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Osservandolo in una prospettiva liberale, il dibattito pubblico sulla regolamentazione delle coppie di fatto appare distorto dal ricorso eccessivo e discutibile alla parola “diritto”. A partire da questo concetto, quanti sostengono l’opportunità di disciplinare giuridicamente le convivenze hanno sviluppato una linea di ragionamento che credo possa essere non infedelmente rappresentata come segue: quando scelgono di entrare in una partnership, gli individui acquisiscono per ciò stesso – naturalmente, starei per dire – dei diritti supplementari; questi diritti oggi lo Stato li attribuisce soltanto a chi scelga di sposarsi; giustizia vorrebbe che li riconoscesse anche a coloro i quali un matrimonio regolare non hanno voluto o potuto stipularlo. Quanti si oppongono alla regolamentazione giuridica delle coppie di fatto, di conseguenza, possono farlo soltanto per conservatorismo, omofobia, ossequio clericale: ovvero a partire da un pregiudizio negativo nei confronti del concubinato, tanto più se omosessuale; ovvero ancora in violazione dei principi dello Stato laico, e adeguandosi invece a una concezione etica del potere pubblico.

Da un punto di vista individualistico e liberale però – o se si preferisce, dal punto di vista che a me pare l’unico correttamente individualistico e liberale – questo ragionamento è sbagliato. Il diritto che gli individui indiscutibilmente hanno è quello di vivere con qualunque altro individuo adulto e consenziente essi vogliano, sia di un altro sesso o sia del medesimo, senza doverne rendere conto alla società né allo Stato. Detto altrimenti, gli individui hanno precisamente il sacrosanto diritto di creare una coppia di fatto. Ma che quella coppia di fatto sia poi riconosciuta pubblicamente, e le siano attribuiti privilegi che vanno a discapito di terzi – come nel caso del subentro nel contratto d’affitto –, o della collettività – ad esempio con la reversibilità della pensione –, è questione che con gli intangibili diritti dell’individuo ha ben poco a che spartire. Uno Stato rigorosamente individualista, libertario, consente qualunque comportamento non leda i diritti altrui, ma al contempo di questi comportamenti leciti non ne incentiva neppure nessuno. Ai suoi occhi una zitella solinga o Harun al Rashid col suo harem di mogli si equivalgono a perfezione.

La questione andrebbe dunque del tutto rovesciata. Se in termini liberali il caso deviante non è la mancata attribuzione di privilegi alle coppie di fatto, ma al contrario l’attribuzione di privilegi alle coppie sposate, la vera domanda che dovremmo porci è se sia giusto, e per quali ragioni, che lo Stato regolamenti e incentivi col matrimonio la convivenza stabile fra persone di sesso diverso. Dirò subito che il valore sociale della coppia in se stessa non mi pare ragione sufficiente perché a questo interrogativo si dia risposta positiva. Lo potrebbe essere, ragione sufficiente, soltanto a condizione che lo Stato prendesse una posizione forte in favore dell’individuo partner e contro invece l’individuo single, ovvero dichiarasse che avere relazioni sentimentali è una condizione intrinsecamente più alta e degna (più normale?) rispetto a non averne, e che quindi il single deve cedere alle coppie nelle graduatorie per gli alloggi popolari, lasciare la vedova o il vedovo nell’appartamento che diede in affitto alla buonanima, e pagarle o pagargli la pensione di reversibilità. Una gerarchizzazione dei modelli di vita, questa, che il potere pubblico può fare soltanto a partire da una nozione assai robusta di ciò che per un individuo adulto rappresenta la buona vita: una nozione appunto da Stato etico, che in una logica individualistica e liberale è ovviamente inaccettabile.

Detto questo, ritengo tuttavia che la domanda posta sopra – se sia opportuno attribuire privilegi alle coppie regolarmente sposate – debba trovare una risposta positiva. Per la semplice ragione che, fino ad ora, la convivenza stabile fra persone di sesso diverso s’è storicamente dimostrata lo strumento più adatto per generare e formare i nuovi individui. Gli individui in formazione – dal concepimento al compimento del diciottesimo anno d’età – rappresentano il problema più arduo e al contempo la maggiore sfida per una società liberale: un problema arduo perché non essendo ancora individui non possono essere gestiti secondo i principi individualistici; una sfida immensa perché dalla loro formazione dipende il futuro della libertà. Se vi è un’istituzione sociale che nella storia s’è dimostrata capace di risolvere il problema e rispondere alla sfida – o per lo meno agevolare la soluzione e la risposta –, allora può essere il caso di incentivarla anche violando, quando sia davvero inevitabile, i dettami d’un individualismo rigoroso.

