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Pubblichiamo il testo della proposta della Fondazione Magna Carta ai Presidenti delle Commissioni I e V della Camera dei Deputati, relativa alle proposte di legge costituzionale atte a introdurre il principio del pareggio di bilancio:

Alcune considerazioni sulle proposte dirette ad introdurre nella nostra Costituzione l’obbligo del pareggio del bilancio

1.     Il pareggio di bilancio fra emergenza finanziaria e fondamenta della democrazia

Il pareggio del bilancio pubblico è entrato negli ultimi mesi prepotentemente nel dibattito politico, non solo italiano. Il tema è evidentemente connesso alla grave crisi finanziaria che ha investito i Paesi occidentali a partire dal 2008. Crisi che, nata negli Stati Uniti sul versante della finanza privata, si è successivamente violentemente trasferita sulla finanza pubblica di alcuni Paesi europei.

In questo quadro si inseriscono le iniziative assunte in sede comunitaria con l’obiettivo di scongiurare il rischio che la tensione speculativa di mercati sui titoli del debito pubblico di alcuni Paesi aderenti all’Euro possa avere gravi effetti destabilizzanti sull’intera economia europea. In particolare, l’Europa ha a più riprese sollecitato i Paesi membri ad adottare regole nazionali di bilancio in grado di garantire la sostenibilità delle finanze pubbliche. Ed in questa prospettiva alcuni importanti Paesi europei hanno già adottato (Germania, Spagna) o stanno per adottare (Francia) importanti riforme che, fissando il principio del pareggio o del quasi-pareggio, introducono in Costituzione un forte vincolo alla discrezionalità di bilancio.

Ma, sebbene sia evidente il nesso tra turbolenze dei mercati finanziari, reazione degli organi dell’Unione Europea e proposte di costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, non è per questo corretto collocare tale discussione esclusivamente in questo orizzonte. E ciò per due motivi.

In primo luogo, perché le indicazioni europee sulla sostenibilità delle finanze pubbliche, per quanto rigorose, lasciano margini di discrezionalità agli Stati membri. Lo stesso Patto Euro Plus, adottato dal Consiglio Europeo del 24 e 25 marzo 2011, non prevede che gli Stati membri inseriscano nelle proprie costituzioni il principio del pareggio del bilancio pubblico. Il Patto si limita a chiedere che vengano recepite negli ordinamenti nazionali le regole di bilancio dell’UE fissate nel Patto di stabilità e crescita. Gli Stati mantengono la facoltà di scegliere lo specifico strumento giuridico nazionale (a condizione che sia vincolante, sostenibile e sufficientemente forte) e l’esatta forma della regola (a condizione che garantisca la disciplina di bilancio a livello sia nazionale che subnazionale).

Su un piano più generale occorre inoltre considerare che la discussione in ordine alla costituzionalizzazione del pareggio del bilancio non può essere ridotta a questione di natura meramente contabile – finanziaria. Il tema coinvolge la concezione stessa della democrazia, perché investe uno dei pilastri dell’intero edificio istituzionale. Attraverso la Costituzione fiscale, infatti, vengono fissate le regole fondamentali entro le quali si svilupperanno le successive attività economiche e finanziarie degli apparati pubblici. In altre parole, con la Costituzione fiscale si definiscono compiutamente le relazioni fra libertà ed autorità, fra diritti individuali, diritti sociali e doveri fiscali che rappresentano il cuore dei sistemi politici.

E la Costituzione fiscale, nel disciplinare tale relazione, opera anche un’actio finium regundorum tra gli attori istituzionali, ed in particolare fra il Parlamento ed il Governo. La stessa origine del parlamentarismo, e quindi delle moderne democrazie costituzionali, è intimamente legata all’emersione di forme di controllo sull’esercizio da parte del Sovrano dei poteri di spesa e delle connesse potestà impositive. Sul punto basti pensare alle riflessioni di Walter Bagehot a proposito della “funzione finanziaria” del Parlamento o al famoso slogan dei coloni nord-americani “No taxation, without representation”.

Per queste ragioni è opportuno che la discussione intorno alla modifica dell’articolo 81 della Costituzione, pur partendo dalla necessaria consapevolezza dell’attuale fase di difficoltà delle economie internazionali, non si esaurisca nella mera definizione delle necessarie misure di aggiustamento del quadro di contabilità pubblica necessarie per rassicurare i mercati internazionali, ma comprenda anche l’esame dei nodi fondamentali che sono coinvolti nella questione.

2.      La teoria economica sul pareggio di bilancio e la politica del deficit spending

L’inizio del dibattito fra gli economisti sul pareggio del bilancio pubblico risale agli albori della moderna economia politica. La scuola classica dell’economia, sviluppatasi nel Regno Unito attorno al XVIII secolo, vide il proprio capostipite nel filosofo scozzese Adam Smith, il quale, propugnò l’idea di Stato “minimale”, il cui compito dovesse essere quello dello svolgimento delle attività fondamentali legate alla difesa dei confini e alla giustizia. L’astensione dello Stato dall’attività economica doveva riflettersi anche nella politica di bilancio, la quale doveva esclusivamente mirare a reperire le entrate sufficienti per far fronte alle spese, senza possibilità di eccederle. E’ questa una visione apprezzabile la quale, oltre a riconoscere il valore fondamentale della libertà economica di tutti gli individui, persegue il principio economico del “buon padre di famiglia”, secondo il quale le spese devono essere sostenute solo in virtù delle entrate che si prevede di introitare.

Coevo di Smith, l’economista inglese David Ricardo propose il principio passato alla storia come “equivalenza ricardiana” (ripresa poi negli anni ’70 del ‘900 dall’economista americano Robert Barro), ovvero il principio d’indifferenza tra il finanziamento della spesa corrente con la tassazione oppure con il ricorso all’indebitamento. L’indifferenza venne motivata dal fatto che individui con aspettative perfettamente razionali sono in grado di prevedere che l’incremento del debito presente corrisponderà al pagamento di imposte future e pertanto, in vista del ripagamento dello stesso, adeguano i loro comportamenti riducendo il livello attuale dei consumi. In termini di policy, l’equivalenza ricardiana nega l’efficacia delle politiche d’indebitamento, in quanto l’aumento del risparmio privato annulla completamente l’effetto stimolante dell’indebitamento pubblico. Ma, in via generale, occorre osservare come, qualora gli agenti non fossero così perfettamente razionali da risparmiare oggi per far fronte ad una maggiore tassazione futura, subentrerebbero problemi di equità intergenerazionale, poiché le generazioni presenti trarrebbero benefici dall’indebitamento (sotto forma di una maggiore spesa) a discapito delle generazioni successive, che dovrebbero sostenere i relativi oneri.

Alla luce di quanto stiamo vivendo oggi con la crisi del debito internazionale, possiamo ritenere che l’ipotesi di aspettative perfettamente razionali sia in netto contrasto con la realtà, e che gli individui non si siano resi conto che l’enorme livello di spesa pubblica sostenuta nei decenni passati si sarebbe dovuta risolvere in politiche fiscali restrittive come quelle che i governi sono in questi giorni costretti ad intraprendere. Quello che stiamo vivendo è una situazione dove la generazione più anziana della società ha goduto di un “pasto gratuito”, il cui prezzo viene pagato dalle nuove generazioni. Ma proprio per queste ragioni, il principio di tutela dell’equità intergenerazionale è assolutamente condivisibile, poiché non appare giustificabile che le fortune di un individuo debbano dipendere dalla fortuna o meno di nascere in una generazione che gode dei benefici di una politica fiscale espansiva.

Le drammatiche conseguenze che la Grande Depressione del 1929 generò su occupazione e produzione negli Stati Uniti e, di riflesso, nel resto del mondo, convinsero molti economisti a dubitare della validità delle teorie classiche, che vedevano nel liberismo e nel capitalismo dogmi fino ad allora ritenuti inconfutabili, in grado cioè di spiegare perfettamente il funzionamento dei meccanismi economici.

Diversi economisti attribuirono l’elevata disoccupazione ed il virulento crollo della produzione e della domanda alle teorie dei classici e criticarono ferocemente la legge di Say, secondo la quale l’offerta genera la propria domanda. Ecco allora perché nel 1936 l’uscita del libro The General Theory of Employment, Interest and Money di Keynes, oltre a fornire nuove spiegazioni teoriche alla Grande Depressione, influenzò le soluzioni adottate poi dal presidente Roosvelt durante il New Deal. Uno dei punti cardini della teoria keynesiana risiedeva nelle contro-ciclicità delle politiche economiche, alla luce della quale era da ritenersi opportuno che il governo aumenti la spesa e riduca le imposte nei periodi recessivi (bad times), generando quindi un deficit di bilancio, da ripianare mediante l’adozione di politiche restrittive quando l’economia ritorna in fasi espansive (good times). Si riteneva che l’incremento della spesa pubblica sortisse quindi effetti benefici sulla crescita, grazie al meccanismo del moltiplicatore keynesiano, mediante il quale l’incremento dell’output risulta essere più che proporzionale rispetto all’incremento della spesa.

La credenza che l’economia potesse vivere prolungati periodi nel cosiddetto “equilibrio di sottoccupazione”, anche a causa di elementi di rigidità strutturali come la presenza di salari vischiosi, portò i keynesiani ad auspicare un costante e sempre presente intervento del Governo nell’economia, con l’evidente scopo di raggiungere la stabilizzazione della stessa, ovvero di minimizzare lo scarto della produzione effettiva rispetto a quella potenziale. La teoria keynesiana, sposata per la maggior parte dai governi progressisti, suggerì quindi che il bilancio potesse essere momentaneamente in disequilibrio ciclico.

Sempre in questo periodo storico, si collocano gli studi di Domar che riguardano in particolare la dinamica del rapporto tra spesa per interessi e PIL. Le conclusioni alle quali l’economista americano giunse affermano che il rapporto debito/PIL è sostenibile solo se il tasso di crescita dell’economia è superiore al tasso d’interesse. In mancanza di questa condizione il debito pubblico tende ad esplodere. E così è successo nella realtà.

Nel corso del secondo dopoguerra, la scuola di Chicago fu la capofila della teoria neoclassica, la cui visione dell’economia fu improntata alla negazione delle teorie keynesiane del deficit spending, riproponendo le idee classiche relative all’equilibrio del bilancio. L’abnorme aumento della spesa pubblica in rapporto al PIL che i governi avevano creato, con il conseguente aumento del debito pubblico, hanno fortunatamente condotto molti economisti a rivedere in senso critico la teoria keynesiana, segnalandone le debolezze e le criticità.

I seguaci del conservatorismo fiscale proposero quindi l’adozione delle cosiddette sound policies, al fine di evitare un eccessivo indebitamento pubblico. Lo sviluppo della corrente delle aspettative razionali, capeggiate dal premio Nobel Robert Lucas, rafforzò l’idea che gli individui economici hanno la capacità di prevedere l’andamento futuro delle variabili economiche. Su questa lunghezza d’onda, l’economista Robert Barro sviluppò l’idea che i titoli di Stato non rappresentano ricchezza netta, poiché essi modificano il flusso dei consumi attuali in attesa di futuri aumenti delle imposte. Fu questo un apprezzabile contributo che si levava contro le politiche di indebitamento fino ad allora perseguite.

Tuttavia, il semplice modello di Barro ha delle grosse limitazioni. Prima di tutto, l’equivalenza è basata sull’ipotesi che gli individui siano perfettamente razionali, e quindi in grado di comprendere immediatamente come un incremento presente di spesa si traduca in un aumento delle imposte future. Cosa succede, invece, se gli individui soffrissero, per dirla alla Puviani, di illusione monetaria e fossero convinti che l’incremento di spesa attuale è in grado di migliorare il loro benessere intertemporale? Ad esempio, potrebbero rivedere al rialzo le loro aspettative ed aumentare il loro livello di consumo. L’illusione ex-ante potrebbe tradursi in un realismo ex-post e, nel momento in cui gli individui si accorgono che la loro ricchezza non è in realtà aumentata, dovrebbero contrarre notevolmente i loro consumi (consumption crunch) nel periodo in cui pagano le imposte. La drastica riduzione dei consumi che stiamo vivendo in Italia potrebbe essere figlia proprio di un atteggiamento di questo tipo. Secondariamente, Barro basa il suo modello sull’ipotesi che le generazioni più anziane lascino eredità a quelle più giovani, in maniera tale che esse possano ripagare il debito.

Ma cosa succede se questa generosità intergenerazionale non esiste? Se così fosse, solo la generazione più anziana godrebbe dei benefici del debito, che verrebbe pagato interamente dalla generazione più giovane. Da quello che vediamo accadere in questi giorni, ci sembra che l’ipotesi di egoismo nelle scelte abbia surclassato di gran lunga quella di generosità verso le generazioni future. Infine, il modello di Barro prevede che il ripagamento del debito avvenga con l’utilizzo di imposte non distorsive (lump-sum). Nei paesi occidentali, tali imposte non sono utilizzabili, poiché regressive. Se quindi utilizziamo le più realistiche imposte progressive, è dimostrabile che la perdita di efficienza in termini produttivi aumenterebbe all’aumentare delle imposte. Il problema potrebbe essere attenuato (anche se non risolto) dalla strategia di tax smoothing, consistente nello “spalmare” la tassazione in maniera uniforme nei vari periodi, anziché concentrarla in un unico periodo. Purtroppo, anche tale strategia è stata raramente seguita dai governi, che hanno preferito rimandare il momento della tassazione al futuro, sperando sempre che tocchi al concorrente effettuare il percorso di rientro dal debito.

