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Lunedì 25 febbraio 2019 presso la Camera dei Deputati vi sarà la presentazione di un libro d’interviste e interventi di Marco Pannella a cura di Marco Palazzolo.

Per l’occasione vi proponiamo due contributi. Il primo – e più rilevante – è una lunga conversazione che alla fine dello scorso millennio Pannella concesse a Gaetano Quagliariello, pubblicata sulla rivista di cultura politica Ideazione.

Pannella allora veniva fuori da una complicata vicenda di salute che aveva fatto temere per la sua sopravvivenza. Il contributo risente positivamente del distacco dalla contingenza e, anche per questo, non ha un mero interesse storico. Alcune intuizioni e slanci quasi profetici sembrano infatti anticipare tratti essenziali della deriva che stiamo vivendo. E non mancano neppure i motivi di stretta attualità, iniziando da una penetrante analisi sugli effetti differenti che il referendum abrogativo e quello propositivo possono avere sugli equilibri costituzionali e, più in generale, sulle garanzie di libertà.

Il secondo contributo è più d’occasione: “un ritratto parlamentare” di Gaetano Quagliariello, inevitabilmente  condizionato dalla ristrettezza dei tempi concessi in aula in occasione della commemorazione ma che, forse, può essere apprezzato proprio per la sua essenzialità.

 

da “Ideazione”, n. 1 / 1999

 

Intervista a Marco Pannella

“PRONTI PER LA RIVOLUZIONE LIBERALE”

di Gaetano Quagliariello

 

Non è un mistero che in ogni redazione di quotidiano vi sia un “coccodrillo” su Marco Pannella, commissionato quando le sue condizioni di salute sembravano senza speranza. Superata la crisi, Pannella ha mantenuto un inconsueto distacco dalla politica. Solo chi ne ha frequentato l’abitazione prima e dopo, può averne una percezione precisa. Il suo stile di vita in apparenza non è cambiato, ma la preoccupazione “militante” non è quella di un tempo. Al di là di alcuni riflessi condizionati, di “residui” lasciati da una ininterrotta stagione d’impegno, la decisione di ritornare alla politica attiva non è stata ancora assunta.Il senso politico di questa scelta è il vero filo rosso che ha legato la nostra conversazione. È questa la prima intervista di Pannella dopo la guarigione e una delle poche che il leader radicale abbia mai rilasciato nella sua carriera. Essa è anche il frutto di un’improvvisazione e di un’urgenza. Nata dalla voglia di “tornare a parlarsi” dopo alcuni anni, si è sviluppata nei ritagli di tempo di due persone a modo loro disordinate. Avrebbe certamente avuto bisogno di crescere ancora un po’ e, soprattutto, di sedimentarsi. Quando ha accettato di intraprendere questa fatica comune, Pannella ha tenuto a cautelarsi: gli argomenti della conversazione non avrebbero investito l’aspetto transnazionale dell’attività radicale. Un aspetto per tanti versi predominante. I suoi occhi si riempiono di orgoglio quando ricorda che il Pr, per la sua attività in favore dei tribunali ad hoc sulla Jugoslavia e sul Ruanda, per la battaglia in favore del tribunale penale internazionale, ha ottenuto dall’Onu il riconoscimento di “organismo non governativo di prima categoria”. Solo in seguito lo stesso riconoscimento è stato concesso anche all’Internazionale socialista ed a quella cattolica. Pur con tutti questi limiti l’intervista è una prima messa a fuoco dei fondamenti, anche teorici, della vicenda radicale nel corso della stagione repubblicana. Soprattutto, tenta di mettere in collegamento questo retroterra con le scelte strategiche dei radicali di oggi; con le ragioni che nei prossimi mesi determineranno la loro politica, ancora una volta indissolubilmente legata a una vicenda individuale per tanti versi unica. Ed è proprio dal tentativo di comprendere gli sviluppi di questo percorso umano che ha preso le mosse il nostro incontro.

 

Insomma, Marco, che farai ora? Te la senti di tornare?

 

“Al posto dei miei compagni, mi augurerei di sentirmi dire che per ora non intendo tornare all’impegno politico radicale. Se tornassi solo per ragioni di mestiere, di abitudine, di riflessi condizionati, a che cosa e a chi servirebbe mai un “Pannella” di tal fatta? Tornerò, quindi, se e quando la mia presenza mi apparirà utile a un obiettivo concreto, definito, urgente e possibile, di adeguata ed “estrema” ambizione civile e politica: quello di realizzare in tempi politici la rivoluzione liberale italiana, la riforma della quale scriveva Benedetto Croce. Quello di rovesciare questo regime nel quale il sovrano è tornato ad essere legibus solutus, negando lo Stato di diritto come nemmeno i regimi fascisti e comunisti avevano fatto. Da qualche anno mi accade di pensare che questo sia possibile: ma non basta per farne un obiettivo”.

 

Evochi scenari pre-rivoluzionari che non sembrano appartenere a questa fine di secolo. E “rivoluzione liberale” è espressione ambigua, che in passato è stata il veicolo dei peggiori illiberalismi. Vogliamo specificare meglio il contesto sociale e politico al quale ti riferisci?

 

