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La formazione della classe dirigente e l’alta formazione politico-istituzionale è uno dei cardini sui cui la Fondazione Magna Carta è nata nel lontano nel lontano 2003. Oggi la nostra Scuola di Alta Formazione Politica è arrivata alla 14ma edizione e da allora siamo orgogliosi di aver contribuito ad accompagnare molti giovani studenti e professionisti ad orientarsi nel difficile passaggio tra Università e carriera professionale, soprattutto quando questa si è svolta nell’ambito politico istituzionale.

Gli Alumni della nostra Scuola fanno oggi parte a tutti gli effetti della classe dirigente del Paese: alcuni operano nell’ambito delle Istituzioni, altri hanno scelto la carriera accademica, altri quella forense, altri infine hanno optato per il percorso imprenditoriale, ma tutti hanno mantenuto vivo il loro interesse e contributo alla politica, intesa come “cosa pubblica” e come strumento di esercizio della democrazia. Quella democrazia cui tanto più le giovani generazioni devono prendere parte, contribuendo alla definizione del futuro del nostro Paese.

Accogliamo con piacere il riaccendersi di un dibattito di alto livello sulla formazione delle classi dirigenti nel nostro Paese, che riproponiamo confidando nel fatto che veda nuovi e numerosi sviluppi.

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Di seguito l’editoriale a firma Ferruccio De Bortoli, pubblicato sul Corriere della Sera in data 16 maggio 2020

La classe dirigente di cui il Paese ha bisogno

Ci si salva tutti insieme. Giusto. Lo diciamo soprattutto all’Europa. Ma non abbastanza a noi stessi. L’intervento dello Stato e l’erogazione di sussidi sono necessari ma non possono che avere una durata limitata. Si tornerà a crescere, sostenendo il peso del debito pubblico, solo se si rilanceranno investimenti, competenze, merito, ricerca, concorrenza. In sintesi estrema: se si avrà cura del capitale umano. Nel Decreto rilancio, tanto per fare un esempio, alla scuola vengono destinati 1,5 miliardi. La metà di quello che si è deciso (ancora) di perdere con Alitalia. Da domani si riapre tutto, si dice. No, la scuola resta chiusa. L’idea perversa di un’assistenza universale giustificata dal bisogno (che sottende un sospetto radicato e diffuso verso l’impresa) è un colossale inganno che pagheranno i nostri figli e nipoti. Come segnala Andrea Gavosto della Fondazione Agnelli, non dobbiamo ripetere quello che accadde dopo la crisi finanziaria del 2008-2009 dalla quale, a differenza di altri Paesi, non ci eravamo mai ripresi prima della pandemia. Che cosa successe allora? «Un abbandono degli studi universitari – spiega Gavosto – con conseguenze drammatiche per le prospettive lavorative di molti giovani. I diplomati e i laureati entrati nel mercato del lavoro, a partire dal 2009, hanno ottenuto impieghi meno elevati e peggio retribuiti rispetto alle generazioni precedenti».

Il ministro dell’Università e della Ricerca, Gaetano Manfredi, in un’intervista a Repubblica, ha assicurato che farà di tutto per evitare che si ripeta il crollo del 20 per cento nelle immatricolazioni del periodo 2008-2013. Ma un intervento sul diritto allo studio è solo un pannicello. L’esplodere di una povertà educativa come conseguenza di una profonda recessione aumenta ancora di più le disuguaglianze. Allarga il solco già profondo che separa chi è all’interno di un circuito economico seppur indebolito e chi ne è stato espulso. Questa fascia sociale in difficoltà sarà costretta a privilegiare il sostentamento immediato e a penalizzare l’investimento in istruzione e formazione dei propri figli. E così, con un capitale umano ulteriormente indebolito, sarà ancora più arduo per l’intero Paese ritrovare la via dello sviluppo senza la quale l’enorme debito accumulato non sarà sostenibile. Ma soprattutto rischieremo di penalizzare, ancora una volta, una generazione di giovani che non ha peso politico, non protesta, pagherà le scelte di necessità delle famiglie meno abbienti e gli errori di padri e nonni. Non è questa la sede per discutere dei ritardi storici nel sistema formativo del Paese. Basti solo dire che destiniamo all’università appena l’1 per cento del Prodotto interno lordo (Pil). Pochi laureati, alta dispersione scolastica, divari elevati fra Nord e Sud, scarso peso dell’istruzione tecnica e scientifica.

E allora che cosa potrebbe fare? In uno scenario ideale mi piacerebbe vedere una decina di grandi imprenditori (e sono sicuro, conoscendone molti, delle loro sensibilità personali) condividere un progetto a favore della crescita del capitale umano del proprio Paese. Ed essere promotori di una raccolta di capitali per finanziare un grande progetto, mobilitando family office per i quali l’Italia è un granello dei loro investimenti. Disposti anche ad autotassarsi se necessario. E offrire al Paese i mezzi necessari per una decisa lotta alla povertà educativa, il sostegno alla digitalizzazione scolastica, la formazione in generale del capitale umano in aiuto all’istruzione pubblica – la cui centralità nessuno contesta – la crescita di una futura classe dirigente, anche pubblica, di cui oggi scontiamo debolezze e incompetenze. In collaborazione con le non poche istituzioni anche del terzo settore (ad esempio la Fondazione per il Sud sul tema della povertà educativa) che già si prodigano in questa direzione. «Un mecenatismo di massa da parte di una borghesia responsabile e illuminata – sostiene Massimiliano Valerii del Censis – che oltre a farsi perdonare qualche distrazione e disimpegno dimostri che l’Italia per il proprio gruppo o per i propri investimenti non è solo un mercato, un ramo d’attività, ma il proprio Paese». Ed essere, aggiungiamo noi, più credibile nel contrastare una deriva neostatalista e contraria all’impresa che fa leva sulle disuguaglianze crescenti. Contrastando poi la sensazione popolare che chi vive in una dimensione internazionale, ha spesso sede legale e fiscale all’estero (e non esita a chiedere prestiti con garanzia dello Stato), oltre a mandare i figli a studiare fuori, non abbia a cuore i destini dell’istruzione pubblica. Al pari di quello che è accaduto con la sanità pubblica. Si consolida così – come nota Remo Lucchi di Eumetra – la sensazione di una estraneità di fondo di chi è internazionalizzato e guarda più al mondo. Italiani solo quando fa comodo.

La storia del nostro Paese insegna che i temi del capitale umano e della formazione della classe dirigente – in definitiva della qualità di chi ci governa – sono sempre stati al centro dei pensieri di personaggi illuminati. Franco Amatori ricorda, in un suo saggio sull’Iri (esempio oggi di gran moda) che già nel 1936 Alberto Beneduce voleva destinare il 10 per cento dell’attivo alla formazione della dirigenza sia privata sia pubblica. Non solo dell’Iri. E nel 1972 uno degli ultimi atti di Raffaele Mattioli fu la costituzione (insieme a Valiani, Isella, Rumi, Decleva, Cingano e altri) di un’Associazione per lo studio della formazione della classe dirigente nell’Italia unita. Sandro Gerbi nel suo libro Raffaele Mattioli e il filosofo domato (Hoepli) annota che, a un certo punto, De Gasperi propose al grande banchiere umanista della Commerciale di entrare al governo. Mattioli scartò il Tesoro. Disse che avrebbe accettato solo la Pubblica Istruzione. Il capitale umano contava più del capitale finanziario. «Sì, ma con budget quadruplicato». Non se ne fece nulla.