Alla scuola di Chicago si affiancò presto anche la scuola austriaca, facente capo al Nobel Von Hayek, anch’essa orientata alla visione liberista dell’economia, la quale affermò, tra le altre cose, che i deficit pubblici generano inflazione. Quarant’anni dopo la General Theory, infatti, le politiche keynesiane si rivelarono inflazionistiche, fino a rappresentare la causa, secondo quanto sostenuto da numerosi economisti, di un fenomeno fino ad allora pressoché sconosciuto, quello della stagflazione. Nella visione di Von Hayek, la crisi del ’29 era stata generata da un eccessivo interventismo statale, attraverso l’attuazione di easy-money policies, criticando in questo modo la politica monetaria sostenuta. Ma, allo stesso tempo, egli fu estremamente critico con Keynes, ritenuto da lui un economista impreparato con una visione dell’economia “falsa e pericolosa”, che aveva condotto il mondo verso “il più lungo periodo inflazionistico, e che ora gli fa pagare di nuovo il prezzo di una recessione diffusa e duratura”.

3.      Il pareggio di bilancio fra principi etici e vincoli politici

Prima ancora che su ragioni di carattere economico, il principio dell’equilibrio fra le entrate e le spese del bilancio pubblico è un principio di senso comune. Il senso comune è qui inteso come la traduzione pratica di quell’ordine morale che si è sviluppato nel corso della Storia man mano che l’uomo è riuscito a superare il proprio istinto di animale tribale, sviluppando quel senso di solidarietà verso i propri simili derivante dalla sua appartenenza ad una medesima comunità. La prudenza fiscale degli Stati è stata per secoli una regola che, prima ancora che su ragioni di carattere economico, si fondava sulla natura morale delle comunità umane. L’imperativo di non dissipare il “capitale nazionale”, l’impegno a non pregiudicare il futuro dei discendenti della propria comunità hanno rappresentato per secoli un elemento costitutivo della morale civica. Non è del resto un caso, se per secoli i bilanci dello Stato sono stati in equilibrio, senza che nessuno avvertisse il bisogno di fissare norme imperative che vincolassero la discrezionalità di bilancio. Naturalmente nel corso della Storia si sono verificate numerose fasi nelle quali le finanze pubbliche hanno registrato disavanzi anche ampi. Ma si è trattato di casi collegati ad eventi di carattere straordinario, che avevano reso impossibile il rispetto della regola aurea del pareggio, ovvero derivanti dalla cattiva gestione dei governanti, i quali erano di tale esito ritenuti responsabili. In ogni caso, il disavanzo di bilancio era nel comune sentire considerato un disvalore morale o comunque, anche quando necessitato, un evento negativo.

A partire dalla seconda metà del secolo scorso si è registrato un radicale cambiamento nella considerazione collettiva dei disavanzi di bilancio, rispetto ai quali si è smarrita qualunque valutazione di ordine anche vagamente morale. Certamente in questo profondo mutamento un ruolo non secondario ha avuto la diffusione delle teorie economiche di Keynes. Ma naturalmente una teoria economica, per quanto fortunata, non può da sola spiegare un cambiamento così profondo nella cultura di una collettività. Illuminante al riguardo è la tesi di James M. Buchanan il quale collega tale fenomeno ai profondi mutamenti sociologici che si sono registrati nel XX secolo. In particolare, il passaggio dalle organizzazioni sociali statiche e chiuse del XIX secolo a quelle dinamiche e aperte del XX secolo ha determinato l’indebolimento dei vincoli comunitari che legavano tutti gli appartenenti ad una organizzazione sociale e, conseguentemente, l’erosione dei vincoli morali che fino ad allora governavano le scelte pubbliche. L’affermarsi di quella che Friedrich August von Hayek definisce “big society” ed il diffondersi del riflesso costruttivista che affida alle scelte politiche l’obiettivo di costruire l’ordine sociale ottimale hanno fatto scomparire del tutto la valenza morale dell’indebitamento pubblico.

Non è un caso se oggi, ormai da diversi anni, si discuta approfonditamente circa l’opportunità di introdurre dei vincoli costituzionali al saldo di bilancio. Vincoli giuridici, inimmaginabili nei secoli scorsi, rappresentano oggi un (necessario) surrogato dei vincoli morali venuti meno.

Ma l’obiezione fondamentale che incontra la politica del deficit spending non risiede né nelle (pur numerose e piuttosto fondate) perplessità avanzate dalla teoria economica, né nella valenza etico-morale del principio del pareggio del bilancio. I problemi maggiori emergono infatti quando si provi a collocare le teorie keynesiane all’interno del concreto funzionamento dei sistemi politici democratici contemporanei.

La scienza della political economy, che segue un approccio di tipo positivo, è andata alla ricerca di evidenze sull’intreccio tra emissione di titoli di debito e comportamenti opportunistici tenuto dai politici, creando un filone di studio chiamato political budget cycles. I cicli politici di bilancio rappresentano componenti della spesa governativa che si realizzano durante le tornate elettorali. La locuzione, più precisamente, si riferisce a tutte quelle politiche di incremento della spesa pubblica o del deficit, o di diminuzione delle tasse, attuate dal Governo durante l’anno elettorale, con il chiaro intento di usare tale strategia al fine di ottenere la rielezione.

Alcuni studiosi, tuttavia, avanzarono la tesi secondo la quale le politiche di bilancio accomodanti non sarebbero politicamente remunerative, poiché gli elettori comprendono perfettamente come il vantaggio che essi traggono da tali politiche durante l’anno elettorale si ripercuota in una futura riduzione della spesa pubblica, o in un aumento di tasse, una volta che il ciclo politico è terminato. Tale teoria si basa sull’assunto, assai poco realistico, di elettori perfettamente razionali, informati e con una visione di lungo periodo. Solo in presenza di una perfetta razionalità degli individui, per il politico potrebbe essere quindi controproducente intraprendere politiche opportunistiche, poiché gli elettori punirebbero, anziché premiare, un atteggiamento di manipolazione fiscale.

Ovviamente, questa ipotesi viene a cadere se, più realisticamente, si assume che gli elettori non siano né (perfettamente) razionali, né (compiutamente) previdenti. La stessa esistenza di asimmetrie informative, che impediscono agli elettori di conoscere perfettamente l’operato dei politici, fa nascere nuovi spazi per l’intrapresa di comportamenti poco virtuosi. Da questo punto di vista, lo sviluppo dei cosiddetti “modelli di segnalazione delle competenze” dimostra come sia possibile per un politico crearsi una reputazione positiva collegata all’incremento di spesa. In questo caso, gli elettori non percepiscono l’aumento di spesa come una politica opportunistica, ma come una capacità del politico di mettere più risorse a disposizione della comunità. In questa rappresentazione, il politico può quindi costruirsi abilmente una reputazione di “governatore capace” e ottenere la rielezione, nonostante il livello di spesa scelto sia in realtà dannoso per l’economia. La presenza di asimmetrie informative tra elettori e governanti può spingersi addirittura a far pensare che i primi non siano nemmeno a conoscenza del livello di spesa o di deficit scelto dal Governo. D’altronde, la materia della contabilità pubblica è talmente tecnica che difficilmente si può pensare che un normale cittadino possa avere una perfetta comprensione dell’andamento dei conti pubblici. A conferma di tale ipotesi, alcuni economisti hanno scoperto che un incremento di trasparenza delle politiche di bilancio riduce le possibilità di comportamenti opportunistici.

L’esistenza dei cicli politici di bilancio è stata riscontrata anche dalle verifiche empiriche, secondo le quali il deficit pubblico tende a crescere significativamente nell’anno delle elezioni, sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo (in media, l’avanzo di bilancio tende a contrarsi di quasi un punto percentuale). Altri autori hanno scoperto l’esistenza di cicli politici, dimostrando inoltre che il sistema elettorale (proporzionale o maggioritario) ed il sistema di governo (parlamentare o presidenziale) sono delle determinanti chiave per comprendere la formazione di cicli politici di bilancio. Se la teoria positiva fornisce risultati pessimistici, è utile ricordare come, laddove le regole del gioco del bilancio pubblico consentano di frenare le condotte opportunistiche, il risultato sarà l’ottenimento di bilanci con minori deficit, minori debiti ed una pressione fiscale minore. L’impianto teorico ha trovato abbondante conferma nei dati. E l’evidenza empirica suggerisce di non confidare troppo nella benevolenza dei politici e nella loro capacità di non farsi catturare dalle sirene delle lobby che spingono verso i favori fiscali e di spesa.

Del resto, solo alla luce delle criticità individuate dalla dottrina più recente, è possibile comprendere il grave paradosso che ha caratterizzato l’evoluzione dei sistemi di finanza pubblica negli ultimi decenni. Il passaggio dai principi della finanza neutrale (bilancio ordinariamente in pareggio) a quelli della finanza funzionale (utilizzo del saldo di bilancio in funzione anticiclica) ha finito per tradire del tutto le stesse premesse dalle quali partivano le teorie keynesiane. Keynes non ha mai teorizzato che il bilancio pubblico potesse essere permanentemente in deficit. Keynes ha piuttosto spostato l’orizzonte dell’equilibrio di bilancio dal singolo esercizio al ciclo economico. Per raggiungere l’obiettivo della piena occupazione, che secondo Keynes non è garantito dalla spontanee dinamiche del mercato, occorre stabilizzare l’alternarsi dei cicli economici, compensando le fasi di deficit della domanda privata aggregata con un surplus di domanda pubblica finanziata in deficit e, viceversa, compensando le fasi di eccesso di domanda privata aggregata con avanzi di bilancio.

Ma questo schema si è rivelato in concreto del tutto impraticabile. Non c’è dubbio infatti che se per un decisore politico chiudere un bilancio in disavanzo è decisamente conveniente, del tutto controindicato è chiudere un bilancio in avanzo. Registrare un avanzo di bilancio infatti altro non vuol dire chiedere ai contribuenti più risorse di quante possano essere destinate all’erogazione di servizi ai cittadini. Ma la scelta di realizzare risparmi, necessari per ripianare i disavanzi passati o utili per mettere da parte risorse da utilizzarsi a fronte di difficoltà future, è scelta normale per il buon padre di famiglia (che ha cuore il benessere anche futuro della propria famiglia). E’ strategia che può essere adottata da un monarca illuminato (consapevole che toccherà a lui medesimo ripianare i disavanzi creati). Ma diventa del tutto illusoria se affidata alla lungimiranza di governanti eletti democraticamente, e quindi sottoposti ad una verifica a scadenza ravvicinata del consenso elettorale. In questa prospettiva, il keynesismo implica una visione elitaria e tecnocratica del funzionamento della politica, una visione lontana anni luce dalla realtà delle contemporanee democrazie di massa. Non è del resto un caso se Keynes per origine familiare, per inclinazione culturale e per scelte di vita, sia stato un classico esempio di uomo di austera formazione vittoriana e di decisa inclinazione aristocratica, con un deciso approccio costruttivista con punte di malthusianesimo ed eugenetica.

Lo short termism che caratterizza le moderne democrazie di massa riduce drammaticamente gli spazi per un uso coerente e ragionevole della politica di deficit spending. E del resto lo stesso Keynes aveva ben presente il problema dello short termism. Keynes delle conseguenze di lungo periodo semplicemente si disinteressava, poiché, come disse nel suo più celebre aforisma, “questo lungo termine è una guida fallace per gli affari correnti: nel lungo termine siamo tutti morti”.

L’esperienza italiana, ma non solo italiana, degli ultimi decenni ha registrato quello che potremmo definire il “paradosso del keynesismo”. L’accettazione della prospettiva discrezionale nella politica di bilancio ha finito per annullare gli spazi per qualunque politica di bilancio. Ed in effetti, scorrendo la serie storica del deficit di bilancio negli ultimi decenni è arduo rintracciare un qualunque legame fra andamento del deficit e ciclo economico. Spesso il saldo di bilancio ha svolto non una funzione anti-ciclica ma, calpestando ogni insegnamento keynesiano, il suo esatto opposto, una funzione pro-ciclica. Basti del resto pensare al fatto che i decenni nei quali più profondi sono stati i disavanzi di bilancio e nei quali si è quindi accumulato un debito sempre più ingovernabile sono stati decenni di espansione dell’economica. E, al contrario, oggi l’Italia (e non solo l’Italia) è, paradossalmente, impegnata in rigorose politiche di riduzione del disavanzo (fino all’obiettivo storico del suo azzeramento) proprio in una fase economica recessiva! In questo senso, l’introduzione di un vincolo all’equilibrio di bilancio, semmai accompagnato da una clausola di flessibilità per i bad times, non rappresenta necessariamente l’abbandono completo dell’approccio di John Maynard Keynes, potrebbe piuttosto essere interpretato come l’unico modo per cercare di proteggere Keynes dalla (cattiva) politica keyesiana.

Il sostanziale fallimento delle politiche keynesiane rappresenta un caso emblematico di quel fenomeno di irrazionalità della decisione collettiva, che è particolarmente acuto nelle decisioni di bilancio. Già la Scuola di finanza pubblica italiana dei primi anni del XX secolo aveva infatti segnalato come le decisioni di spesa pubblica sono minate da un grave problema di asimmetria tra la percezione dei benefici e dei costi connessi alle singole decisioni di spesa. Asimmetrie che generano una resistenza da parte di coloro che sopporteranno il costo della nuova spesa assai più debole rispetto al sostegno di coloro che ne trarranno beneficio. Vi è l’asimmetria fra benefici concentrati e costi diffusi; l’asimmetria fra benefici visibili e costi occulti; quella fra benefici immediati e costi futuri. E nel caso di decisioni di spesa finanziate in deficit si verifica sia la seconda che la terza asimmetria. Il costo del ricorso al deficit è al contempo poco visibile e differito nel tempo. Ma il verificarsi di asimmetrie produce quella che Amilcare Puviani, autorevole esponente della suddetta scuola, definiva come “illusione finanziaria”, ovvero l’approvazione di un volume complessivo di spesa pubblico superiore a quello che sarebbe da ritenersi ottimale sulla base delle stesse reali preferenze di coloro che dovranno sopportare i costi.