”Recuperiamo l’analisi non gramsciana ma salveminiana del blocco sociale dominante. Questo blocco sociale si presenta identico a se stesso per ottant’anni: ha dominati il fascismo dal ’25 al ’43, e l’antifascismo dal ’47 ad oggi. Esso comprende il mondo industriale e finanziario guidato dalla Fiat e dai suoi uomini, le aristocrazie operaie “sindacalizzate”, il potere burocratico, la borghesia parassitaria del Mezzogiorno. Poco è cambiato da allora. Se tentassimo un aggiornamento dell’analisi salveminiana, dovremmo oggi constatare che non ci sono più i latifondisti, ma resta attuale il riferimento al potere industriale, alla politica romana che per le sue pratiche concertative utilizza la burocrazia e l’amministrazione pubblica, ai sindacati, a quel tanto di Chiesa che resta (anche se il Vescovo è di destra, sta con l’Ulivo perché di lì arrivano tutti i soldi pubblici). In fondo, Luigi De Marchi non sbaglia quando parla di “ceto burocratico” -possiamo anche definirlo classe burocratica – sostenendo che nelle nuove fratture sociali Cipolletta e Cofferati si collocano dalla stessa parte. Questo blocco sociale è diventato struttura di potere, ha prodotto corporativismo, Stato etico, e l’anti-cittadino. Oggi sembra essere giunto al suo apogeo, ma come nella Francia dei primissimi anni di Luigi XVI. Ciò che caratterizza socialmente l’attuale fase storica della società italiana è che grandi masse, complessivamente fortemente maggioritarie, si sentono e si vogliono estranee e nemiche dello Stato partitocratico e della cultura della quale il blocco sociale dominante è espressione. Le similitudini con la situazione prerivoluzionaria francese degli anni intorno al 1780 sono a volte impressionanti. In Italia oggi vi è qualcosa di più di un potenziale Terzo Stato, che si oppone a un regime mostruosamente potente e tentacolare, espressione organicistica, chiusa, quasi perfetta delle tradizioni antiliberali: si direbbe in Francia “antirepubblicane”. Tutti i partiti – quelli di maggioranza così come quelli di opposizione – sembrano chiusi, compressi e rissosi, in un ghetto che comprende al massimo un quarto dei cittadini italiani. Il regime appare come un colosso con i piedi d’argilla. Poggia comunque sulle mine o sabbie mobili di un popolo le cui esigenze, le attese, i sentimenti e i risentimenti si volgono sempre più apertamente contro il regime. Si tratta, perciò, di porsi alla testa, guidare e armare la rivolta sociale che per molti versi già incombe. O lo facciamo noi, da radicali liberali, edificando sulle macerie di questo regime un’alternativa di tipo anglosassone, o lo faranno altri radicali: neo-comunisti, neo-fascisti e neo-clericali, destinati a ritrovarsi uniti per imporre tutti insieme nuovi assetti di violenza, di ingiustizia, di intolleranza, di miseria economica e civile. È insomma necessario, come ha magistralmente spiegato Sergio Romano proprio su Ideazione, che i liberali e i moderati cessino di considerare se stessi come molluschi invertebrati, per assicurare allo scontro politico e sociale l’intransigenza senza la quale nessuna grande riforma -di se stessi e del Paese – e nessun buon governo sono immaginabili”.

 

Categorie “emergenti”, come quella dei magistrati, in che rapporto vengono a trovarsi con il blocco sociale che tu tratteggi?

 

”La loro integrazione nel regime è scontata, ne sono elemento costitutivo tra i più potenti e pericolosi. Il cosiddetto “partito dei magistrati” gli ha concesso il massimo dei benefici economici, finanziari e di carriera. Contro di loro servirebbe un po’ di sana lotta di classe… Hanno stipendi fra i più alti del mondo e condizioni di carriera scandalose. Perfino Scalfaro, per una volta, è riuscito ad avere una battuta felice quando ha detto che un giovane che entra in carriera a 25 anni potrebbe già scrivere sui suoi futuri biglietti da visita “futuro presidente di Corte di Cassazione”. Ma, se entriamo nel mondo delle corporazioni, dobbiamo accennare anche alla casta militare con i suoi più di 1000 generali al posto dei 30 realmente necessari; alla burocrazia, al potere corporativo di alcune categorie di pensionati (che in gran parte coincide con quello dei sindacati). Del “blocco sociale” dominante fanno poi parte tanti, e grandi, sepolcri imbiancati. Come quella Banca d’Italia che è stata la prima responsabile, per decenni, dell’uso massicciamente partitocratico e mafioso del credito, oltre che del mostruoso indebitamento che è stato necessario per assicurare il potere assistenziale e clientelare, corporativista e inflazionista del regime partitocratico della fase precedente a quella che stiamo oggi vivendo. Dobbiamo poi parlare della disponibilità da parte di questo blocco degli strumenti del potere moderno: Mussolini aveva a disposizione solo la radio. Questi controllano tutto quanto consente il condizionamento, garantendosi oppositori complici ideologicamente e culturalmente. Questo Polo gli va benissimo, perché sembra aver abbandonato l’idea della grande riforma istituzionale americana antipartitocratica e sterilizza l’opposizione sociale“.

 

Siamo al “regime”: un termine che ritorna nelle tue analisi da oltre vent’anni. Ma questa categoria può ancora essere riproposta immutata, nonostante tutta l’acqua scorsa sotto i ponti della politica italiana?

 

”Io ho sempre parlato di “regime” in termine tecnico, come categoria neutra e avaloriale. Ho sostenuto che nella storia del XX secolo si sono avuti i regimi liberaldemocratici, i regimi totalitari e la partitocrazia come regime terzo (che non vuol dire “regime intermedio”). Ma quest’ultima non ha fatto i conti, così come il totalitarismo, con la democrazia che i “totalitari” anatemizzavano come vecchia quando ancora era solo un vagito nella storia. La partitocrazia italiana si confronta non più con la democrazia quanto con il passaggio dalle monarchie assolute alle monarchie costituzionali. È un nuovo sovrano tornato al di sopra delle leggi. In questo passaggio il potere che è soggetto di diritto diviene soggetto al diritto; il re che detta legge ed è la legge ne diventa invece il supremo garante e servitore, perde l’investitura dall’alto. La cultura partitocratica fa i conti con questa conquista dell’umanità e ripropone una nozione dell’organizzazione dello Stato per la quale “chi è al potere detta legge ed è la legge”. Inventa la nozione di “legge materiale” che non è mai uguale a se stessa, e la novellistica è costante perché di volta in volta la legge serve a superare mille difficoltà diverse. Non è un caso che la “partitocrazia” si affermi in un Paese nel quale la Chiesa è cattolica e non protestante, il movimento operaio comunista e non socialista. Qui essa trova l’humus migliore per ridar vita ad una concezione dello Stato e del potere nel quale la legge non è quella dello Stato di diritto, né la legge uguale per il primo cittadino e per l’ultimo. Questa è la sola spiegazione nobilitante della partitocrazia, in questi quarant’anni non ne ho sentito altre. Di fronte a questa realtà, i vari Bobbio, Galante Garrone, eccetera, sembrano i più ciechi, sembrano aver paura di aprire gli occhi. Perché questa caratteristica dell’assenza della legge come legge di tutti, alla quale nessuno è superiore ma che anzi vincola ancora di più il potere, è stata accettata e coperta da ogni soggetto politico. Qualche volta in malafede, più spesso in buona fede. Craxi nel suo discorso-confessione ha detto che le leggi erano state violate da tutti. Dimenticava di far riferimento a una minoranza che si è sempre rifiutata di accettare questa pratica: quella radicale”.

