesto italiano.

Ciò che latitava, invece, era l’attenzione per la società, con i suoi raggruppamenti spontanei e le libere aggregazioni: in altri termini, l’attenzione per quelle comunità che nella visione sturziana precedevano il partito e che, a maggior ragione, precedevano anche lo Stato.

Ciò aiuta a comprendere come mai, nella produzione dei cattolici alla costituente, la nozione di sussidiarietà, che in realtà è presente nella dottrina sociale della Chiesa sin dai tempi di Pio XI, viene sviluppata solo nella sua declinazione verticale, recuperando parte del patrimonio regionalista che era stato del PPI.

Non c’è traccia, invece, di quella sussidiarietà orizzontale che mira ad affermare la preminenza delle comunità e dei corpi intermedi sullo Stato che, in questa visione, diviene l’ente che deve aiutare e sollecitare la libera esplicazione di aggregazioni che generino direttamente dalla vita sociale.

Questo paradigma culturale resta egemone per tutta la durata del “primo tempo” della Repubblica: almeno fino a quando resiste l’illusione che i partiti abbiano la forza di assicurare la trasmissione tra il cittadino e lo Stato, con vantaggi per entrambi.

Con la morte accertata del partito novecentesco, con la fine delle ideologie caratteristiche del tempo della Guerra Fredda, si apre sia a livello politico sia a livello culturale uno spazio nuovo: un nuovo ruolo per i corpi intermedi, e per la presenza delle comunità.

Questo spazio potenziale a lungo non viene occupato.

A mio parere la ragione non risiede tanto nell’affermarsi di un modello di partito carismatico perché, in realtà, come ci ha spiegato Max Weber, il carisma democratico è un elemento che caratterizza i partiti europei – e non soltanto europei – già dalla metà degli anni ’50, e in Italia esso arriva in ritardo per un processo di più lenta e difficile secolarizzazione della società.

Il problema, piuttosto, risiede nel fatto che a differenza di altri contesti europei (in primo luogo del mondo anglosassone extra-continentale), in Italia il partito carismatico non è il prodotto di un patto tra libere comunità e una classe politica centrale caratteristico degli sviluppi dei partiti post-ideologici.

In Italia, al termine della stagione delle ideologie, al tramonto di quel modello tardo leninista che comunque era stato il punto di riferimento “principe” dei modelli partitici, il vuoto resta vuoto.

A lungo, dunque, nonostante si prospetti un’occasione storica atta a far sì che le intuizioni proprie della originaria cultura politica cristiano-democratica possano realizzarsi, ciò non succede. Anche coloro i quali provano a lavorare per riportare in quest’alveo ciò che la crisi del primo tempo della Repubblica spontaneamente produce, falliscono.

Oggi ci troviamo di fronte a una nuova agenda politica – quella determinata dai problemi inediti che il Terzo Millennio ha portato con sé – e a una nuova occasione storica.

Perché il trascorrere del tempo, il modificarsi delle sfide fondamentali, una nuova crisi di sistema, ripongono in termini d’urgenza una riflessione sulla società e sul suo organizzarsi in politica.

E’ in questa cornice che conviene leggere quello che può considerarsi come il documento più lucido sulle sfide proposte dal Terzo Millennio, e sui cambiamenti epocali che l’agenda politica da esse deriva.

Nella Caritas in Veritate, a proposito della comunità, Benedetto XVI scrive:

 

  La creatura umana, in quanto di natura spirituale, si realizza nelle relazioni interpersonali. Più le vive in modo autentico, più matura anche la propria identità personale. Non è isolandosi che l’uomo valorizza se stesso, ma ponendosi in relazione con gli altri e con Dio. L’importanza di tali relazioni diventa quindi fondamentale. Ciò vale anche per i popoli. È, quindi, molto utile al loro sviluppo una visione metafisica della relazione tra le persone. A questo riguardo, la ragione trova ispirazione e orientamento nella rivelazione cristiana, secondo la quale la comunità degli uomini non assorbe in sé la persona annientandone l’autonomia, come accade nelle varie forme di totalitarismo, ma la valorizza ulteriormente, perché il rapporto tra persona e comunità è di un tutto verso un altro tutto. Come la comunità familiare non annulla in sé le persone che la compongono e come la Chiesa stessa valorizza pienamente la “nuova creatura” (Gal 6,152 Cor 5,17) che con il battesimo si inserisce nel suo Corpo vivo, così anche l’unità della famiglia umana non annulla in sé le persone, i popoli e le culture, ma li rende più trasparenti l’uno verso l’altro, maggiormente uniti nelle loro legittime diversità[6].

 

Stiamo correndo il rischio di smarrire anche questa prova d’appello? Io di rischi ne vedo soprattutto due.

Il primo è che una visione neoilluminista che punta sulla riscrittura in chiave moderna di un nuovo patto tra lo Stato e il cittadino, saltando tutte le comunità intermedie e deprimendo quelle naturali, possa affermarsi come soluzione culturale politico-istituzionale, soprattutto dopo l’evidente fallimento del regionalismo esasperato che ha dominato il primo decennio del Duemila.

Il secondo è che un crescente deficit di aggregazione e integrazione sociale si possa ritenere di risolverlo in chiave solo virtuale, attraverso comunità formate con l’utilizzo delle nuove tecnologie e dei nuovi strumenti di aggregazione sulla rete.

Si tratta di una soluzione non solo effimera ma addirittura pericolosa. Perché non crea vincoli veri tra le persone, non ovvia alle solitudini, conferma tutti i problemi di integrazione e di governo propri di una società complessa.

Si riattualizzano, insomma, tutti i rischi del dispotismo che Tocqueville aveva scorto come il combinato disposto di un falso egualitarismo e di un asfissiante isolamento delle persone.

Per scongiurare questi rischi, serve un’organizzazione politica e ancor di più, un programma politico ispirato ai principi e alla pratica di un comunitarismo cristiano e liberale.

Si può individuare, insomma, in un neo-comunitarismo la cifra primaria di una nuova proposta popolare che risponda a problemi inediti recuperando categorie antiche come quella di persona, di associazione, di comunità naturale.

Si può limitare lo spazio dello Stato provando ad averne uno meno invasivo ma migliore e, per questo, veramente sussidiario.

 

 


[1] A. de Tocqueville, La Democrazia in America, 1835-1840, Antologia a cura di M. Cesa e L. Compagna, Libro Aperto Editore, Ravenna 2005, p. 101.

[2] Cfr. Ordine del giorno Sturzo sulla costituzione, la finalità e il funzionamento del P.P.I. (Congresso di Bologna, 14-16 giugno 1919), in Gli atti dei Congressi del Partito Popolare Italiano, a cura di Francesco Malgeri, Morcelliana, Brescia 1969, p. 106.

[3] Cfr. M. Y. Ostrogorski, La democrazia e i partiti politici, ed. italiana a cura di Gaetano Quagliariello, Rusconi Libri, Milano 1991; G. Quagliariello, La politica senza partiti. Ostrogorski e l’organizzazione della politica tra ‘800 e ‘900, ed. Laterza, Roma-Bari 1993.

[4] A. Omodeo, Preludio, in «Acropoli», a. I, n. I, gennaio 1945

[5] G. Biffi, Memorie e digressioni di un italiano cardinale, Edizioni Cantagalli, Siena 2007, pp. 136-137.

[6] Benedetto XVI, Lettera Enciclica Caritas in Veritate, introduzione di G. Crepaldi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009, pp. 138-139.