Tali asimmetrie, e dei fenomeni di illusione finanziaria che ne derivano, possono essere fronteggiate attraverso l’introduzione di limiti stringenti (costituzionali se necessario) alla libertà del legislatore. In questi casi, infatti, l’unico modo per tutelare l’effettiva a capacità decisionale, ovvero la corrispondenza fra il contenuto della decisione ed il reale volere del decisore, consiste proprio nella previsione di vincoli che limitino la discrezionalità della decisione è consentano al decisore di resistere a pressioni che possono condurlo ad una decisione non coerente con i suoi stessi interessi. Frequente, nelle elaborazioni delle questioni fondamentali della finanza pubblica, è il richiamo al mito omerico di Ulisse e le sirene. Narra Omero che Ulisse avvicinandosi all’isola delle Sirene, le quali grazie al loro canto ammaliatore inducevano gli equipaggi ad avvicinarsi pericolosamente alla costa fino ad andarsi a schiantare con le rocce ordinò ai suoi uomini di tapparsi le orecchie con la cera e lui stesso si fece legare a un albero della nave, vietando ai compagni di slegarlo. In tal modo Ulisse riuscì ad ottenere un risultato assai più efficiente rispetto a quello che sarebbe stato possibile se non avesse imposto alcun vincolo. Riuscì ad ascoltare il canto delle Sirene senza mettere in pericolo la navigazione della sua barca e del suo equipaggio. E le Sirene, indispettite dallo stratagemma di Ulisse, si buttarono in mare e affogarono.

4.      Il pareggio di bilancio e l’articolo 81 della Costituzione

Da un certo punto di vista le proposte di riformare la nostra Costituzione introducendovi il vincolo del pareggio o dell’equilibrio dei bilanci pubblici, rappresentano un “ritorno al passato”. Anche se non sono mancate interpretazioni (anche autorevoli) difformi, è indubbio che nelle intenzioni dei nostri Padri costituenti l’articolo 81 avrebbe dovuto assicurare la naturale tendenza al pareggio di bilancio. Così del resto si espressero testualmente sia Ezio Vanoni, firmatario dell’emendamento che sarebbe poi diventato norma costituzionale, che Luigi Einaudi.

L’articolo 81 della Costituzione fissa due principi fondamentali: la natura meramente formale della legge di bilancio, con la quale non si possono disporre nuovi tributi e nuove spese (terzo comma), e l’obbligo di copertura finanziaria per tutte le altre leggi di spesa (quarto comma).

 Si tratta di un modello di costituzione fiscale (in teoria) assai rigoroso e responsabile per l’assunzione delle decisioni di spesa. Se è infatti indubbio che l’articolo 81 non contiene in quanto tale un limite al saldo di bilancio, è altrettanto evidente come, almeno nelle iniziali intenzioni, attraverso un vincolo parziale, il pareggio delle decisioni incrementali di spesa, si cerca di realizzare una tendenza spontanea del bilancio verso il pareggio. Nelle originarie intenzioni costituenti era del tutto inammissibile la creazione intenzionale di disavanzi di bilancio. I disavanzi sarebbero stati possibili solo a consuntivo, in relazione ad andamenti di fatto della legislazione di spesa o di entrata differenti dal previsto. In tal modo i costituenti sembrano recepire un modello ispirato alla tradizionale concezione di finanza pubblica neutrale, escludendo qualunque spazio per l’utilizzo del deficit di bilancio in funzione anticongiunturale, secondo i paradigmi della finanza pubblica discrezionale.

Sul piano tecnico, occorre dire che la clausola che prevede l’obbligo della “copertura finanziaria” delle leggi di spesa rappresenta un modello assolutamente originale nel panorama costituzionale comparato. La soluzione einaudiana rappresenta un’applicazione del principio della “spontaneità ed unanimità nell’approvazione delle imposte” elaborato dall’economista svedese Knut Wicksell, il quale si proponeva di garantire, attraverso la contestualità fra decisione di spesa e decisione di entrata, la responsabilità finanziaria della legislazione recante nuove o maggiori spese pubbliche. Ma l’obiettivo di Wicksell non era quello di garantire il rispetto del principio del pareggio di bilancio, era piuttosto quello di moderare la tendenza all’aumento della spesa pubblica.

A tal proposito può essere anche interessante ricostruire le vicende a seguito delle quali si giunse alla soluzione definitivamente approvata. In particolare, Luigi Einaudi e Ezio Vanoni sollevarono, in sede di Sottocommissione, il tema della limitazione del potere di iniziativa legislativa dei parlamentari in materia di bilancio e di leggi di spesa, nella convinzione che un indiscriminato riconoscimento del potere di spesa anche al Parlamento avrebbe rischiato di pregiudicare l’equilibrio dei conti pubblici. Ma riconoscere al Governo, come suggeriva Luigi Einaudi, un potere di veto sulle iniziative parlamentari di spesa (come accade nelle principali democrazie europee) fu ritenuto dalla Sottocommissione non opportuno, in quanto in tal modo sarebbe stata riconosciuta all’Esecutivo una posizione di sovraordinazione nello sviluppo della dialettica istituzionale. Una soluzione in contrasto con i vincoli politici e con lo stesso clima culturale nel quale avvenne la redazione della Carta. La soluzione recepita nell’articolo 81 rappresentava pertanto, nella prospettiva einaudiana, il second best, ovvero il tentativo, pur in assenza di incisivi poteri in capo al Governo, di garantire comunque una politica di bilancio equilibrata.

Peraltro, se assai rigorose erano le intenzioni dei costituenti, affatto diversi furono gli esiti dell’applicazione della previsione costituzionale. Naturalmente una puntuale ricostruzione delle cause che condussero al sostanziale fallimento dell’articolo 81 è opera complessa che non può in ogni caso prescindere da una valutazione dell’evoluzione della generale della cultura politica ed economica del dopoguerra. L’affermazione dei moderni sistemi democratici di massa, l’ampliamento della sfera di intervento dello Sato, la costruzione dei moderni sistemi di welfare, il susseguirsi di periodi di forte crescita economica sostenuti da una significativa dinamica demografica, furono tutti fattori che determinarono una profonda modifica nella stessa percezione dei problemi della finanza pubblica.

Accanto ai fattori squisitamente culturali e politici, occorre, però, considerare anche le “debolezze tecniche” del meccanismo predisposto dal quarto comma dell’articolo 81. Affidare l’obiettivo del tendenziale pareggio del bilancio al combinato “natura formale della legge di bilancio – obbligo di copertura delle leggi sostanziali di spesa” poteva forse risultare efficace in un diverso contesto storico, caratterizzato da un basso livello di spesa pubblica e soprattutto da un modello ottocentesco di legislazione di spesa (con interventi di ammontare contenuto, verso destinatari e con orizzonti temporali determinati). Con l’affermazione nel secondo dopoguerra dello stato pluriclasse e della democrazia di integrazione di massa cambia profondamente il modello stesso della spesa pubblica. Nella realtà odierna, la legislazione di spesa, per la sua parte più consistente, prevede il riconoscimento di diritti soggettivi universali, ovvero il riconoscimento permanente da parte delle amministrazioni pubbliche di utilità di contenuto economico a tempo indeterminato ed in favore di grandi settori della cittadinanza. Un modello che ben presto si dimostra assai refrattario ad essere governato, dal punto di vista finanziario, con la semplice regola del pareggio delle decisioni incrementali (basti pensare alla legislazione previdenziale, assistenziale o sanitaria).

Ma anche altri profili dell’articolo 81 presentano un carattere arcaico. La norma, tutta focalizzata sull’obiettivo di bloccare sul nascere la creazione intenzionale di disavanzi di bilancio, si concentra unicamente sulla fase delle previsioni di spesa, mentre non dedica alcuna attenzione alla fase del consuntivo nella quale può emergere il problema della formazione non intenzionale del disavanzo. E, in ultimo, occorre considerare come l’articolo 81, scritto in un momento nel quale l’evoluzione del sistema verso il policentrismo amministrativo prima e verso il federalismo poi era del tutto inimmaginabile, si occupa unicamente del bilancio dello Stato e quindi sulla spesa delle amministrazioni centrali, mentre oggi più della metà della spesa pubblica è gestita da amministrazioni sub statali.

5.      Costituzione fiscale ed evoluzione della forma di governo

Ma, nonostante, le “debolezze tecniche” della sua formulazione, la resa effettiva dell’articolo 81 della Costituzione è stata assai diversificata nel corso degli oltre sei decenni di applicazione. In realtà, in questi sessant’anni abbiamo assistito ad un sorta di pendolo della storia. Nella prima fase di attuazione, il quarto comma riuscì a garantire la tenuta dei saldi di bilancio. Grazie alla presenza di solidi equilibri politici, con una maggioranza parlamentare compatta e con un governo che esercita la funzione “comitato direttivo della maggioranza”, il deficit viene tenuto sotto controllo e si realizza un importante processo di rientro del debito pubblico, gravato dalla pesante eredità bellica. 

Ma già a partire dalla prima metà degli anni sessanta, in coincidenza con l’avvio della stagione del centro-sinistra, l’argine predisposto in Costituzione si sgretola. Diversi i fattori che determinarono tale esito. Vi fu in primo luogo la dinamica generale che investì tutte le democrazie europee nei decenni successivi al secondo dopoguerra, quando vennero ribaltati i tradizionali canoni della finanza pubblica neutrale. Ribaltamento che, dopo una lunga elaborazione in sede scientifica ed istituzionale, trovò una traduzione formale nella nota sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 1966, la quale sancì, fra l’altro, la legittimità ai sensi dell’articolo 81 del ricorso all’indebitamento come forma di copertura finanziaria delle leggi di spesa.  

Ma per comprendere appieno il sostanziale fallimento del disegno costituente sottostante l’articolo 81, oltre che alla “rivoluzione keynesiana” occorre volgere lo sguardo anche al progressivo scompaginamento dell’equilibrio politico – istituzionale della fase post – degasperiana. A partire dalla metà degli anni ’50, la maggioranza parlamentare si mostra sempre meno coesa e coerente ed il Governo sempre meno in grado di esercitare quella funzione di comitato direttivo della maggioranza. Il Governo, da “comitato direttivo della maggioranza” che era, diventa – in questa fase – il “comitato esecutivo del Parlamento”.

L’inadeguatezza dell’articolo 81 della Costituzione, per come scritto e per come interpretato, a garantire gli equilibri di bilancio divenne presto evidente, ma per attuare un tentativo di recupero della (ormai perduta) capacità di governo della finanza pubblica occorrerà attendere circa trent’anni. In effetti, dopo la legge Curti del 1964, che operò una razionalizzazione del quadro contabile, mantenendone inalterato l’impianto, è solo con la legge n. 468 del 1978 che prese avvio un lungo processo riformatore che ha ridisegnato gli strumenti delle decisioni di bilancio e di spesa in modo affatto differente rispetto a quello delineato dall’articolo 81.

La novità fondamentale della riforma del 1978 consiste nell’affermare, per la prima volta, il principio della programmazione finanziaria ovvero della subordinazione logica fra la decisione macro sugli obiettivi di finanza pubblica e le decisioni micro di spesa o di entrata. Superando l’approccio incrementale insito nel combinato tra terzo e quarto comma dell’articolo 81, si fa strada l’idea che, in un ordinato processo decisionale di bilancio, debba prima essere fissato il livello dei saldi di bilancio e solo successivamente sia possibile definire gli interventi puntuali necessari per la realizzazione di tali valori limite-obiettivo. In particolare, l’introduzione della legge finanziaria, rappresentò una vera e propria soluzione di continuità rispetto al previgente ordinamento contabile.

La riforma del 1978 produsse in effetti esiti molto insoddisfacenti ed in una certa misura opposti rispetto alle intenzioni. La legge finanziaria, pensata come strumento per recuperare una maggiore capacità di governo nella decisione di bilancio e per agevolare il processo di rientro dal deficit pubblico, si dimostrò essa stessa fattore di ingovernabilità e di crescita del disavanzo. Il nodo irrisolto della copertura dei nuovi oneri recati dalla stessa finanziaria, l’assenza di stringenti limiti contenutistici, la concentrazione temporale delle decisioni sui fini (il livello di disavanzo) e di quelle sui mezzi (le puntuali decisioni di spesa e di entrata) vanificano del tutto l’obiettivo di costruire uno strumento moderno ed efficace di governo della finanza pubblica. La prassi dell’inversione dell’ordine delle votazioni con l’approvazione alla fine del procedimento parlamentare dell’articolo 1 – che fissa i saldi di bilancio – oltre a vanificare del tutto il disegno riformatore rappresentò anche simbolicamente il sostanziale fallimento della riforma del 1978.