 

Nella tue battaglie la rivendicazione dello Stato di diritto si è sovente tradotta nella richiesta di attuazione della Costituzione e nella correlata denuncia della sua violazione. Rileggendo i tuoi scritti, però, sembra che tu oltrepassi questa impostazione “metodologica”, fornendo a volte un giudizio sostanzialmente positivo sul merito del dettato costituzionale. Questa posizione, però, implicherebbe un’accettazione della prima parte della Costituzione (naturalmente prodotta dalla confluenza della cultura comunista e di quella cattolico-sociale) e un giudizio sostanzialmente positivo sul compromesso raggiunto nella seconda parte: una soluzione istituzionale che difficilmente avrebbe potuto affermarsi senza comportare la “materiale” centralità dei partiti.

 

”La Costituzione attuale è infelice per quanto riguarda l’aspetto istituzionale ma è categorica nel fissare diritti e libertà. In questo è stata subito negata e tradita. Ho sempre messo in evidenza un altro aspetto del processo costituente. In quel tempo storico così particolare, dopo il sangue della Resistenza e la guerra civile, il costituente ha una visione profetica: il referendum deliberativo, propositivo, nel mondo della comunicazione che cominciava a nascere esponeva al rischio del potere plebiscitario e diveniva forza aggiunta per chi ha il potere. Cioè il referendum classico da arma della gente contro il potere può trasformarsi in uno strumento di chi ha il potere per superare un blocco o una ostruzione del potere legislativo. Una cosa è certa: questa intuizione di dare al popolo italiano due schede, una per eleggere il proprio rappresentante e una per annullare le leggi che non vanno (tenendo presente che le leggi sono espressione dei poteri legali ma anche dei “poteri forti”), avrebbe potuto determinare una nuova formula di democrazia partecipativa che innova i tradizionali canoni della rappresentanza. Il referendum abrogativo è un’intuizione favolosa. Solo perché il liberale odierno è il prodotto del suo tempo, non si è mai accorto che nella scelta del costituente italiano di inserire il referendum abrogativo vi è una punta da anni 2000, profetica”.

 

Questa la devi sostanzialmente a un radicale, Meuccio Ruini…

 

”A Ruini debbo anche altre cose, come la disponibilità a subìre il linciaggio del ’53 per avere, da presidente del Senato, difeso e condotto in porto la legge che prevedeva il premio di maggioranza. Ma dal momento nel quale lo Stato si dà la sua Costituzione esso cade nell’illegalità: non dà applicazione al referendum, non attua le regioni come nuovo assetto anticentralista dello Stato, non crea a lungo la Corte Costituzionale come contrappeso. Sceglie la continuità invece di accogliere la tesi azionista della soluzione di continuità: “rompere” solo per un istante la continuità statuale per inaugurare una nuova legalità. Per decenni lo Stato italiano si è posto contro la Costituzione, contro la legge”.

 

Hai parlato spesso di illegalità dello Stato. E in alcuni casi mi sembra tu ti sia riferito non solo alla violazione dello Stato di diritto. A volte, in certe tue analisi del passato, è possibile avvertire una certa assonanza tra le tue tesi e quelle di una storiografia d’impronta prevalentemente marxista, riprese tra l’altro da alcuni settori della magistratura, che si condensano nella formula del “doppio Stato”. In Italia sarebbe esistito una sorta di Stato parallelo, invisibile e irresponsabile, che per bloccare il processo di emancipazione del Paese è giunto fino ad utilizzare l’arma delle stragi. La differenza sostanziale tra queste tesi e le tue – mi sembra di capire – è che tu ritieni che almeno da un certo momento in poi i comunisti abbiano preso parte attiva a questo “doppio livello” e che esso sia diventato uno dei pilastri strutturali del patto consociativo. Non ritieni che sia giunta l’ora di riconoscere una volta per tutte che in Italia nel dopoguerra è nata una democrazia imperfetta, ma anche l’unica democrazia allora possibile?

 