I privilegi che la legge attribuisce al matrimonio, e che possono essere difesi in un’ottica liberale perché atti a facilitare la generazione e formazione di nuovi individui, vanno estesi anche alle coppie di fatto eterosessuali? E a quelle omosessuali? A mio avviso entrambe le risposte debbono essere negative. Rispetto alle coppie omosessuali, perché manca l’elemento cruciale: la generazione e formazione di nuovi individui, appunto. Altro sarebbe se le coppie omosessuali potessero accedere alle procedure di procreazione artificiale o all’adozione. Il che però sarebbe a mio avviso gravemente inopportuno, considerato come la struttura che storicamente s’è rivelata in grado di formare gli individui sia la famiglia eterosessuale, e come un elementare principio di prudenza suggerisca di seguire in questo campo i dettami della tradizione, evitando di imporre esperimenti a pre-individui che – per definizione – sono incapaci di scegliere. La decisione di non estendere alle coppie omosessuali privilegi simili a quelli connessi al matrimonio – lo ripeto per maggiore chiarezza – non implica in alcun modo che su quelle coppie lo Stato stia dando un giudizio negativo. Implica che non ne dia un giudizio positivo, o meglio che non le valuti tanto positivamente da attribuire agli individui che vi sono coinvolti privilegi dai quali i single sono esclusi, e che andrebbero perciò a detrimento dei loro diritti. Ossia implica che si mantenga – come uno Stato liberale dovrebbe fare – neutrale.

Nel caso delle coppie di fatto eterosessuali, invece, la possibilità di procreare non manca. Se i privilegi connessi col matrimonio debbano o non debbano essere estesi anche ad esse, perciò, è soprattutto questione di opportunità storica. E a me pare storicamente inopportuno. Perché indebolirebbe ulteriormente l’istituzione che finora s’è dimostrata la più adatta nella formazione dei nuovi individui, ossia la famiglia. Si sostiene che i Dico rappresenterebbero una possibilità parallela e alternativa al matrimonio, non concorrente con esso. È del tutto evidente, per lo meno ai miei occhi, che non sarà così. A chi si sposa lo Stato attribuisce dei privilegi, chiedendo in cambio che costruisca un vincolo giuridicamente e simbolicamente forte – neppure infrangibile, si badi bene –; alle coppie di fatto attribuirebbe privilegi simili a fronte di una richiesta assai meno impegnativa. Francamente, non riesco proprio a non considerare la presenza della seconda opzione disincentivante rispetto alla prima.

Ancora una volta: astenendosi dal riconoscere le coppie di fatto lo Stato non ne starebbe in alcun modo dando un giudizio negativo, e non si ergerebbe dunque a Stato etico. Starebbe soltanto valutando i privilegi connessi col matrimonio come una grave violazione dei diritti dei terzi, e affermando che quella violazione si giustifica soltanto in presenza di un impegno robusto a creare, per la formazione dei nuovi individui, una cornice ragionevolmente, umanamente stabile.

I Dico, in conclusione, non mi paiono in alcun modo il frutto di un pensiero liberale. Sono il frutto d’un pensiero radicale, il cui obiettivo ultimo non è quello di fondare una società neutrale nei confronti dei comportamenti individuali e quindi della tradizione, ma una società nella quale i comportamenti individuali conformi alla tradizione siano attivamente scoraggiati, e quelli devianti rispetto alla tradizione siano invece attivamente promossi. È una linea politica, ci mancherebbe. Coerente. Robusta. Ma non è una linea politica liberale. Ed è una linea politica pericolosa, perché prosegue l’opera – per altro già molto avanzata – di decostruzione di quel quadro sociale che ha finora garantito i diritti degli individui, e soprattutto la formazione di nuovi individui se non proprio eccelsi, quanto meno non pessimi. In altri tempi, grandi maestri del pensiero liberale si sono dimostrati acutamente consapevoli di quanto importante fosse quel quadro sociale, e di quanto pericoloso alla libertà individuale fosse l’attaccarlo in nome della libertà individuale.

Se riteniamo poi che la massima custode della tradizione sociale sia in Italia la Chiesa cattolica, allora la legge antitradizionalista dei Dico deve apparirci non come una legge laica, ma come una legge anticlericale. E ci mancherebbe che la Chiesa non vi si opponesse con tutta la sua forza. Mi sorprende piuttosto il comportamento dei cattolici “adulti”: capisco infatti – anzi lo condivido – come essere un cattolico “adulto” implichi la convinzione che lo Stato debba astenersi dall’imporre i valori della Chiesa anche ai non cattolici. Ma non riesco invece a capire come possa implicare che si permetta d’imporre ai cattolici valori del tutto opposti a quelli della Chiesa.