Del resto la legge finanziaria, frutto di quella cultura della programmazione economica, sviluppatasi a partire dagli anni sessanta sino alla stagione della solidarietà nazionale, si presenta quasi come un ircocervo. Da un lato tentativo di strutturare il procedimento decisionale di finanza pubblica, collocandolo all’interno di una rete di vincoli legislativi e regolamentari al fine di elevarne il grado di coerenza e di trasparenza. Dall’altro affermazione di quella “cultura del piano” così efficacemente definita da Giuliano Amato: “l’idea che, purché si arrivi a conoscerla, e purché si adotti la procedura adatta per farlo, la soluzione che elimina i conflitti c’è sempre.”  

La constatazione dei risultati fallimentari del decennio di applicazione della riforma del 1978 e la consapevolezza dell’ “ambiguità sistematica della legge finanziaria” conducono alla seconda stagione di riforme dell’ordinamento della finanza pubblica, realizzata con la legge n. 362 del 1988 e con le conseguenti modifiche dei regolamenti parlamentari e l’emersione di prassi parlamentari che chiudono il sistema. In linea generale, la filosofia della riforma del 1988 consiste nella forte accentuazione del carattere procedimentalizzato e strutturato della decisione di finanza pubblica.

Diverse le novità della riforma del 1988. Fra le altre meritano di essere ricordate il definitivo chiarimento sull’obbligo di copertura ex articolo 81, comma 4, degli oneri recati dalla legge finanziaria (sebbene diverso da quello generale relativo alle altre leggi di spesa), la netta separazione logica e temporale della decisione sul livello dei saldi di bilancio (assunta con l’approvazione del DPEF) e la puntuale definizione della manovra finanziaria annuale la quale deve rispettare gli obiettivi di saldo approvati a luglio, la definizione di stringenti vincoli contenutistici alla legge manovra finanziaria, per garantire il rispetto dei quali viene completato il raccordo fra la disciplina della legge di contabilità e le norme dei regolamenti parlamentari prevedendo un rigorosa disciplina sullo stralcio presidenziale delle disposizioni estranee e l’inammissibilità degli emendamenti estranei per materia o inammissibili per difetto di compensazione degli effetti finanziari.

Ma la riforma del 1988 può essere compresa solo se la si colloca all’interno di un’analisi sull’evoluzione del sistema politico nel suo complesso. Negli anni ’80, esaurita la fase delle larghe convergenze politiche giunta sino all’esperienza dell’unità nazionale, si affaccia con prepotenza il tema della governabilità. Il sistema incapace, nonostante gli altisonanti proclami, di realizzare la Grande Riforma delle Istituzioni, cerca almeno di migliorare un po’ la propria capacità decisionale attraverso quello che è stato definito “maggioritarismo funzionale”. Ovvero un sistema che, a differenza di quelli strutturalmente maggioritari, riesca a ridurre gli scompensi e frenare gli effetti di un sistema istituzionale tuttora caratterizzato dalla “centralità parlamentare” e dalla cronica debolezza dell’Esecutivo. L’obiettivo diventa in questa fase quello di elevare la capacità di governo nelle decisioni di finanza pubblica, fermi restando i limiti strutturali che caratterizzano la posizione dell’esecutivo all’interno degli equilibri istituzionali complessivi. In questa fase, la procedura di bilancio assume, come è stato efficacemente scritto, i caratteri di “procedura decisionale autorisolta” .

L’ultima tappa del percorso è quella che si apre a metà degli anni novanta e che ci conduce sino ai giorni nostri. Due sono le novità che caratterizzano questo decennio, E si tratta di due novità dirompenti rispetto all’equilibrio che si era faticosamente cercato di raggiungere nell’applicazione dell’articolo 81. La prima novità è l’ingresso nell’ordinamento di forti vincoli alla discrezionalità della politica di bilancio dello Stato in relazione all’adesione all’Unione monetaria europea, vincoli diretti a prevenire la formazione di disavanzi eccessivi nei bilanci dei singoli Stati. Si tratta di una vera e propria soluzione di continuità nell’evoluzione del nostro sistema di finanza pubblica. Storicamente, la “procedura decisionale autorisolta”, affermatasi al termine di un lungo processo partito dall’articolo 81 della Costituzione, altro non è stato se non il faticoso emergere di un quadro legislativo e regolamentare finalizzato a garantire un adeguato livello di coerenza, trasparenza e responsabilità alla decisione di finanza pubblica, in assenza di vincoli esterni alla stessa decisione. 

L’introduzione per la prima volta rappresenta un cambio del paradigma del sistema. Non c’è del resto dubbio che anche se la disciplina europea presenta infatti un carattere molto articolato, nel quale il vincolo per gli stati membri è “procedimentalizzato” e “flessibilizzato”, la stessa introduce una regola di natura comunque quantitativa che comprime in modo sostanziale la discrezionalità della politica di bilancio. Ed inoltre, anche per la parte del Patto che riconosce margini di flessibilità, occorre considerare come anche tali margini siano stati dal Patto sottratti alla disponibilità esclusiva degli Stati. Tanto nella fase di fissazione degli obiettivi di indebitamento, quanto in quella di verifica dei risultati ed in quella, ancor più delicata di applicazione delle sanzioni in caso di disavanzi eccessivi, si svolge un complessa trama di rapporti fra Stati ed Unione europea, e tra i diversi organi dell’Unione, che in quanto contenente elementi di eterodeterminazione non può in nessun modo essere ricondotta ai canoni della finanza pubblica discrezionale, ancorché razionalizzata.

Occorre inoltre ricordare come il Patto di stabilità, oltre ad introdurre un vincolo contenutistico, modifichi profondamente altri due profili che hanno storicamente caratterizzato il nostro sistema di finanza pubblica. Cambia in primo luogo il parametro di riferimento: non più il bilancio dello Stato – neppure nella versione “allargata” del settore statale – ma il conto delle pubbliche amministrazioni. Cambia anche la prospettiva temporale: non più attenzione esclusiva alle previsioni di spesa ex ante ma attenzione, anche maggiore, ai risultati di consuntivo. E si tratta evidentemente di due fattori di forte innovazione per un sistema che, sin dall’articolo 81, era concentrato sulle previsioni di spesa riferite al bilancio dello Stato.

Il secondo potente fattore di cambiamento è la decisa curvatura maggioritaria che assume il sistema a partire dalle elezioni del 1994. Pur con tutte le incoerenze, le incertezze e le contraddizioni di una transizione, non c’è dubbio che quella registratasi nel 1994 rappresenta anch’essa una soluzione di continuità nella storia della Repubblica. Se, come abbiamo sostenuto, l’articolo 81 della Costituzione nasce come strumento di compensazione della debolezza istituzionale dell’Esecutivo, l’affermarsi della cosiddetta Seconda Repubblica segna evidentemente un fattore di discontinuità. La modifica degli equilibri istituzionali fra Governo e Parlamento caratterizza l’intero sistema, ma il settore dove appare più evidente è proprio quello della finanza pubblica. Settore nel quale la curvatura maggioritaria del sistema si sposa con la nuova dimensione imposta proprio dai vincoli del Patto di stabilità. Non v’è dubbio che proprio il carattere procedimentale – quasi negoziale – della disciplina attuativa del Patto esalti il ruolo dell’Esecutivo sia nella fase dell’impostazione della politica di bilancio che in quella della verifica degli andamenti.

E’ poi appena il caso di notare come la situazione sia stata resa ancor più complessa dal quasi contemporaneo avvio di un processo di riforma in senso federale della forma di Stato del Paese, il quale, con il riconoscimento di ampia autonomia di spesa a regioni ed enti locali, ha evidentemente reso più complesso il governo della finanza di un aggregato così ampio.

Il profondo sommovimento istituzionale che, a partire dalla seconda metà degli anni novanta ha interessato la decisione di finanza pubblica, non è stato accompagnato da una contemporanea coerente revisione delle regole che lo governano. Ma non per questo il sistema è rimasto immobile. Come è naturale, la forte pressione proveniente dall’evoluzione del generale contesto istituzionale si è incanalata laddove ha trovato spazio, forzando gli argini delle vie consolidate o aprendosene di nuove, in modo non sempre coerente ed ordinato.

In questa prospettiva numerose sono state le novità intervenute negli ultimi 15 anni. Novità per lo più finalizzate a cercare, ad ordinamento costituzionale invariato, di conferire all’Esecutivo un’effettiva capacità di governo della finanza pubblica, indispensabile per l’esercizio della propria responsabilità nei confronti dell’Unione europea. A tal fine diversi sono stati gli strumenti introdotti, attraverso innovazioni legislative o basati sull’evoluzione di prassi, tutti sostanzialmente finalizzati a “disintermediare” dalle procedure parlamentari alcuni significativi momenti e parti della decisione di bilancio.

Basti pensare al decreto legge n. 194 del 2002, cosiddetto “taglia spese”, il quale ribaltando la prospettiva ex ante sulla quale era costruito l’impianto costituzionale in materia di decisioni legislative di spesa, introduce meccanismi innovativi (e molto controversi) diretti ad impedire che l’erronea quantificazione dell’onere finanziario sulla cui base era stata costruita la copertura, determini la formazione ex post di disavanzo nel bilancio dello Stato.

Senza entrare nei dettagli tecnici e senza approfondire la concreta idoneità dello strumentario predisposto a raggiungere gli obiettivi fissati, ciò che ai nostri fini importa segnalare è come con il decreto “taglia – spese” una quota significativa della responsabilità politica nei procedimenti legislativi di spesa si sposti in favore dell’Esecutivo..

Nella medesima prospettiva di rafforzamento della centralità dell’Esecutivo, deve essere inquadrata l’istituzione di nuovi ed ingenti fondi di riserva (ad esempio quello per le autorizzazioni di cassa), i quali conferiscono anch’essi al Governo un autonomo e significativo potere di intervento integrativo e modificativo della decisione parlamentare. 

Ulteriori novità vengono introdotte, all’inizio della XVI legislatura, con il decreto legge n. 112 del 2008, il quale dispone un taglio incisivo degli stanziamenti di spesa di tutte le missioni ed i programmi inclusi nel bilancio dello Stato. Naturalmente anche anni precedenti erano state realizzate operazioni analoghe, con i cosiddetti tagli orizzontali o accantonamenti lineari. Ma fino al 2008, tali operazioni riguardavano unicamente le c.d. spese discrezionali, ovvero la quota (minore) di spesa pubblica relativa all’acquisto di beni e di servizi da parte delle pubbliche amministrazioni. L’operazione del decreto è assai più ambiziosa, perché riguarda anche e prevalentemente le c.d. autorizzazioni legislative di spesa ovvero quelle spese (la maggioranza oltre le c.d. spese obbligatorie) il cui ammontare era predeterminato rigidamente dalle leggi sostanziali che le avevano autorizzate.

Nell’operare il taglio e nel definire i necessari meccanismi di flessibilità in caso di aggiustamenti in corso di esercizio, il decreto ridefinisce anche i confini fra i diversi strumenti legislativi che concorrono a definire la legislazione di spesa: legge di bilancio, legge finanziaria, leggi sostanziali. In particolare, con la nuova disciplina viene messa in discussione l’interpretazione consolidata del terzo comma dell’articolo 81 della Costituzione.

Ma l’articolo 60 va anche oltre. Si prevede, infatti, al comma 5, che, limitatamente all’esercizio finanziario 2009, le suddette rimodulazioni possano anche essere disposte dal Governo, dopo la presentazione al Parlamento del disegno di legge di assestamento, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze di concerto con il Ministro competente. Ma, prevedendo che in corso di esercizio possano essere operate rimodulazioni fra i diversi programmi di spesa (in modo da consentire di dotare adeguatamente quelli per i quali si registrino situazioni deficitarie rispetto alle esigenze dell’amministrazione), il decreto incide direttamente sull’assetto dei rapporti fra Governo e Parlamento.

La disciplina sulla rimodulazione delle autorizzazioni di spesa si inserisce all’interno della riorganizzazione del bilancio dello Stato per missioni e per programmi, che hanno preso il posto della tradizionale articolazione per stati di previsione e unità revisionali di base. Si tratta di un’innovazione importante, mutuata dall’esperienza francese, finalizzata a rendere più trasparente la decisione di bilancio (cioè a comprendere in concreto quante risorse pubbliche sono finalizzate al perseguimento di ciascuno degli obiettivi degli apparati pubblici) e quindi misurabile l’efficienza nell’allocazione delle risorse (attraverso la definizione di specifici indicatori di performance).

E’, infatti, evidente che la riclassificazione del bilancio, se non accompagnata da misure che elevino il livello di flessibilità della gestione, consentendo al Governo di spostare risorse da un programma di spesa all’altro, avrebbe prodotto benefici unicamente in termini di trasparenza. Se l’obiettivo è anche quello di migliorare l’efficienza e l’efficacia della gestione, e di ridurre la spesa improduttiva, è indispensabile anche ridurre la rigidità del bilancio.

Da ultimo le leggi n. 196 del 2009 e n. 39 del 2011, sono intervenute per dare stabilizzare una materia che nel decennio precedente era stata interessata da una serie numerosa di innovazioni parziali, temporanee che avevano minato la stessa coerenza ed organicità della disciplina contabile. 

Ma, anche se di notevole impatto, le riforme succedutesi nel decennio 1999-2008 hanno avuto comunque un respiro parziale ed un carattere quasi emergenziale. Tutti gli interventi di riforma si sono collocati all’interno dell’orizzonte costituzionale dato. Ma le criticità del nostro sistema di finanza pubblica derivavano proprio dal processo di obsolescenza che aveva investito lo stesso articolo 81 della Costituzione.