”Non ci sono mai stati due Stati, ma un solo Stato che è letteralmente “fuori legge”. In base al diritto internazionale basta comprovare che si esercita la sovranità per avere il riconoscimento, anche se mancano i titoli di legittimità; questo Stato italiano, dunque, non può non essere riconosciuto perché ha esercitato tutte le manifestazioni della sovranità, ma contro la legge. Te lo dimostro, restando al tema del referendum. Quando proponemmo l’abolizione dei Codici Rocco non eravamo dei pazzi. Sapevamo che da sette anni erano bloccati in un cassetto i progetti di riforma. Così come, quando ponemmo il problema del diritto di famiglia, facemmo saltare un ostruzionismo che durava da nove anni. Anche grazie a un nostro sciopero della fame si portò a compimento il voto ai diciottenni e il diritto di famiglia. Queste leggi, delle quali noi chiedevamo l’abrogazione, non dovevano cadere. Erano tutti d’accordo perché la cultura politica di questo Paese è comune. Il discorso è sostanzialmente questo: se noi comunisti andiamo al potere o se noi democristiani rimaniamo al potere, non ci possiamo permettere il lusso di abolire il Codice Rocco. Bene, sulla base di questo ragionamento la Corte Costituzionale ben presto proclama il “principio di ragionevolezza”, affermando in sostanza: “È una follia, i codici non si possono abolire”. A tal proposito sarebbe interessante riparlarne con Livio Paladin che mi ha riferito allora di essere stato d’accordo con noi. Mi ha detto testualmente che quando la Corte Costituzionale inventò “il decalogo” e con la Corte di Cassazione fu costretta a inventarsi il “principio di ragionevolezza”, lui capì che le nostre accuse erano intellettualmente plausibili. Poi viene fuori che le leggi non si possono abolire. Poi che i referendum devono essere “omogenei”. Quindi, in base all’omogeneità dei quesiti, viene preclusa la possibilità di sottoporre a referendum le leggi che in Italia sono spesso leggi omnibus. S’instaura così, in modo violento, la sola possibilità di fare referendum manipolativi. E anche in questo ambito siamo allora diventati maestri, ma essendo teoricamente contrari a questa pratica che ci hanno imposto. Ti chiedo: tutto questo non è forse un golpe? Inventare il principio di ragionevolezza come principio centrale rispetto al dettato costituzionale. Un popolo al quale proponi una cosa folle, ti sanziona con l’1% se fosse veramente folle e irragionevole. Invece, si crea la casta dei guardiani della ragionevolezza popolare. Il rischio che paventavano è che concedere il referendum secondo Costituzione avrebbe messo il popolo nelle condizioni di votare qualsiasi follia. Bisognava mettere il popolo sotto tutela, così come Pio IX avrebbe voluto che un re scomunicato non concedesse l’istruzione pubblica, perché si rischiava di mettere il popolo nelle mani del Diavolo! Oggi si sono tutti dimenticati che questa non è una storia minore. Su quei referendum noi eravamo egemoni: tutti erano con noi, da Scalfari a Lelio Basso a Riccardo Lombardi. In quell’occasione il “nobile” presidente della Camera dei deputati, Pietro Ingrao, in combutta con la Corte che aveva sottratto dalle nostre mani la scheda che era stata poco prima concessa alla Chiesa, fece strame delle tradizioni parlamentari. Piccolo dettaglio di cronaca: Ingrao mi mandò a chiamare una mattina, alle 4, quando avevamo bloccato la Camera con l’ostruzionismo, e mi disse “Se tu lasci passare la Reale-bis e l’aborto, io ti garantisco di salvarti gli altri referendum”. Capì che ero scandalizzato – in realtà ero anche un po’ sconvolto – e mi disse che, per essere ancora più chiari, sarebbe stato lui a proporre al suo partito, se il referendum non fosse stato bloccato, di prendere posizione in difesa della “legge Reale”. Nei confronti della “legge Reale” i comunisti giocarono una partita doppia: andavano da De Martino in via del Corso a dirgli che avrebbero fatto l’opposizione ma volevano garanzie che i socialisti non avrebbero mollato. In quel momento il potere stava per essere travolto. Allora constatavamo che esistevano solo due forze in Italia: i comunisti e i radicali. Tutti gli altri avevano “posizioni” ma non lottavano. Sulla Reale, sul finanziamento pubblico, sul decreto Cossiga, quelli che “ressero” contro di noi furono solo i comunisti. E per fermarci hanno dovuto realizzare dei veri e propri golpe legali“.

 

Non si riuscì allora, e ammetti tu stesso che i rapporti di forza ti erano molto più favorevoli. Perché dovresti riuscirci oggi che la situazione, almeno in apparenza, è molto più chiusa e stabilizzata? Insomma, dove sono i soggetti sociali e dove risiede la forza politica della tua “rivoluzione liberale”?

 

”Il fatto nuovo nella storia d’Italia è che per una serie di fatti, certo transeunti ma che durano già da 10 anni, il Paese è oggi pronto a fare la sua rivoluzione liberale. Non che il Paese ne sia cosciente o che voglia la rivoluzione, ma esiste una maggioranza assoluta di ribelli, di scontrosi, di stanchi che possono “fare lega” e diventare un soggetto politico creativo e alternativo, di nuova legge e di nuova legalità. Per tenere in piedi il blocco sociale egemone non basta più la corruzione o la cooptazione, non basta più la distruzione sistematica dei princìpi della vita democratica e costituzionale. Questo “regime terzo” è arrivato alla resa dei conti, sta raschiando il fondo del barile. Se ci fosse un’azione decisa, a salvarlo non basterebbe più neanche l’arma politica del linciaggio che contra legem la magistratura italiana ha consentito alla sinistra, e in particolare al Partito comunista, di utilizzare per 40 anni (contro Ruini, contro Piccioni, contro Berlusconi, eccetera) come arma di lotta politica. Si sono così disarmati i codici italiani della possibilità di perseguire i reati contro la personalità e di difendere la reputazione e su questo terreno si è saldata l’alleanza tra il partito dei magistrati e il partito degli editori. Queste sono in Italia le due grandi corporazioni che, per ora, hanno vinto. E che reggono il regime. In questa situazione storica, però, poco di più può giungerci dalla “politica politicante” al centro, a destra, a sinistra. Lo Stato e le istituzioni sono in putrefazione. La giustizia, la scuola, il mercato, la sanità, l’ambiente sono funzioni degradate, non di rado repellenti. Il popolo, la gente, gli individui sentono che lavorare fino a oltre la metà del mese per lo Stato è intollerabile, ingiusto, sbagliato. Le oligarchie del denaro e dell’industria, in alleanza con le oligarchie partitiche ed elettive, sindacali, amministrative, e le corporazioni dei giudici, della stampa, dei mestieri intellettuali, degli ordini professionali, costituiscono un agglomerato di potere, un “disordine costituito” che sta portando l’Italia a essere sempre più “mediterranea”, sempre meno “occidentale” ed “europea”. A tutto ciò si contrappongono i sei milioni di partite Iva – cioè gli interessi oggettivi dei piccoli nuovi imprenditori – soffocati dalla burocrazia confindustriale; i lavoratori autonomi ed i giovani in cerca di prima occupazione, vessati dalla politica sindacale. Se la Confindustria o il Polo facessero propri 4 o 5 referendum liberisti, l’impopolarità “di massa” del sindacato diventerebbe palese. Perché già in questa situazione si è rovesciato il tradizionale rapporto di forze: oggi gli unici che possono contare su forze di massa sono le proposte liberali; la Confindustria, consapevole di questo, ha paura che il blocco sociale tradizionale possa prima o poi saltare. La concertazione è intoccabile: siamo giunti a vedere l’Avvocato, con a fianco D’Alema che acconsente, affermare esplicitamente che è preferibile che a governare sia la sinistra perché controlla di più i contrasti sociali. Non è difficile prevedere che questo potere arriverà con dieci anni di ritardo a fare le riforme decisive, come quella delle pensioni. Questi faranno nel 2005 ciò che Giuliano Amato stava facendo nel 1992. Nel frattempo, l’Italia avrà perso l’autobus e si sarà impoverita”.

