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Per affrontare con chiarezza e serietà il tema della cittadinanza è necessario in primo luogo rispondere con fermezza a due quesiti:

  1. cosa debba intendersi per cittadinanza, e cioè, se con essa si intenda esclusivamente un atto amministrativo, il rilascio di un documento sulla base del quale si acquisiscono alcuni diritti o se, al contrario, il concetto di cittadinanza implica considerazioni molto più profonde;
  2. se, in considerazione del fenomeno migratorio in Italia, il rilascio della cittadinanza agli stranieri debba intendersi una tappa nel difficile percorso di integrazione o, al contrario, tale atto debba segnare la meta finale di tale percorso.

La cittadinanza, non è il semplice rilascio di un passaporto, ma, al contrario, è il riconoscimento di far parte di un popolo, di condividerne i valori sociali e politici, di conoscerne la storia ed i percorsi, di accettare le regole che stanno alla base del patto sociale che aggrega la Nazione. Se questo è il senso da dare al concetto di cittadinanza, il riconoscimento formale non può che essere il punto di arrivo di un percorso di integrazione compiutamente realizzato.

Nel 1992, proprio l’emergere del fenomeno migratorio nel nostro Paese determinò la revisione della legge sulla cittadinanza ed il suo inasprimento. A distanza di 15 anni da quella legge e dinanzi all’emergenza del fenomeno migratorio, il Governo italiano propone di intervenire nuovamente su tale disciplina, ma in senso inverso. Ciò non sembra tenere in alcun conto l’esperienza storico-politica di altri Paesi europei, che dopo aver imboccato la strada della cittadinanza come strumento funzionale all’integrazione, oggi, sono repentinamente obbligati a tornare indietro rispetto alle politiche intraprese dinanzi alle problematiche di disgregazione sociale verificatisi in tali nazioni, come la Germania e l’Olanda.
Di quelle esperienze occorre far tesoro ed evitare che, in ritardo, anche l’Italia si avvii su un percorso sbagliato nei fatti e ciecamente scelga la strada della demagogia e della superficiale astrattezza.

La legge 91 del 1992 è una legge valida nel suo impianto, che va modificata solo nel senso di renderla più incisiva, tentando di sottrarre tale riconoscimento ad un procedimento squisitamente burocratico e formale, ed al contrario, individuando criteri più selettivi.

In primo luogo, è responsabilità del legislatore preservare l’integrità sociale e politica della Nazione e prevenire pericolosi fenomeni di disgregazione. Inoltre, prevenire il pericolo che l’allargamento indiscriminato finisca per massificare i cittadini stranieri, e non premiare chi realmente sceglie la nostra Nazione come nuova Patria, una scelta consapevole fatta da amore oltreché da bisogno, fatta di accettazione piena più che di necessità formale.

La presente proposta di legge rimane sulla strada tracciata dal legislatore nel 1992 adeguando la normativa alle contingenze attuali ed all’esperienza effettuata dall’applicazione della legge vigente.

L’art. 1 modificando l’art. 4 della legge 5 febbraio 1992 n. 91 dava rilievo ai fini del riconoscimento della cittadinanza all’aver frequentato scuole riconosciute dallo Stato italiano e ad aver adempiuto all’obbligo scolastico.

L’art. 2, al fine di evitare i matrimoni di comodo, riconosce al coniuge straniero o apolide di un cittadino italiano la cittadinanza solo a condizione che questi risieda in Italia da almeno 3 anni.

L’art. 3 richiede per l’ottenimento della cittadinanza il decorso di dieci anni di residenza legale e stabile nel nostro Paese.

L’art. 4 modifica i requisiti per ottenere la cittadinanza subordinandoli alla buona conoscenza della lingua, della storia e della Costituzione italiane; alla rinuncia alla precedente cittadinanza ed alla frequentazione di un corso di formazione e di educazione civica.

L’art. 5 fa riferimento a 6 mesi per il giuramento.

L’art. 6 modifica il DPR 12 ottobre 1993 n. 572, prevedendo che il giuramento sia compiuto dinanzi al Prefetto della provincia di residenza.