L’architettura della decisione di bilancio costruita nel corso di sei decenni è stata interessata in profondità da un processo di erosione dall’interno che ha reso inattuali gli equilibri della stagione conclusa senza che ne siano stati definiti di nuovi. La parabola disegnata dalle procedure di bilancio, dall’articolo 81 sino ai giorni nostri, ha esaurito il proprio percorso, proprio perché sono radicalmente cambiati i caratteri di fondo del sistema che avevano determinato il disegno costituzionale ed i successivi affinamenti. E, in questa prospettiva, appare condivisibile l’idea di intervenire sullo stesso piano costituzionale con l’obiettivo di definire un nuovo modello di Costituzione fiscale che consenta non solo di affrontare con più efficacia le tensioni e le turbolenze dei mercati finanziari internazionali, ma anche di adeguare le regole fondamentali della politica di bilancio ai profondi mutamenti istituzionali, politici e culturali che hanno investito il Paese negli ultimi decenni.

6.      Il pareggio di bilancio e  l’equilibrio tra Governo e Parlamento

L’introduzione in Costituzione del pareggio di bilancio avrebbe importanti conseguenze sull’equilibrio fra Governo e Parlamento con riferimento alla politica di bilancio. L’assetto definito originariamente in Costituzione era, come visto nei paragrafi precedenti, concentrato sul pareggio delle decisioni incrementali di spesa ed era viceversa indifferente al saldo complessivo del bilancio, nella convinzione che, assicurato il pareggio di ogni decisione incrementale di spesa, ne sarebbe automaticamente derivata una naturale tendenza verso il pareggio. In questa prospettiva, non accogliendo i suggerimenti autorevolmente avanzati da Luigi Einaudi ed Ezio Vanoni, non venne previsto dai nostri Costituenti alcun freno al potere di iniziativa parlamentare di spesa (come accade in tutti principali ordinamenti costituzionali europei).

La costituzionalizzazione del vincolo di bilancio determinerebbe, evidentemente, un radicale cambiamento nel paradigma attorno al quale non abbiamo costruito il nostro modello di finanza pubblica. Il passaggio dal vincolo di ciascuna decisione incrementale di spesa al vincolo sul saldo complessivo del bilancio, riporta al centro della discussione il problema dei poteri del Governo in materia di legislazione di spesa. Abbandonata l’idea per cui il solo obbligo di copertura finanziaria delle nuove leggi di spesa (governative o parlamentari che siano) sia di per sé garanzia di tendenziale pareggio di bilancio, occorre domandarsi in che modo è possibile che il pareggio del saldo di bilancio, una volta introdotto in Costituzione, possa poi essere concretamente rispettato. Se, infatti, fino ad oggi una legge di spesa, che determini oneri finanziari superiori ai mezzi di copertura apprestati fa sorgere un problema di legittimità limitato alla stessa legge, domani – affermato il vincolo del pareggio del bilancio – l’eventuale inidoneità della copertura finanziaria di una legge di spesa determinerebbe l’illegittimità dell’intero bilancio dello Stato.

Per queste ragioni, appare indispensabile, in un regime di finanza pubblica vincolato al pareggio, affidare all’Esecutivo il compito di valutare la compatibilità delle iniziative di spesa con il quadro di finanza pubblica e con il rispetto dell’equilibrio contabile. Una valutazione del genere, postula una visione di insieme degli andamenti finanziari e una conoscenza adeguata degli apparati amministrativi e, pertanto, non può certo essere affidata alla dinamica delle libere determinazioni parlamentarti. Il Parlamento è organo istituzionale collegiale, la formazione della cui volontà dipende da una pluralità di fattori che possono mutare significativamente in relazione ai diversi oggetti di deliberazione. Come da tempo segnalato dagli economisti della scuola di Public Choice le deliberazioni di spesa adottate dal collegi rappresentativi particolarmente complessi, quali ovviamente sono i Parlamenti, possono sovente non riflettere fedelmente le preferenze degli elettori. Infatti, il semplice scambio reciproco di appoggi da parte di gruppi di minoranza alle rispettive proposte (il cd. logrolling) rende possibile l’approvazione di proposte che in sé considerate non avrebbero incontrato l’appoggio della maggioranza.

Ma se in assenza di un vincolo di bilancio, la potenziale incoerenza del procedimento parlamentare di decisione di spesa si traduce normalmente in una lievitazione della spesa ad un livello superiore a quello che preferito dalla maggioranza degli elettori, in presenza di un (più o meno) rigido vincolo di bilancio rischia di rendere impossibile il concreto rispetto del vincolo. Del resto, il riconoscimento di un indiscriminato potere di spesa in capo al Parlamento finisce per alterare il corretto rapporto fra Governo e Parlamento. Storicamente i Parlamenti nascono esattamente con l’obiettivo di controllare, in rappresentanza dei cittadini contribuenti, l’attività di tassazione (e quindi di spesa) degli Esecutivi. Nell’esperienza italiana del secondo dopoguerra si è verificato un sostanziale ribaltamento del rapporto. Abbiamo assistito per lunghi tratti ad un Governo costretto ad una continua azione di contenimento delle iniziative di spesa dei parlamentari e quindi incapace di perseguire una propria efficace strategia di politica economica e di bilancio.

Ma il riconoscimento al Governo di un potere di veto sulle iniziative parlamentari di spesa, avrebbe anche un’altra conseguenza positiva per il sistema. Privato del potere si spesa (in questa fase storica esercitato, del resto, in modo assai marginale) potrebbe rivelarsi un’ottima strumento per rilanciare il ruolo del Parlamento nel settore del controllo sulla finanza pubblica. Nonostante i tentativi di rianimazione succedutesi negli ultimi anni (basti pensare da ultimo alla riclassificazione del bilancio per missioni e per programmi), il controllo parlamentare sulla finanza pubblica rimane la cenerentola del nostro sistema istituzionale. Le Commissioni bilancio, le Commissioni di settore delle due Camere dedicano infatti pochissimo tempo e nessuna energia all’attività di controllo sulla quantità e sulla qualità della spesa. Ma ciò rappresenta il venir di una delle funzioni fondamentali della rappresentanza parlamentare. E quest’assenza, paradossalmente, finisce per indebolire lo stesso Governo, che potrebbe controllare assai meglio l’attività degli apparati amministrativi sotto la sua direzione, se avesse un efficace stimolo parlamentare.

Per queste ragioni, è opportuno che sia la stessa Costituzione a rendere esplicito il principio (oggi evidentemente implicito) del controllo parlamentare sula finanza pubblica, sia con riferimento agli andamenti tendenziali complessivi sia con riferimento ai profili dell’efficacia e dell’efficienza degli interventi. Tale enunciazione di principio potrebbe essere opportunamente accompagnata da alcune indicazione concrete, per quanto generali. Potrebbe ad esempio trovare spazio del testo della Carta il riferimento a quella Commissione bicamerale di controllo, a composizione paritaria, della quale ha lungo discusso il Parlamento in sede di riforma della legge di contabilità senza, per il prevalere di riflessi conservatori, giungere ad alcuna soluzione.

Nella medesima prospettiva dello sviluppo della funzione di controllo sulla finanza pubblica, si muovono le proposte avanzate da più parti in favore dell’istituzione di un Fiscal Council con la funzione di esercitare un controllo neutrale e qualificato sugli andamenti di finanza pubblica. Si tratta di proposte che muovono da premesse corrette ma che giungono ad una soluzione che presentano alcune controindicazioni. La previsione del Fiscal Council rappresenterebbe l’ennesima istituzione di un’autorità indipendente, avente per di più copertura costituzionale. Ma soprattutto vi è da dire che l’attività di controllo, pur presentando un elevato tasso di tecnicismo non può essere considerata come attività meramente tecnica. L’attività di controllo oltre che sulla veridicità dei conti dei grandi aggregati di spesa deve concentrarsi anche sull’analisi concreta delle spese. Inoltre, all’istituendo Fiscal Council andrebbero evidentemente attribuiti anche poteri formali in relazione alle eventuali difformità o incoerenze rilevate in sede di controllo. E ciò potrebbe determinare una pericolosa conflittualità istituzionale, in una materia assai delicata dal punto di vista politico. Il nostro ordinamento costituzionale già prevede strumenti di garanzia in grado di ripristinare la legittimità in materia di finanza pubblica (giudizio di legittimità costituzionale, giudizio di parificazione del rendiconto). Un’ulteriore giursidzionalizzazione della materia, per di più attribuita ad un organo di natura non giurisdizionale, non sembra pertanto opportuna.

Il problema del supporto informativo a necessario per l’esercizio della funzione di controllo del Parlamento in materia di finanza pubblica, andrebbe piuttosto affrontato nell’ambito della ordinaria organizzazione della burocrazia parlamentare, attraverso un riordino ed un rafforzamento degli attuali servizi del bilancio delle camere, semmai sul modello del CBO (Congressional Budget Office), agenzia a supporto del Congresso degli Stati Uniti d’America. Tale rafforzamento costituirebbe del resto l’immediata conseguenza della costituzionalizzazione della funzione di controllo parlamentare sulla gestione del bilancio, con l’eventuale indicazione di una commissione bicamerale a ciò dedicata.

Su un altro si versante si collocano poi le proposte avanzate, in dottrina e riprese anche da alcune iniziative parlamentari, che vorrebbero accompagnare l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione con la previsione nella medesima Carta di un limite alla stessa pressione fiscale. Le proposte partono dalla consapevolezza di un problema reale. L’introduzione del vincolo del pareggio potrebbe in concreto risolversi in un aumento della pressione fiscale, nella misura in cui il Governo, non riuscendo a tenere sotto controllo la dinamica della spesa pubblica, sia costretto a reperire le risorse necessarie per garantire il pareggio prevalentemente sul versante delle entrate. Ma anche se tale rischio non deve essere sottovalutato, le proposte dirette a costituzionalizzare il livello massimo delle entrate pubbliche non appaiono convincenti. In via generale, occorre segnalare come la scelta sul livello della pressione fiscale rappresenti uno degli snodi essenziali della politica, risolto nei sistemi democratici dai rappresentanti eletti dai cittadini. In tal senso, fissare in Costituzione un limite all’attività di imposizione fiscale, invalicabile dal legislatore ordinario, finirebbe per determinare, con la costituzionalizzazione di un’opzione essenzialmente politica, un irrigidimento dell’intero sistema. Né appare agevole determinare in via generale ed astratta quale possa e debba essere il tetto invalicabile. Non è infatti possibile costruire su solide basi scientifiche il livello di entrate tributarie da ritenersi ottimale, il quale, come dimostra ampiamente la storia, varia sensibilmente in relazione alle diverse fasi storiche ed all’evolversi delle preferenze dei cittadini.

Inoltre, va anche sottolineato come tale strategia potrebbe in concreto anche determinare effetti controintenzionali. Qualora, infatti, si fissasse tale vincolo ad un livello alto, superiore a quello attuale, ciò finirebbe paradossalmente per produrre un incentivo ad un aumento della pressione fiscale. Infatti, in questo caso la copertura costituzionale finirebbe per legittimare il Governo e la maggioranza parlamentare ad elevare la pressione fiscale collocandola in prossimità del vincolo costituzionale

Ma il problema segnalato dalle suddette proposte è reale ed è quindi opportuno verificare se non via siano altre strategie possono per ridurre il pericolo di un eccessivo innalzamento della pressione fiscale. Proprio quel fenomeno prima descritto di “illusione finanziaria” che spinge ad un ingiustificato aumento delle spese pubbliche, suggerisce che la strada maestra da percorrere consiste nell’elevazione del livello di consapevolezza e di responsabilità delle scelte di imposizione fiscale. In questa prospettiva, potrebbe essere utilmente previsto che il Parlamento fissi ogni anno, in anticipo rispetto all’approvazione della complessiva manovra di bilancio, il livello di pressione fiscale che dovrà essere rispettato nell’esercizio successivo (o anche nei tre anni successivi). Tale determinazione, oltre ad avere grande rilievo politico, avrebbe anche l’effetto di vincolare giuridicamente i successivi interventi legislativi, sia la legge di bilancio che le leggi di spesa infra-annuali. Una previsione analoga era del resto stata originariamente prevista dalla stessa legge n. 362 del 1988, la quale, nel definire il contenuto del Documento di programmazione economico finanziaria, che rappresentava l’architrave dell’attività di programmazione di bilancio e costituiva vincolo per le successive decisioni di Parlamento e Governo, aveva espressamente previsto che il DPEF dovesse anche fissare le “regole di variazione delle entrate e delle spese del bilancio di competenza dello Stato e delle aziende autonome e degli enti pubblici ricompresi nel settore pubblico allargato per il periodo cui si riferisce il bilancio pluriennale” (articolo 3, comma 1, lettera e). Ma tale disposizione è rimasta sostanzialmente inattuata, e ciò ha reso sicuramente favorito l’adozione in questi ultimi anni di politiche di rientro dal disavanzo pubblico prevalentemente basata sull’aumento della pressione fiscale.

Quesiti concernenti i profili costituzionali delle proposte di legge per l’introduzione del principio del pareggio di bilancio in Costituzione

1. È necessaria una riformulazione dell’articolo 11 della Costituzione alla luce dei vincoli anche di natura economico-finanziaria derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea?

Il tema del raccordo fra la previsione dell’articolo 11 della Costituzione ed il processo di integrazione europea, che ha registrato enormi avanzamenti negli ultimi anni, è molto ampio e riguarda lo stesso rapporto fra la nostra Costituzione (scritta ben prima che si profilasse il processo di integrazione europea) e l’impianto costituzionale dell’Europa. Per tali non si può ritenere che il tema si esaurisca con riferimento ai vincoli alla politica di bilancio nazionale che ha comportato l’adesione all’Unione Monetaria Europea. Del resto l’intero edificio del Patto di Stabilità e Crescita rappresenta, nella prospettiva europea, sostanzialmente un corollario rispetto all’Unione Monetaria, la quale richiede per la sua stessa stabilità e, quindi, sopravvivenza, un elevato grado di convergenza delle politiche economiche e finanziarie degli Stati aderenti all’Euro.