 

Ma si può rilanciare una “sfida liberista” nel momento nel quale questa politica indietreggia in tutta l’Europa continentale?

 

”Sta di fatto che se oggi in Italia si alzasse un imprenditore degno di questa parola, dichiarasse guerra alle bordature corporative ed avesse il coraggio di annunziare: io voglio la lotta sociale, i sindacati e la sinistra sarebbero già sconfitti. Oggi la lotta sociale possono farla innanzitutto i liberisti. C’è una cosa da chiarire una volta per tutte: quelli che sono neo-keynesiani e anti-liberisti, ritengono che il liberista sia per la legge della giungla ed a questa impenetrabile giungla loro contrappongono l’economia a due settori. Questa, storicamente, è stata e resta una soluzione improbabile, perdente. Non può funzionare se nel settore pubblico non ci sono motivi di sana imprenditorialità, e non possono esserci perché i suoi valori sono altro rispetto a quelli del rischio, del profitto, del fallimento (in Italia è stato abolito perfino il diritto al fallimento). In realtà, la vera contrapposizione al cosiddetto “liberismo selvaggio” è quella che può offrire lo Stato regolatore che non ha nemmeno l’illusione lontana di poter essere titolare di un settore dell’economia. Al mercato, con tutti i suoi rischi, viene dato il resto. L’unica reale esigenza vitale (nel vero senso della parola, perché al di fuori di essa non c’è vita), che viene prima anche dell’ansia di giustizia, è quella del mercato contro gli oligopoli“.

 

Evochi la rivoluzione possibile e scenari ultimativi. Ti riferisci al ruolo di minoranze attive che dovrebbero creare un soggetto politico nuovo e mostrare al Paese la via del cambiamento che esso non sa scorgere. Tutto ciò non è forse in contrasto con la qualifica di “riformatore” alla quale hai sempre tenuto?

 

”Ho trovato in Bergson, che ho ripreso tra le mani l’altro giorno, una intuizione importante: la “riforma” si può fare se si accetta l’idea della “forma” nel diritto e nella politica. Che m’importa quale sarà la riforma di D’Alema se so che non crede nella forma? Se non si rispetta la Costituzione che si ha, perché si dovrebbe rispettare la Costituzione che verrà? Noi dobbiamo fare la rivoluzione americana o quella del 1789 e non quella del 1793 o dell’ottobre 1917. Dobbiamo guadagnare innanzi tutto la certezza del diritto. Questa è una battaglia di civiltà profonda. È la rivoluzione illuminista e liberale che pone il diritto come fondamento della possibilità del vivere: un diritto che impone al potere di servirlo esattamente come al semplice cittadino. La negazione di ciò rappresenta la vera ideologia e cultura del “regime terzo”, che è stata distillata in un modo spaventoso. Il fatto che stia scomparendo dalle cose visibili la filosofia del diritto è il segno più evidente della sua potenziale pericolosità per questo regime. Sul piano storico, poi, don Benedetto continua a offrirci una riflessione che è giusta: questo è un Paese che ha avuto solo controriforme e mai una riforma. Anche se poi sul Risorgimento faceva le sue specificazioni”.

 

Resta un dato di fatto, che per te rappresenta anche un problema politico: i soggetti sociali sui quali conti per la “rivoluzione liberale” sono gli stessi che riempiono le piazze dell’opposizione. Non si pone per te l’esigenza di trovare un rapporto con le forze del Polo?

 

”Certo, in piazza dal Polo ci vanno un po’ di persone che non ne possono più, ma oggi riempire le piazze con la complicità dei mass media di regime è un gioco da ragazzi. Ma mi sentirei di affermare che la cosiddetta “classe dirigente” italiana non contiene nuclei significativamente interessati alla “rivoluzione liberale”; in un modo o nell’altro maggioranza e opposizione sono interne al regime. Per creare un nuovo blocco sociale da uno sterminato rigetto della politica, del potere e della cultura di potere ci vuole una grande creatività e, soprattutto, devi avere la possibilità di selezionare dei punti di forza sui quali dare tempo al Paese di riunirsi, di fondersi come una lega. Il Polo sta scegliendo sempre più esigenze ultra-minoritarie. I suoi leaders non capiscono che bisogna oltrepassare la dimensione della politica e della cultura “ufficiale”. Il divorzio e l’aborto sono venuti fuori contro tutta la cultura ufficiale: io allora non avevo Il Mondo, né L’Espresso, avevo Abc e un Abc con 90mila copie di vendita che portammo fino a 1 milione di copie. Aborto e divorzio s’imposero solo quando divennero cultura “popolare”: quando tutti ebbero qualcosa da dire su quei temi, in famiglia, sull’autobus, in sezione. Oggi dire “eleggiamo il presidente all’americana, chiudiamo le baracche partitocratiche e creiamo due partiti” significa popolarizzare una elaborazione culturale più complessa. La frattura nel Paese non puoi certo crearla tra i due turni di coalizione o il turno unico, eccetera, di cui capisce solo qualche politico, e alla gente non importa niente. Un’opposizione che ha la chance di poter essere in sintonia con l’80% dei cittadini e decide di non utilizzarla vuol dire che prende in considerazione i sondaggi solo quando sono insignificanti o errati. Mi domando: non è sintomo di minoritarismo e di analfabetismo politico considerare centrale il problema cattolico, quando Ruini al massimo può spostare il 5% del voto cattolico, cioè l’1 o il 2% dell’elettorato italiano? Quando in una situazione di monopolio comunicativo quotidiano concesso a quel se non amatissimo comunque rispettatissimo Papa che parla sempre di divorzio e di aborto, l’80% degli italiani continua a dichiarare che oggi voterebbe comunque per l’aborto e il 90% per il divorzio? Oggi dunque, come vent’anni fa, ci ritroviamo all’opposizione del governo e all’opposizione dell’opposizione. Perché c’è un’opposizione di regime, il che non vuol dire che non possa essere un’opposizione di buona fede, ma solo che essa condivide gli interessi e le culture di regime”.

