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Nell’editoriale dello scorso 24 luglio M. Clarich illustra le ragioni che rendono l’ordinamento italiano uno dei più ingarbugliati. La scalata che serve per mettere ordine tra le nostre leggi, egli dice, sarebbe più ripida dell’Alpe d’Huez. In verità, credo che una tappa alpina non basti e che si tratti di scalare un K2. Proprio per questo però si deve passare, senza indugi, alle proposte. Se da un lato il sistema va sempre più complicandosi, dall’altro i tempi che viviamo chiedono urgentemente di semplificarlo. In un mondo in cui gli ordinamenti nazionali sono posti in concorrenza tra loro ogni incertezza si trasforma in costo economico-sociale e un assetto come il nostro, che sembra soprattutto nutrirsi di incertezze, può persino minare le ambizioni di ripresa economica e condizionare le scelte di investimento. Dato che gli sforzi fatti per semplificare il groviglio di regole non solo non hanno prodotto il risultato sperato, ma neppure promosso un’inversione di tendenza, dobbiamo prendere atto che i correttivi sono necessari. E la sfida si misura proprio sul terreno delle proposte.

1. Per semplificare le leggi è necessario scrivere meno norme. Sebbene lapalissiano, il punto più importante è questo. Dobbiamo convincerci che la qualità di un progetto si misura anche in base alla quantità di norme richieste per attuarlo: quanto minori sono, più efficace diviene il progetto. Per assottigliare le leggi è necessario accettare l’idea che non tutto dev’essere disciplinato. Se a una legge sostituiamo un regolamento che contiene lo stesso numero di norme non risolviamo il problema. Se riuniamo in unico testo le norme sparse nei meandri nell’ordinamento facciamo sì qualcosa di buono, ma che non basta, perché non riduciamo le regole. Per questi motivi alcuni testi, pur animati da condivisibile voluntas semplificatoria, come il codice delle comunicazioni elettroniche, il codice della privacy, il testo unico per gli espropri e il testo unico per l’edilizia, non è detto debbano riscuotere solo note di plauso. Siamo così sicuri, ad esempio, che per disciplinare la riservatezza siano necessari ben 186 articoli e tre allegati? La riforma del titolo V fatta nel 2001 ha aggravato il problema, perché ha ridotto il federalismo a un problema di misura della legislazione. Ha moltiplicato i centri di produzione normativa senza il necessario raccordo, ha allargato le incertezze interpretative ed ha persino depotenziato alcune buone iniziative. Non serve molto aver semplificato il rilascio del permesso di costruire creando uno “sportello unico”, se poi il cittadino, per capire il da farsi, è costretto a sofisticate interpretazioni del puzzle monotematico composto da legge statale, legge regionale e regolamento comunale. Specie se l’alternativa a tali interpretazioni sta nell’attesa dell’ennesima sentenza della Corte Costituzionale che dica qual è la regola giusta (v. la vicenda del condono). Oltre a quelle dello Stato, abbiamo sempre più regole: delle Regioni, delle Province, dei Comuni, nonché numerose norme delle Autorità indipendenti. Se nonostante le politiche di liberalizzazione e deregolamentazione le regole, anziché arretrare, aumentano vertiginosamente, v’è il sintomo di un malfunzionamento nell’adeguamento del diritto nazionale al diritto comunitario.

2. La seconda ricetta è quella che predica norme più chiare. Non solo scrivere meno, ma scrivere meglio. Non è solo il drafting ad essere importante, perché la qualità normativa è concetto che va lontano: tocca ancora una volta il nostro confuso e rissoso federalismo e vorrebbe che Stato e Regioni imparassero a produrre regole ben collegate, in modo da renderle a tutti intelligibili, senza sovrapposizioni. Detti lo Stato poche ma chiare regole, generali o speciali, segnando così un punto di partenza, e rimetta alla Regione il completamento della disciplina. La qualità tocca anche il recepimento delle direttive comunitarie, perché spesso queste richiedono tagli e aggiustamenti che servono a incastonarle meglio nell’ordinamento interno.

3. La terza ricetta è il pieno coinvolgimento del giudice in un auspicabile processo di semplificazione. Compito della giurisdizione, oggi più che ieri, è quello di far chiarezza e risolvere i dubbi (se possibile, una volta per tutte), accompagnando alla tutela dei diritti la fissazione di regole certe. Soprattutto le Corti superiori sono chiamate ad assicurare l’uniforme applicazione delle norme e, in questo modo, la loro stabilità ed effettività. Quando l’ordinamento si frammenta in una pluralità di regole che è difficile ricomporre in sistema (frutto inevitabile della globalizzazione), la cultura del “precedente” è il primo baluardo a protezione della certezza del diritto.

Le fondamenta di queste speranze riguardano, da un lato, la politica e, dall’altro, i giuristi. La prima deve ben valutare la portata del problema e utilizzare la riforma costituzionale in itinere per delineare equilibri che possano coniugare efficacia dell’indirizzo politico e qualità delle regole (i problemi della correzione del titolo V, da molti invocata, sono ovviamente in primo piano, come quelli relativi al Senato federale). I secondi devono fare la loro parte. Dunque, più giuristi nella politica? Assolutamente no. Più giuristi per la politica. Per avere applicazione efficace, qualsiasi scelta ha bisogno dell’apporto del giurista e dei suoi strumenti, a patto che anch’egli, in tutte le possibili vesti, lavori per soluzione di tali problemi, guardando alla certezza del diritto come valore fondante. E tutto ciò è bene accada presto: prima che della vetta del K2 si perda persino la vista.

Il Sole 24 Ore, 7 agosto 2004