2. Secondo il Governo, la collocazione più appropriata del principio del pareggio di bilancio è nell’articolo 53 della Costituzione, ossia nel titolo IV, concernente i rapporti politici, della parte prima (diritti e doveri dei cittadini). Dal punto di vista sistematico, potrebbe essere indicata una diversa collocazione del principio nella Carta costituzionale?

La questione della collocazione della nuova norma costituzionale sull’equilibrio del bilancio pubblico non riveste un carattere decisivo nella valutazione del progetto di riforma. E del resto la scelta dell’articolo al quale riferire un intervento di novella costituzionale normalmente non presenta carattere univoco, perché è ben possibile che la norma possa essere ragionevolmente collocata all’interno di più di un articolo del testo vigente.

Fatta questa necessaria premessa, si ritiene che potrebbe essere valutata l’ipotesi di inserire il principio del pareggio del bilancio in un nuovo articolo da inserire tra i principi fondamentali della Costituzione. Tale soluzione, che sarebbe perfettamente coerente con il marcato carattere valoriale della disposizione, risolverebbe in premessa qualunque dubbio sul coordinamento fra il vincolo di bilancio e la tutela dei diritti fondamentali tutelati da altre disposizioni della Carta fondamentale.

Sul piano meramente sistematico, invece, la scelta migliore è quella di collocare la nuova disposizione nell’ambito dell’attuale articolo 81. In particolare, la disposizione che vincola all’equilibrio fra entrate e spese il saldo dei bilanci pubblici dovrebbe essere collocata al primo comma dell’articolo, in considerazione del fatto che i commi successivi appaiono come direttamente finalizzati a consentire il rispetto del suddetto vincolo.

3. Quali sono gli effetti che l’introduzione nella Costituzione del principio del pareggio di bilancio potrebbe determinare sulla tutela dei diritti fondamentali costituzionalmente protetti e dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che, ai sensi dell’articolo 117, comma secondo, lett. m), della Costituzione, devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale? In che modo è possibile contemperare l’esclusione o la limitazione del ricorso all’indebitamento con la tutela di tali diritti?

In realtà, non sembra esservi un legame logico diretto fra costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, tutela dei diritti fondamentali e livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Il principio del pareggio fissa un vincolo relativo al saldo finale del bilancio, senza porre alcun condizionamento alla concreta composizione del bilancio medesimo sia con riferimento al rapporto fra entrate e uscite sia all’articolazione delle stesse uscite di bilancio fra le diverse finalità di spesa. Qualunque sia, infatti, il livello di tutela dei diritti fondamentali è sempre possibile immaginare che sia possibile dare ad essi soddisfazione anche con un bilancio in pareggio. Anzi, il bilancio in pareggio garantisce la massima trasparenza e la massima responsabilità nelle decisioni di spesa e pertanto assicura che la natura fondamentale dei diritti ed il carattere essenziale delle prestazioni possa emergere con maggiore chiarezza e che pertanto diventi più netta la differenza fra tali posizioni e quelle posizioni (diritti, aspettative, interessi) prive di tale carattere di essenzialità, che pure vengono garantite ordinariamente mediante l’utilizzo di risorse pubbliche.

Sarebbe pertanto inopportuno introdurre una possibilità di derogare al vincolo del pareggio in presenza di diritti fondamentali costituzionalmente protetti e di livelli essenziali di prestazioni. Tale deroga, priva di giustificazione oggettiva ed univoca, introdurrebbe elementi di forte aleatorietà sulla effettivo rispetto della norma. Del resto la stessa categoria dei diritti fondamentali costituzionalmente protetti e dei livelli essenziali delle prestazioni presenta notevoli margini di incertezza sia con riferimento alla stessa individuazione puntuale dei medesimi sia, soprattutto, con riferimento alla definizione del contenuto concreto dei medesimi. 

4. Il disegno di legge del Governo prevede che una legge (approvata con la maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera) stabilisca i principi e criteri sulla base dei quali sono perseguiti l’equilibrio dei bilanci e il contenimento del debito delle pubbliche amministrazioni, anche assicurando le verifiche a consuntivo e le eventuali misure di correzione: quali dovrebbero essere la natura e i contenuti indefettibili di tale legge?

Nello schema delineato dal DDL del Governo la legge di contabilità assume un ruolo centrale perché diventa lo strumento in grado, anche in forza della sua natura rafforzata, di garantire che il pareggio del bilancio non rimanga un mero principio enunciato nella Carta fondamentale ma diventi un elemento che caratterizza l’intero svolgimento delle politiche pubbliche. Del resto non appare opportuno caricare la norma costituzionale di quei contenuti, più tecnici o di dettaglio, necessari per completare il sistema.

La legge di contabilità dovrà contenere, accanto alle disposizioni che già oggi definiscono il suo contenuto, anche disposizioni che siano idonee ad attuare gli elementi di forte novità che introduce nel sistema l’adozione del principio del pareggio del bilancio. In questa prospettiva, dovranno naturalmente essere definiti i criteri fondamentali di costruzione dei saldi di bilancio alla luce dei quali verificare il rispetto del vincolo del pareggio. Altrettanto importante sarà disciplinare i meccanismi i vincoli e le procedure idonei a garantire che eventuali disavanzi autorizzati dal Parlamento possano essere recuperati nei successivi esercizi. Così come disciplinare la gestioni di eventuali disavanzi che emergessero a consuntivo.

Sul piano più generale sarà importante che la nuova legge di contabilità disciplina delle procedure di formazione delle previsioni di bilancio e delle procedure di controllo sulla gestione del medesimo bilancio che siano in grado di elevare quell’accountability sulla spesa pubblica la quale rappresenta la vera sfida da affrontare se si vuole che il pareggio del bilancio non rimanga un mero enunciato di principio o al massimo un obiettivo storico da raggiungere per almeno una volta ma diventi il criterio fondamentale della gestione quotidiana della finanza pubblica.

5. Quali forme di giustiziabilità e quale regime sanzionatorio potrebbero assicurare l’effettivo rispetto del principio di pareggio di bilancio?

Il profilo dei meccanismi idonei a garantire l’effettivo rispetto del principio del pareggio del bilancio si presenta particolarmente complesso e delicato. L’introduzione in Costituzione di un vincolo che riguarda il saldo complessivo del bilancio e non solo, come oggi avviene la singola decisione di spesa, rende problematica la meccanica trasposizione degli attuali meccanismi di tutela costituzionale. E’ infatti abbastanza evidente che i due rimedi oggi approntati dall’ordinamento (il rinvio presidenziale ed il giudizio di legittimità presso la Corte costituzionale) potrebbero applicarsi con grande difficoltà se riferiti non già a singole leggi che abbiano violato l’obbligo di copertura finanziaria ma all’intero bilancio dello Stato che prevede un disavanzo al di fuori delle ipotesi previste dalla Costituzione medesima. In tale ultimo caso è infatti evidente che le conseguenze di un eventuale giudizio di illegittimità investirebbero l’atto politico fondamentale del Governo ed avrebbero pertanto conseguenze politico-istituzionali di estrema rilevanza.

Peraltro occorre notare che, una volta approvata la norma costituzionale che sancisce l’obbligo del pareggio del bilancio, sarebbe assai improbabile che il Governo si presenti in Parlamento con un disegno di legge di bilancio che reca di per sé un (illegittimo) disavanzo. Si tratterebbe di un esplicita ammissione di colpa e quindi di un suicidio politico.

Per tali ragioni, il problema vero non è tanto quello di individuare meccanismi che garantiscono la giutiziabilità e la sanzionabilità degli scostamenti “intenzionali” dalla regola del pareggio del bilancio. Il problema è piuttosto quello di definire meccanismi e procedure che siano in grado di consentire la gestione delle eventuali situazioni di disavanzo “non intenzionale”, ovvero quelle situazioni nella quali i dati sull’andamento della gestione evidenzino la formazione di un disavanzo non previsto.

Tali situazioni, le quali presentano evidentemente un insopprimibile carattere politico, andrebbero affrontate più che attraverso meccanismi di tipo giustiziale e sanzionatorio, attraverso procedure istituzionali che consentano il più rapido ed efficace rientro dalla (illegittima) situazione di indebitamento. A tal fine potrebbe essere utile prevedere che, qualora il rendiconto della gestione conclusa evidenzi una situazione di disavanzo (non rientrante nelle fattispecie che la rendono legittima) il Governo è tenuto a presentare al Parlamento, contestualmente al rendiconto medesimo un piano di rientro dal disavanzo con un orizzonte temporale abbastanza ristretto (ad esempio in 2 o 3 anni al massimo). La previsione di un termine adeguatamente breve avrebbe l’obiettivo di evitare che il susseguirsi di disavanzi non previsti consecutivi finisca per determinare una situazione di ingovernabilità della finanze pubbliche.

Nel dibattito scientifico ed in alcune delle proposte all’esame della Commissione è stata anche avanzata la proposta di rendere più stringenti i meccanismi giuridici diretti a sanzionare la violazione dell’obbligo di copertura finanziaria da parte di singole leggi di spesa. E’ stato ad esempio proposto di prevedere l’accesso diretto alla Corte costituzionale da parte della Corte dei Conti o di una minoranza parlamentare per denunciare il suddetto vizio di incostituzionalità. Al riguardo si segnala che tali proposte potrebbero essere ritenute condivisibili in astratto. Certamente lo è quella relativa all’accesso diretto della Corte dei conti, anche se si segnala come l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale già oggi lo consente, sebbene in forme meno tempestive e quindi meno efficaci. Più complessa è la questione relativa al ricorso da parte di una minoranza parlamentare, per le evidenti ricadute che una previsione del genere potrebbe avere sulla concreta configurazione della forma di governo del sistema.

In via generale, però, si osserva che, introducendo in via generale il principio del pareggio di bilancio, si riduce sensibilmente la centralità della norma sul pareggio delle decisioni incrementali di spesa. Il focus dell’attenzione si sposta infatti sull’equilibrio generale del bilancio e sugli eventuali sfondamenti del principio del pareggio che possono derivare più che da singole leggi non adeguatamente “coperte” dall’andamento inerziale di spese di grandi comparti (previdenza, sanità, pubblico impiego) del tutto indipendenti da puntuali innovazioni legislative. Per tale ragione, si ritiene che quelle proposte dirette a rafforzare i meccanismi di giustizi abilità del vincolo della copertura delle leggi di spesa rivestano nel nuovo contesto costituzionale importanza secondaria. 

6. Per l’adozione della legge che stabilisce i principi e i criteri sulla base dei quali sono perseguiti l’equilibrio dei bilanci e il contenimento del debito delle pubbliche amministrazioni, anche assicurando le verifiche a consuntivo e le eventuali misure di correzione, il disegno di legge del Governo prevede la maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera (attualmente prevista solo per le leggi di amnistia, che hanno tuttavia una peculiare natura provvedimentale, e non necessaria per le stesse leggi costituzionali). Quale posizione avrebbe nel sistema delle fonti una legge adottata con questa maggioranza? È possibile adottare la disciplina in questione mediante una fonte-tipo già prevista dall’ordinamento?

L’idea di rafforzare la forza giuridica della legge di contabilità prevedendo un quorum speciale di approvazione e, soprattutto, la non derogabilità, implicita o espressa, da parte delle altre leggi è condivisibile. Una legge di contabilità che sia nella piena disponibilità del legislatore ordinario rischia infatti di rappresentare un argine troppo fragile rispetto alla tentazione, alla quale è costantemente sottoposto il legislatore medesimo, di infrangere le regole contabili per raggiungere obiettivi politici contingenti e settoriali.

In tal modo si viene ad introdurre nell’ordinamento una nuova tipologia di legislazione che pur non avendo rango costituzionale non è derogabile o abrogabile dalle leggi ordinarie. Tale soluzione appare perfettamente coerente con l’impostazione del costituzionalismo fiscale che ritiene opportuna la fissazione di vincoli al legislatore ordinario per il raggiungimento di risultati ritenuti desiderabili. Del resto, in alcuni casi la stessa Corte costituzionale ha affermato, almeno in via incidentale, la particolare forza di resistenza della legge di contabilità in quanto diretta applicazione dell’articolo 81 della Costituzione.

In via generale, si osserva che l’esigenza di rendere la disciplina di contabilità indisponibile al legislatore ordinario potrebbe essere soddisfatta prevedendo che sia una legge di rango costituzionale ad adottarla. Potrebbe in ipotesi essere la stessa legge che reca la novella degli articoli della Costituzione interessati al principio del pareggio di bilancio a contenere anche le norme di attuazione. Tale soluzione, senz’altro più coerente sul piano sistematico, avrebbe l’unico inconveniente di allungare i tempi del procedimento di approvazione. Occorre peraltro considerare come l’esame contestuale delle modifiche alla Costituzione e delle norme di contabilità necessarie per dare attuazione a queste, potrebbe consentire di ridurre i tempi complessivi per giungere ad approvare tutta la nuova disciplina.