 

L’alleanza elettorale con il Polo è dunque solo acqua passata?

 

”La ripresa di un rapporto può giungere solo dalla spietata franchezza della critica e dalla riconsiderazione degli errori presenti e passati. E su alcuni aspetti del passato bisogna essere chiari. Quando Berlusconi formò il suo governo, mi chiamò alle 2 di notte per dirmi che l’unica cosa che poteva proporci era un ministero minore per “uno dei miei”. La destra, della quale eravamo se non alleati almeno amici, ci ha offerto meno di quello che è stato disposto a darci D’Alema con l’offerta del ministero a Emma Bonino. Dopo di che, io dissi a Berlusconi di presentarsi in Parlamento con una lista di ministri non contrattata ma che poteva assicurare immagine e competenza. Di sfidare così la Lega ma, soprattutto, la logica partitocratica della coalizione. Allora parlavo con Scalfaro e mi dissi certo del fatto che, se Berlusconi fosse stato subito sfiduciato dal Parlamento, si sarebbe tornati alle urne accorpando le elezioni legislative alle Europee. E si sarebbe preso il 70%. Dall’elezione della Pivetti in poi, posso ricostruire settimana per settimana gli errori del Polo previsti e denunciati senza che Berlusconi o altri prestassero ascolto”.

 

Qual è il tuo giudizio e quali i vostri rapporti con i “nuovi referendari”?

 

“Avevamo presentato già da un anno il quesito referendario cavalcato oggi da Segni, Di Pietro, Fini, Veltroni, e tanti altri. Ma come “il male minore”: esso aveva dalla sua solo il merito di essere “auto-applicativo”, cioè di poter consentire lo svolgimento delle elezioni con la legge quale risulterebbe dall’eventuale applicazione del risultato referendario. Ma questi “nuovi referendari” vanificano anche questo vantaggio. Essi degradano, quasi tutti, il referendum a mero “stimolo” per il Parlamento. Di Pietro, addirittura, ha contestualmente raccolto le firme per una legge elettorale diversa da quella risultante dall’eventuale approvazione del referendum. Insomma, vi sono tutte le condizioni per tornare al 1993 e all’impostazione che rese possibile il tradimento del referendum di allora e la legge Mattarella. Per noi, questa concezione del referendum è semplicemente anti-referendaria. Ci sarebbe, poi, un ostacolo insormontabile in uno Stato di diritto. La Corte Costituzionale ha, lo scorso anno, decretato che i referendum non possono più essere manipolativi (malgrado questa del referendum manipolativo sia stata un’invenzione della stessa Corte). E questo quesito è certissimamente manipolativo. Ma non importa: una Corte di regime come questa, di cortigiani del nuovo sovrano, ubbidirà, si smentirà se avrà più paura di bocciarlo che di approvarlo. Se il referendum passerà, infine, è bene che si sappia che un quarto degli elettori italiani si troveranno rappresentati sia dal parlamentare che hanno eletto, sia da quello che hanno sonoramente bocciato. Non è l’ideale. Per questi motivi ci siamo chiamati fuori. Voteremo “sì”, ma senza fiducia nel seguito. Quanto a quelli che continuano a cianciare indisturbati di Costituente, tanto varrebbe che dicessero apertamente di volere il ritorno alla proporzionale e una “nuova” Costituzione ben peggiore, ancor più frutto di un’ammucchiata, dell’attuale”.

 

Tra i nuovi soggetti politici, si fa un gran parlare del cosiddetto “partito dei sindaci”: un potenziale concorrente o un possibile alleato?

 

”Questa vicenda dei sindaci ha dell’incredibile, e qualifica non tanto i sindaci stessi quanto le maggiori forze politiche di questo regime. Che questi sindaci, giunti alla metà del loro secondo mandato, non rinnovabile, tentino di inventare ragioni politiche e magari anche ideali per il proseguimento della loro carriera e per inserirsi (ora o mai più) ai massimi livelli dell’oligarchia italiana, pur del tutto privi di ragioni, obiettivi, programmi e progetti comuni, è comprensibile. Anche se non è propriamente ammirabile. Ma che il Parlamento e i partiti, riformando la legge elettorale europea, non facciano valere la non candidabilità e l’incompatibilità tra l’incarico di sindaco e quello di deputato europeo, mostra il grado di impreveggenza e di irresponsabilità dei nuovi governanti oltre che – almeno finora – della nuova opposizione. Mostra quanto ci si infischi del buon costume civile, fino al limite del masochismo. Se i sindaci potranno fare le loro liste europee, con Tonino Di Pietro e chissà chi altro, sarà la fine non soltanto dell’Ulivo (e non parliamo del Polo!) ma anche, probabilmente, dei vertici dei Ds e dei Verdi, per i quali certo non prenderò il lutto. Ma al peggio, diciamolo, non c’è mai fine. C’è ancora tempo, se pure pochissimo, per evitare questa ennesima grave disfunzione delle istituzioni. Staremo a vedere se, almeno, l’istinto di conservazione dei partiti di regime, se non l’amore per la legge e la democrazia, riuscirà in extremis a farsi valere”.

 

Mi sembra che tu stia evocando la prospettiva di una nuova marcia solitaria nel deserto. Ma ammesso che vi sia la possibilità di provocare un’ulteriore “rottura” nella vicenda politica italiana, non si rischia di giungervi di nuovo impreparati? Dov’è una classe politica alternativa? Dov’è un programma riformatore?