In ogni caso, qualora si confermasse la scelta di affidare ad una legge ordinaria rinforzata la disciplina di attuazione delle nuove norma costituzionali, solleva qualche perplessità la scelta di richiedere un quorum dei due terzi per l’approvazione parlamentare. Si tratta, infatti, di un quorum assai elevato, superiore perfino a quello relativo alle norme costituzionali alla cui attuazione dovrebbe provvedere la legge. E appare poco coerente che sia una norma per la cui approvazione sia richiesto un determinato quorum a fissare un quorum deliberativo superiore per l’approvazione di un’altra norma ad essa subordinata.

Ma, oltre alle perplessità di ordine sistematico, la scelta del DDL del Governo determina il rischio che sulla legge di contabilità si venga a determinare una sorta di spirale consociativa che appare pericolosa, soprattutto nella materia della finanza pubblica (come l’esperienza storica dimostra). E’ certamente opportuno che la definizione della generale disciplina contabile avvenga sulla base di un’ampia convergenza parlamentare. Del resto sino ad oggi sempre la legge di contabilità è stata modificata con il concorso positivo dei gruppi di opposizione. Cionondimeno fissare per Costituzione un quorum deliberativo così alto potrebbe determinare delle conseguenze negative. Preferibile sarebbe prevedere che al particolare statuto della legge di contabilità sia collegato un quorum deliberativo della maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera.

7. Il disegno di legge del Governo prevede la possibilità di ricorrere all’indebitamento soltanto in due casi: nelle fasi avverse del ciclo economico (nei limiti degli effetti da esso determinati) o per uno stato di necessità che non può essere sostenuto con le ordinarie decisioni di bilancio. Lo stato di necessità è dichiarato dalle Camere in ragione di eventi eccezionali, con voto espresso a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti.

Con deliberazione delle Camere è dichiarato il solo stato di necessità: chi ha il potere di accertare l’esistenza di una fase avversa del ciclo economico?

Nell’attuale assetto bipolare, il quorum della maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera è sufficiente a garantire che lo stato di necessità sia dichiarato solo in casi effettivamente eccezionali?

In che modo dovrebbe essere dichiarato lo stato di necessità: con deliberazioni autonome delle due Camere (come sembrerebbe dalla attuale formulazione) o con legge?

Quali eventuali sovrapposizioni si potrebbero determinare tra il potere delle Camere di dichiarare – ai sensi del nuovo primo comma dell’articolo 81 della Costituzione (introdotto dal disegno di legge del Governo) – l’esistenza di uno “stato di necessità che non può essere sostenuto con le ordinarie decisioni di bilancio” e il potere del Governo di adottare, in casi straordinari di necessità e urgenza, provvedimenti provvisori con forza di legge, ai sensi del primo comma del vigente articolo 77 della Costituzione?

La definizione dei casi nei quali può essere ammesso un disavanzo di bilancio rappresenta uno dei punti più delicati dell’intero impianto delle proposte relative alla costituzionalizzazione del principio del pareggio di bilancio. La tipologia di situazioni proposta nel DDL del Governo (bad times e eventi eccezionali) appare adeguatamente precisa ma sufficientemente generale per coprire tutti e solo i casi nei quali è ragionevole ed opportuno derogare transitoriamente al principio del pareggio. 

La competenza ad accertare la sussistenza di quelle situazioni che legittimano il ricorso al disavanzo, non può che spettare al Parlamento. In astratto si potrebbe ritenere che si un mero atto di ricognizione di una situazione di fatto, e cioè di atto non libero nei fini ma di mera discrezionalità tecnica. In realtà, non può sfuggire la natura intrinsecamente politica di tali valutazioni. E’ facilmente configurabile il caso di un evento esterno (una recessione economica o una calamità naturale) rispetto al quale la decisione se ricorrere all’indebitamente possa trovare risposte assai diverse sulla base dei diversi orientamenti politici presenti in Parlamento. Semmai per meglio definire il sistema, potrebbe essere opportuno prevedere (come del resto è presumibile accada in concreto) che l’iniziativa della dichiarazione dello stato di necessità che rende legittimo il ricorso all’indebitamento sia riservata al Governo, il quale sottopone all’approvazione del Parlamento la relativa deliberazione.

Sul piano procedurale sembra opportuno che il Parlamento sia chiamato ad una deliberazione bicamerale (legislativa o non legislativa), atteso che la particolare delicatezza della materia rende necessario scongiurare i rischi di una deliberazione difforme da parte delle due camere (come è oggi ad esempio possibile sulla Decisione di economia e finanza). Proprio in relazione all’intrinseca politicità della decisione si ritiene opportuno che la stessa sia affidata alla maggioranza parlamentare, sebbene nella forma rafforzata della maggioranza assoluta. Proprio l’evoluzione in senso maggioritario del sistema sconsiglia invece la previsione di quorum deliberativi superiori.

Sul piano più generale, si osserva che il testo del DDL del Governo richiede l’autorizzazione parlamentare unicamente in riferimento allo stato di necessità per eventi eccezionali, lasciando invece del tutto indeterminato il procedimento di apprezzamento delle fasi avverse del ciclo economico. Al riguardo si ritiene che sarebbe opportuno prevedere che anche la sussistenza di una fase di recessione economica debba essere oggetto di uno specifico procedimento di apprezzamento in sede parlamentare. Tale soluzione sarebbe in primo luogo utile per evitare di non lasciare del tutto indeterminata la procedura per riconoscere tale situazione ed attivare i meccanismi opportuni. Ma la soluzione sarebbe opportuna soprattutto per elevare il circuito della responsabilità e della trasparenza politica che sono i veri antidoti nei confronti di un abuso di tale facoltà. Per tale ragione si ritiene che una deliberazione del Parlamento debba essere prevista per autorizzare il ricorso all’indebitamento non solo nei casi di eventi eccezionali ma anche in quelli di fasi avverse del ciclo economico.

Per le medesime ragioni sarebbe opportuno prevedere che il Parlamento nell’autorizzare il ricorso al finanziamento in deficit fissi anche il tetto massimo di tale facoltà.

Un ulteriore punto di estrema delicatezza, che non è affrontato nel DDL del Governo, è quello relativo al rientro dal deficit una volta che l’evento che abbia legittimato l’indebitamento sia cessato. In proposito si ritiene che sia opportuno prevedere che, una volta che il Parlamento abbia autorizzato il disavanzo annuale, il Governo debba presentare contestualmente al bilancio di previsione per l’anno successivo un “piano di rientro” che consenta entro un tempo ragionevolmente breve (5 anni al massimo) di riportare il bilancio in pareggio. Piano di rientro del quale andrebbe garantito il rispetto, attraverso specifici meccanismi da prevedere non in Costituzione ma in legge di contabilità.

8. Potrebbe essere opportuno, nel momento in cui si introduce nella Costituzione il principio dell’equilibrio di bilancio, intervenire anche sull’articolo 117, per assumere la materia “armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” (che attualmente è di legislazione concorrente) tra le materie riservate alla legislazione esclusiva dello Stato?

L’attuale formulazione dell’articolo 117, terzo comma, relativamente ai bilanci pubblici ed al sistema tributario appare piuttosto confusa, indipendentemente dalla modifica dell’articolo 81 e dall’introduzione del principio del pareggio. In particolare, se – alla luce dell’evoluzione in senso federale del nostro sistema – è ragionevole aver inserito fra le materie di legislazione concorrente il “coordinamento del sistema tributario”, non altrettanto può dirsi per la materia dell’ “armonizzazione dei bilanci pubblici” e per quella (per la verità sfuggente) del “coordinamento della finanza pubblica”. In particolare, l’attuale formulazione della norma ha legittimato un filone di pensiero che ha ritenuto di individuare in essa un improbabile richiamo alla categoria del “federalismo contabile”. Si tratta di una categoria appunto improbabile, atteso che un sistema di contabilità richiede un’assoluta omogeneità dei criteri, dei metodi e delle procedure dei conti degli enti che confluiscono nel sistema medesimo. Tale necessità oltre che dalla logica è del resto imposta dalla stessa Unione Europea che, avendo posto alla base delle sue valutazioni in materia di finanza pubblica l’aggregato più ampio tra quelli a disposizione (il conto delle pubbliche amministrazioni), rende indispensabile che il Paese disponga di un sistema contabile omogeneo per tutte le amministrazioni pubbliche ricomprese in tale aggregato. Del resto, uno degli ostacoli più rilevanti che ha incontrato la politica di rientro dal disavanzo pubblico che l’Italia ha adottato negli ultimi anni è stato costituito proprio dall’assenza di un omogeneo ed affidabile sistema contabile di tutte le amministrazioni pubbliche.

9. Quali conseguenze determina la soppressione, dall’articolo 81 della Costituzione, dell’attuale terzo comma, ai sensi del quale “Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese”?

In realtà, non è chiara la ratio dell’espunzione dall’articolo 81 della Costituzione dell’inciso relativo alla natura meramente formale della legge di bilancio. Il rinvio della definizione del contenuto proprio della legge di bilancio alla legge di contabilità lascia indeterminata la questione, la quale potrebbe essere risolta sia confermando il principio vigente sia affermando quello opposto. In effetti, la completa rivisitazione della nostra Costituzione fiscale operata con il DDL, suggerirebbe di affrontare anche il profilo della capacità di innovazione legislativa della legge di bilancio, demandando semmai alla successiva legge di contabilità la definizione dei profili di dettaglio.

Sul piano del merito, riteniamo che l’attuale terzo comma dell’articolo 81, pur essendo norma di lunga tradizione e di illustri natali, presente in altri importanti ordinamenti costituzionali, oggi abbia perso quella originaria funzione positiva e rischi al contrario di assumere una valenza negativa. La norma elaborata in un contesto storico assai differente, caratterizzato da uno Stato minimo e con basso livello di spesa pubblica serviva a garantire la massima evidenza democratica alle nuove decisioni di spesa. L’obiettivo era di assicurare la piena consapevolezza della collettività sulle spese pubbliche che il Parlamento approvava via via. Consapevolezza che sarebbe stata estremamente limitata se le spese fossero state introdotte attraverso un documento lungo e tecnicamente complesso come la legge di bilancio.

Nell’attuale contesto storico la valenza della norma è affatto diversa. Oggi il valore del terzo comma dell’articolo 81 non è soltanto quello di impedire la deliberazione di nuove spese in sede di bilancio ma anche quello di impedire che spese già approvate con precedenti leggi possano essere ridotte o annullate con la decisione di bilancio. L’intero ammontare degli oneri inderogabili e dei c.d. fattori legislativi è cioè sottratto alla competenza decisionale del Parlamento quando approva il bilancio dello Stato ovvero l’atto fondamentale di programmazione finanziaria.

Tale vincolo si è rivelato nel corso degli anni un formidabile fattore di freno alla politica di contenimento e di razionalizzazione della spesa pubblica. Uno dei paradossi del sistema di finanza pubblica italiano degli ultimi è stato la concentrazione parossistica dell’attenzione politica e istituzionale sulle decisioni incrementali di spesa (sublimata nell’assoluta centralità della legge finanziaria) ed il sostanziale disinteresse per la c.d. spesa storica (sublimata dall’assoluta marginalità della legge di bilancio).

La natura formale della legge di bilancio ha finito per ostacolare le politiche di risanamento delle finanze pubbliche, la quali anche per la difficoltà di aggredire la spesa storica hanno spesso assunto un carattere emergenziale, frammentato e di breve respiro. Oggi, nel momento in cui si discute se introdurre il vincolo costituzionale del pareggio di bilancio, diventa necessario superare anche il tradizionale principio del bilancio come legge meramente formale. Per poter concretamente rispettare il vincolo al pareggio, è, infatti, indispensabile dotare il Parlamento ed il Governo di uno strumento che consenta loro di intervenire in modo rapido ed efficace sulla spesa pubblica stratificatasi nel corso degli anni. E tale strumento non può che essere un bilancio in grado di incidere su precedenti autorizzazioni di spesa. La stessa spending review, che rappresenta uno degli strumenti più efficaci per coniugare le politiche di risanamento finanziario con quelle di miglioramento dell’efficienza degli apparati pubblici, rischia di tradursi in una mera esercitazione accademica se non abbinata ad un efficace strumento legislativo di intervento sulla spesa storica.

In ogni caso, qualora si ritenesse comunque necessario tutelare quelle esigenze di trasparenza e responsabilità che furono alla base dell’introduzione del principio del bilancio come legge meramente formale, sarebbe sempre possibile confermare il principio secondo il quale con il bilancio non si possono prevedere nuove spese ma ammettere, al contempo, la possibilità, al fine di rendere possibile il rispetto del vincolo del pareggio, di intervenire con il bilancio per ridurre le spese già approvate con precedenti leggi.


Quesiti concernenti i profili economico-finanziari delle proposte di legge costituzionale per l’introduzione del principio del pareggio di bilancio in Costituzione

1) E’ opinione diffusa che il principio del pareggio di bilancio debba valere per il complesso delle amministrazioni pubbliche. La discussione è tuttavia aperta per quanto concerne l’opportunità di far valere tale vincolo rispetto ai singoli enti o ad aggregati di enti omogenei (regioni, comuni..). Quali sono i pro e i contro di tali possibili opzioni?

Il vincolo del pareggio di bilancio deve naturalmente riguardare il complesso delle amministrazioni pubbliche e non può che riguardare anche il bilancio dei singoli enti ricompresi nel conto delle pubbliche amministrazioni. Dal punto di vista generale si osserva, infatti, che il riconoscimento di una limitata e vincolata discrezionalità nell’uso del deficit di bilancio in funzione anticiclica (good times – bad times) non può che riguardare unicamente il livello statale di governo. Così come anche il verificarsi di eventi eccezionali coinvolge sempre la responsabilità dello Stato. 