 

”Nella pittura, nella scultura, nella poesia il nuovo è per definizione il salto nel buio. Il nuovo comporta l’esercizio del rischio d’impresa, che esiste in politica e non solo sul mercato. Poiché il nuovo è sempre differente da ciò che soggettivamente hai immaginato, il rischio del nuovo esiste e non può essere soppresso. Anzi, è proprio su questo rischio che occorre investire. Ma i nostri veri problemi sono altri. Sfido chiunque ad affermare che i nostri problemi non siano quelli di capire come si fa a vincere partendo dalla clandestinità a cui siamo costretti. Ti sei chiesto perché Storace abbia affermato che è in atto un genocidio culturale dei radicali e che occorre interromperlo ad ogni costo? La nostra politica è tabù e deve restare tabù. Non si può mandare in televisione chi dice che sul finanziamento pubblico sono dei truffatori. Non puoi consentirti di mandare in video chi dice a Scalfaro: tu, secondo la Costituzione, sei un traditore e un usurpatore. Non puoi permettertelo. Affermare ciò non è fare del vittimismo. È il tentativo di comprendere perché hanno bisogno che quanto proviene dai radicali debba restare tabù. Al tempo del divorzio, io dicevo che, se il Paese avesse iniziato a discutere il problema, si sarebbe vinto. Oggi vale la stessa cosa. E poi, nonostante la censura più assoluta, bisogna dirlo una volta per tutte: nel Paese la “cosa” radicale esiste. Ha una sua sostanza sociologica, strutturale, economica. Di fronte al fallimento della forma “partito di massa” e al tramonto del “partito giacobino”, rappresenta l’unico modello di organizzazione militante che conserva una sua attualità. È la forma organizzata dell’impegno civile di una minoranza; ma di un impegno che assume forme “empiriche”, non ideologiche e non esclusive. Negli anni ’60 questa minoranza comprendeva non più di 30 “quadri” in tutta Italia; oggi saremo 150. Ma di questi, almeno 50 posseggono il know-how per essere una classe dirigente di ricambio, per assumere ed esercitare positivamente funzioni di ministro o di primaria responsabilità istituzionale. Oggi esiste una radio che ha scritto una pagina nella storia dell’informazione di questo Paese, e la cui valutazione commerciale ammonta a diverse decine di miliardi. Vi è un Centro di produzione che, a partire dall’audiovisivo, è l’unica memoria orale della storia italiana dell’ultimo ventennio. Il nostro Centro d’ascolto è la più importante “baracca” europea nel campo della valutazione del funzionamento e dell’impatto politico dell’informazione pubblica. Con Agorà (il server più antico e tecnologicamente ritenuto ancora oggi tra i più validi) abbiamo per primi intuito l’importanza che la comunicazione in rete avrebbe assunto, anche per le istituzioni e la politica. Non devi scordare che abbiamo già scritto nella storia della Repubblica italiana un Cahier de doleance. Dei 50 referendum presentati, 30 sono la trascrizione e la traduzione delle riunioni di questi “ignoranti” di piccoli imprenditori del Triveneto, abruzzesi e pugliesi; delle loro esigenze primarie: il non poter usare il lavoro temporaneo, il non poter assumere, eccetera. Tutte cose anche più determinanti delle tasse. Quale altro soggetto organizzato sarebbe stato in grado di raccogliere 12 milioni di firme autenticate di elettori italiani o – come nel 1993 – di “produrre” in 2 mesi 40mila iscritti con circa 14 miliardi di introito? Chi in Italia è al corrente che il nostro Call center produce quotidianamente, per tutta la durata dell’anno, poco meno di 10 milioni d’iscrizioni o contributi? E quale altra forza sarebbe stata in grado di organizzare, per oltre 4 mesi, una campagna di sostegno ai diritti di Radio radicale in grado di coinvolgere circa 12.355 cittadini in uno sciopero della fame collettivo? Allora, quando si parla di “liberali italiani”, bisogna riconoscere che, anche tenendo conto della storia del Pli, la “cosa” radicale rappresenta l’unica struttura in grado d’incidere realmente nella vita del Paese, a fronte di un folto manipolo di “liberali ufficiali” che rappresentano esclusivamente se stessi o poche decine di militanti, nel territorio di elezione di questi notabili. Ribadisco: nella durata, nella continuità e nei momenti fondamentali della lotta politica nazionale non vi sono stati che i comunisti e i radicali. Ma oggi questa realtà tanto importante quanto “clandestina” per la politica ufficiale non basta ad assicurare l’inevitabile compito di assicurare il passaggio da questo regime ad un’alternativa di “nuovo blocco sociale” e di riforma (o rivoluzione) liberale dello Stato e della società. Manca ed è da conquistare la certezza del collegamento fra la rivolta sociale del Terzo Stato, che coinvolge oltre i 3/4 delle “masse”, e una struttura in grado di assicurarne l’espressione e la guida politica. Cioè il detonatore di questa potenziale miscela esplosiva. Fin quando questo non sarà configurabile, non comprendo a che cosa il mio “rientro in politica” possa servire”.

 

Resoconto stenografico della seduta n. 633 del 25/05/2016, intervento del Sen. Gaetano Quagliariello in ricordo di Marco Pannella.
Signor Presidente, colleghi senatori, le radici della formazione politico-culturale di Marco Pannella ci conducono su un terreno originale e non consueto. Marco era un liberale, e la contaminazione del suo liberalismo originario con motivi propri della destra azionista lo portò da un lato ad apprezzare il contributo dato dalla destra storica alla nascita del Paese e, dall’altro, in contraddizione apparente con questa sensibilità, a sviluppare una visione più liberista che crociana in ambito economico.
Non si comprenderebbe Pannella, però, senza considerare l’influenza della nuova sinistra americana sul modo di fare politica prima ancora che sul terreno ideale. Provengono da Oltreoceano la non violenza, l’utilizzo del corpo come strumento di comunicazione e di lotta politica, la predilezione per azioni minoritarie che potessero conquistare la maggioranza agendo fuori dal palazzo e, anzi, in opposizione ad esso.
Il Partito Radicale di Pannella, a differenza di quello di Pannunzio, Scalfari e di quelli che con loro andavano la sera in via Veneto, fu un fenomeno post sessantottino. Direi che fu il liberalismo possibile dopo quella stagione che, soprattutto in ambito giovanile, sconvolse il mondo. Fu il Sessantotto liberale e libertario che non involse in gruppetti settari e iperideologici.
«Tu sei un rivoluzionario» scriveva Pannella ad Andrea Valcarenghi nella prefazione di «Underground a pugno chiuso», «Io amo invece gli obiettori, i fuorilegge del matrimonio, i capelloni sottoproletari anfetaminizzati, i cecoslovacchi della primavera, i nonviolenti, i libertari, i veri credenti, le femministe, gli omosessuali, i borghesi come me, la gente con il suo intelligente qualunquismo e la sua triste disperazione. Amo speranze antiche, come la donna e l’uomo; ideali politici vecchi quanto il secolo dei lumi, la rivoluzione borghese, i canti anarchici e il pensiero della Destra storica».
Proprio per queste ragioni, negli anni Settanta il Partito Radicale svolse un ruolo fondamentale nella sociabilità e nella formazione politica dei giovani di quel decennio. Il mio stesso percorso ne è una testimonianza. Studiavo in un liceo che ospitava tutte le formazioni dell’estrema sinistra, la Federazione giovanile comunista-italiana e un solo fascista. Quel gruppetto di radicali era un’ancora di salvezza per chi voleva sfuggire alle droghe delle ideologie novecentesche. Anche quando poi si prendeva distacco da quell’esperienza, come a me accadde a 22 anni dopo essere stato vicesegretario nazionale proprio di Marco, essa restava un punto di riferimento, prezioso pure per concepire idee differenti e a volte addirittura antitetiche o antagoniste.
Oggi di luoghi di formazione, in fondo gratuiti e generosi, come quello che fu il Partito Radicale di Pannella, non ne esistono più. E questa è una perdita secca che condiziona la qualità della classe politica e quindi la ricchezza stessa della Nazione.
Fu quello il periodo d’oro del Partito Radicale e del suo leader.
Negli anni della cosiddetta Prima Repubblica le sue battaglie e lo strumento del referendum, del quale in seguito si sarebbe abusato, sconvolsero un sistema politico allora sclerotizzato intorno al bipartitismo imperfetto interpretato da due partiti-chiesa. Quando, nel 1976, i radicali entrarono in Parlamento, essi furono la prima formazione veramente nuova a riuscirci. Le grandi vittorie, dal divorzio fino alla battaglia su Enzo Tortora, appartengono tutte a questo periodo storico.
Non è difficile comprendere perché, con l’inaugurarsi della cosiddetta seconda Repubblica, la vicenda politica e umana di Pannella, pur continuando a interpretare una testimonianza in alcuni casi al limite dell’eroismo, perde peso e incidenza politica. Il problema è che quella dinamica bipolare che nel corso della prima fase della Repubblica Pannella era riuscito a imporre sulle sue battaglie, tagliando trasversalmente la politica ufficiale e spiazzandola, battendosi per una legittimazione reciproca e generale che lo portò ad essere il primo leader a prendere parte a un congresso del Movimento Sociale Italiano di Almirante, e contrastando fino in fondo qualsiasi tipo di reato di opinione, a partire dal 1994 diventa la regola di funzionamento del sistema. In qualche modo, il bipolarismo si secolarizza. E la stessa cultura dei diritti civili cessa progressivamente di identificarsi con la difesa di una minoranza per diventare cultura di massa.
Lo aveva compreso in modo mirabile uno che a Pannella voleva bene e che negli anni Settanta gli aveva dedicato due bellissimi articoli da antologia: mi riferisco a Pier Paolo Pasolini, il quale, nell’intervento preparato per un Congresso radicale e letto postumo dopo il suo brutale assassinio a Ostia, rivolgendosi a Marco e a Gianfranco Spadaccia (che ha onorato le Aule del Senato e che vedo oggi in tribuna e saluto), li implorava di restare irriconoscibili, per evitare che i diritti civili diventassero l’ideologia ufficiale dell’edonismo di massa e, per quella via, si facessero conformismo.
Pannella quel rischio non l’ha corso, ma non ha potuto evitare – e probabilmente non l’ha mai neanche voluto – che il Partito Radicale di massa, come aveva capito Augusto Del Noce, nascesse altrove.
In questa fase dell’attività di Marco non mancano le intuizioni folgoranti, come la comprensione che la globalizzazione avrebbe spostato le frontiere della lotta politica e che l’Europa, al di fuori dell’orizzonte fissato da De Gasperi e Spinelli, avrebbe rischiato l’implosione. Tuttavia, se si guarda alla vicenda del Partito Radicale transnazionale e al tentativo di riformare il diritto internazionale, ci si rende conto di come un uomo politico che fin lì si era rifiutato di concepire la politica come gestione dell’esistente per provare a determinare il possibile attraverso la politica, fosse finito un po’ fuorigioco, immaginando la politica come creazione dell’impossibile.
Per questo il suo percorso negli ultimi anni si avvicina a una dimensione più laicamente religiosa che immediatamente politica: il rapporto con il Dalai Lama e la stessa lettera scritta a Papa Francesco prima di morire ne sono testimonianza.
Tuttavia, oltre il percorso esemplare, resta qualcosa di urgente su cui riflettere al di là dei tributi di maniera. Si tratta di qualcosa che unifica la prima e la seconda fase del Pannella politico: sono l’acribia e il rigore, da destra storica appunto, con cui ha sempre insistito per il rispetto delle regole. Da qui l’attenzione alla qualità della legislazione come presupposto dello Stato di diritto e nutrimento del garantismo; da qui, come già detto, l’avversione nei confronti della criminalizzazione di qualsiasi opinione e nei confronti di qualsiasi reato di opinione; da qui, infine, la comprensione che nelle moderne società politiche la pienezza del diritto all’informazione, l’accesso ai mezzi di comunicazione e la possibilità per tutti di esporre adeguatamente le proprie idee, sono essenziali affinché una democrazia possa dirsi effettivamente liberale senza correre il rischio di diventare mera sovrastruttura.
Queste intuizioni, esposte in maniera a volte prolissa, insistita, provocatoria, ricorrendo a un lessico originale e disordinato, attingendo parole nuove da quel canestro di cui ha detto De Gregori, restano materia viva sulla quale, oltre il tempo delle commemorazioni e oltre le appartenenze ideali che in quest’Assemblea ci dividono, bisognerebbe riflettere per onorare la sua memoria, la memoria di Marco Pannella.