Né ci sono ragioni sufficienti per ammettere in via generale il ricorso all’indebitamento degli enti sub-statali per il finanziamento di spese in conto capitale. Come evidenziato alla risposta al quesito economico n. 8, la stessa categoria delle spese in conto capitale appare di incerta definizione e, in ogni caso, ammettere il finanziamento in deficit per tali spese produrrebbe presumibilmente un’eccessiva dilatazione di tali spese, al di là delle effettive necessità. E tali rischi sarebbero, per evidenti ragioni, molto maggiori proprio nel caso di regioni ed enti locali.

Imporre il divieto di indebitamento per ciascun ente territoriale è necessario per fronteggiare i rischi di comportamento indisciplinato di enti subordinati, che comporterebbe esternalità negative per la collettività, nonché i fenomeni di moral hazard, collegati a problematiche di soft-budget constraints, dovuti all’aspettativa che il Governo centrale sia costretto ad intervenire con le proprie risorse, per sostenere l’ente territoriale eccessivamente indebitato, con il rischio del danneggiamento del merito di credito del governo centrale.

Anche nel sistema federale degli Stati Uniti d’America, tutti gli stati dell’unione dispongono di una forma di vincolo di bilancio in pareggio, ad eccezione del piccolissimo stato del Vermont.

Sul rischio generato dal comportamento indisciplinato degli enti territoriali valga da esempio la recente devastante crisi debitoria della Repubblica federale Argentina, innescata dall’indebitamento eccessivo dai governi locali, che precipitò la crisi della valuta nazionale (il peso) e il default del debito dell’intero paese.

2) Sussiste inoltre il problema di individuare i principi e i criteri sulla base dei quali prevedere il concorso degli enti territoriali minori alle manovre di finanza pubblica volte alla stabilizzazione finanziaria in coerenza con gli impegni assunti in sede europea nonché al servizio del debito pubblico. Qual è la sua opinione in merito?

Naturalmente il tema del concorso delle regioni e degli enti locali alle manovre di finanza pubblica ha assunto grande rilevanza negli ultimi anni in relazione alla necessità di attuare politiche che consentissero il progressivo rientro dal disavanzo pubblico. Evidentemente raggiunto il pareggio di bilancio e costituzionalizzato il vincolo relativo, il tema perderebbe automaticamente di importanza. Il problema potrebbe riguardare unicamente i casi di disavanzo autorizzato dal Parlamento per le ipotesi espressamente prevista ovvero i casi di disavanzo “inintenzionale” che si registrasse a consuntivo. In questi casi saranno i relativi piani di rientro, approvati dal medesimo Parlamento, a definire eventuali forme di concorse degli enti sub-statali al raggiungimento degli obiettivi.

3) Quale deve essere il saldo di riferimento nel calcolare il pareggio di bilancio, quali le conseguenze derivanti dalla scelta del saldo (o di più saldi) sulla base del quale calcolare il pareggio ?

Il vincolo di bilancio deve essere trasparente e facilmente individuabile nei documenti di bilancio. Anche in relazione ai vincoli derivanti dall’appartenenza all’Unione monetaria europea, il saldo generale non potrà che essere calcolato con riferimento all’aggregato più ampio, ovvero attualmente al conto delle pubbliche amministrazioni. Naturalmente, sarà ben possibile che, per altri fini – la legislazione contabile preveda anche l’utilizzo di ulteriori aggregati e saldi. In ogni caso la norma costituzionale non può che fare genericamente riferimento all’equilibrio fra entrate e spese delle amministrazioni pubbliche. Sarà la successiva legge di contabilità a definire i dettagli della norma.

4) E’ favorevole a prevedere che il saldo di bilancio, a prescindere da come verrà calcolato, debba essere corretto per il ciclo (il pareggio di bilancio dovrebbe quindi avere carattere strutturale) al fine di verificare il raggiungimento del pareggio? Quali problemi comporta l’effettuazione di tale verifica e quali criteri ritenete debbano essere applicati ?

Riferire il vincolo del pareggio del bilancio al saldo corretto per il ciclo suscita notevoli perplessità.

La correzione per gli effetti del ciclo si presta infatti a scelte discrezionali e, quindi, indebolisce la funzione disciplinare del vincolo di pareggio, attenuandone la credibilità agli occhi degli investitori e dei mercati. La componente ciclica è difficile da valutare. Si tratta, infatti, di correggere il saldo di bilancio per gli effetti derivanti dallo scostamento tra l’ouput (PIL) effettivamente realizzato e l’output potenziale (tale scostamento costituisce il così detto output gap). Ma, l’output potenziale non è una grandezza osservabile, esso può essere solo stimato. E la stima presenta complessi problemi metodologici: dipende, infatti, da grandezze a loro volta osservabili con ritardo, presuppone una convergenza sui modelli di stima, è soggetta a significative revisioni mano a mano che si realizzano nel corso del tempo le modifiche strutturali del sistema produttivo. Non per nulla, ancora di recente uno dei Governatori della Federal Reserve Bank degli Stati Uniti, Frederic S. Mishkin, dichiarava che “ poiché é tanto difficile stimare in maniera affidabile l’output potenziale….., non vi deve sorprendere che alla Riserva federale utilizziamo molta discrezionalità nel costruire le stime dell’output potenziale” .

Ma, volendo anche prescindere dalle difficoltà di natura statistico – econometrica, si osserva che riferire il vincolo del pareggio al deficit strutturale anziché a quello nominale potrebbe essere valutato solo qualora il suddetto vincolo non ammettesse deroghe in funzione dell’andamento del ciclo economico. Infatti, il saldo strutturale in realtà altro non è se non uno strumento che consente di depurare la valutazione del saldo di bilancio dalla componente meramente ciclica. In tal modo, riferendo l’obbligo di pareggio saldo strutturale, si consente di introdurre – attraverso un meccanismo “automatico” – elementi di flessibilità in caso di andamento recessivo dell’economia (quando cioè l’output gap aumenta in relazione all’aumento della disoccupazione). Se però si ritiene opportuno consentire, entro limiti ed in casi definiti, ammettere deroghe “intenzionali” alla regola del pareggio, vengono meno le ragioni che sostengono l’utilizzo del dato del saldo corretto per il ciclo. Ed anzi, cumulare le due soluzioni, ammettendo le deroghe e prevedendo il ricorso al saldo strutturale, finirebbe per rendere meno trasparente il sistema (perché non sarebbe chiaro fino a che punto il deficit deriva da una scelta consapevole e fino a che punto dall’operare di un meccanismo di correzione automatica). E soprattutto finirebbe per rendere ammissibile il ricorso al deficit in misura superiore a quella autorizzata dal Parlamento.

5) Il pareggio di bilancio è previsto diventi la regola, che sembra tuttavia dover conoscere almeno due eccezioni: un andamento congiunturale sfavorevole (bad times) e gli eventi eccezionali. Come configurerebbe queste due ipotesi? Riterrebbe opportuno prevedere altre possibili deroghe?

Cfr. risposta quesito giuridico n. 7).

6) Considera opportuno disciplinare a livello interno, eventualmente con norma costituzionale, anche l’obbligo di incrementare l’avanzo primario nelle fasi di ripresa del ciclo economico (good times) ?

No riteniamo che la soluzione sia opportuna. Al di là dei dubbi sull’efficacia reale delle politiche fiscali anticicliche, prevedere l’obbligo di avanzi di bilancio (si badi non meri avanzi primari ma avanzi tout court) incontrerebbe notevoli ostacoli di carattere politico. Più efficace ci sembra prevedere che in caso di autorizzazione al ricorso al deficit in presenza di fasi economiche recessive il Governo ed il Parlamento debbano anche approvare un piano di rientro con una durata massima ragionevole parametrata alla durata media dei cicli economici (5 anni).

7) La regola del pareggio di bilancio esclude la possibilità di ricorrere al prestito per conseguire l’equilibrio. La Costituzione tedesca prevede che il principio del pareggio sia rispettato se le entrate da prestiti non superano la soglia dello 0,35 per cento del PIL (c.d. freno all’indebitamento). Per altro verso, in Svizzera e in Germania è previsto che i disavanzi di un anno possano essere compensati negli anni successivi (c.d. conti di controllo). Ritiene che queste o analoghe forme di flessibilità possano essere utili anche per l’esperienza italiana?

In realtà la soluzione adottata nella Costituzione tedesca si presenta come alternativa rispetto a quella prospetta nel DDL del Governo. In Germania hanno fissato un tetto al disavanzo ammissibile (lo 0,35%) indipendentemente dalla sussistenza di fattori che rendono opportuno il ricorso all’indebitamento. Tale soluzione appare meno convincente ed efficace, poiché potrebbe favorire il consolidarsi di politiche di bilancio che si collochino stabilmente appenda al di sotto del limite massimo, con ciò vanificando qualunque margine di flessibilità in presenza di eventi straordinari o di fasi economiche negative.

Per tale ragioni appare preferibile la soluzione prospettata dal Governo che fissa il principio del pareggio ma consente alcune deroghe in presenza di casi definiti e secondo procedure trasparenti. Dell’esperienza tedesca viceversa appare interessante il riferimento ai c.d. conti di controllo, che secondo noi dovrebbero tradursi in piani di rientro dal disavanzo autorizzato con un orizzonte temporale massimo di cinque anni.

8) L’accoglimento del principio del pareggio di bilancio presuppone il superamento del principio della golden rule, ossia la possibilità di ricorrere a forme di indebitamento per finanziare le spese in conto capitale. Ritiene che tale superamento debba essere assoluto o che sia possibile ipotizzare alcune limitate eccezioni e, in caso di risposta affermativa, come ritiene che tali eccezioni debbano essere articolate ?

Per le ragioni sopra esposte riteniamo che una generale ammissione del finanziamento in deficit delle spese in conto capitale non sia opportuna, né per lo Stato, né a maggior ragione per gli enti sub-statali. La stessa definizione di cosa costituisca spesa per investimento è soggetto a vasta discrezionalità. Se fosse introdotta la golden rule si discuterebbe all’infinito di come classificare tale spesa ai fini del vincolo di bilancio.

In secondo luogo, se si sottraesse dal vincolo di bilancio la spesa per investimenti – e si mantenesse tale vincolo per il resto della spesa corrente – si verrebbe a creare un forte incentivo a finanziare investimenti in eccesso, senza un’adeguata valutazione costi benefici, per il semplice fatto che è più facile spendere. La storia del nostro paese è costellata di opere pubbliche inutili e realizzate ai soli fini clientelari. Ciò accadrebbe a maggior ragione se l’indebitamento ai fini dell’investimento fosse escluso dal vincolo del pareggio in bilancio.

Per coerenza andrebbe corretto, quindi, l’articolo 119 della Costituzione che consente l’indebitamento da parte degli enti territoriali anche se solo per finanziare spese di investimento.

Una deroga limitata potrebbe essere ragionevolmente prevista unicamente per le opere di investimento aventi natura strategica ed impatto finanziario eccezionale, quelle delle quali cioè non è ragionevole immaginare il finanziamento con gli ordinari capitoli di bilancio. Ma per garantire la massima trasparenza ed evitare un uso distorto di tale facoltà, anche questa deroga andrebbe prevista previa specifica autorizzazione del Parlamento, il quale dovrebbe individuare l’opera, fissare l’ammontare della spesa e la sua ripartizione nel tempo e soprattutto definire il piano di ammortamento finanziario.

Del resto, per il finanziamento delle spese in conto capitale di ammontare significativo, la soluzione ideale non è quella di ammettere un indiscriminato ricorso al deficit, ma quella di vincolare il finanziamento dell’opera ad un rigido piano d’ammortamento (le cui risorse confluiranno in un conto di controllo), come già avviene nella finanza privata (project financing).

9) Come assicurare il rispetto del principio del pareggio del bilancio? Quali accorgimenti adottare ex ante, in materia di procedure di formazione e decisione del bilancio, e ex post, in sede di verifica delle risultanze della gestione ? Quali meccanismi e quali procedure possono essere previsti per ripristinare l’equilibrio dei bilanci qualora questo risulti comunque alterato ?

La costituzionalizzazione del pareggio di bilancio deve essere necessariamente accompagnata da procedure e meccanismi che rendano concretamente sostenibile tale vincolo, riducendo gli spazi per comportamenti opportunistici che renderebbero assai arduo il mantenimento di una situazione di equilibrio fra entrate e spese. Diversi sono i meccanismi che possono essere individuati a tal fine.

Per quanto riguarda il rispetto del pareggio ex ante, come già esposto nel paragrafo n. 6 del documento, due possono essere i meccanismi utili a rendere realisticamente rispettabile il vincolo. In primo luogo, il riconoscimento in capo al Governo di un potere di veto sulle iniziative legislative di spesa, come accade in tutte le principali democrazie europee. Il pareggio del bilancio può essere infatti effettivamente rispettato solo a condizione che le decisioni di spesa adottate durante l’esercizio siano coerenti. Il semplice obbligo della copertura non rappresenta, come l’esperienza storica ha ampiamente dimostrato, un argine sufficiente contro la formazione di disavanzi occulti o non intenzionali. Occorre riconoscere formalmente al Governo la funzione di verifica sulla coerenza politica e sulla compatibilità contabile delle singole decisioni di spesa.

Il rafforzamento della posizione del Governo nella produzione legislativa di spesa dovrebbe essere opportunamente compensato da un rafforzamento della funzione del Parlamento nel controllo sulla finanza pubblica. In questa prospettiva potrebbe essere opportuna la previsione in Costituzione di una Commissione bicamerale per il controllo della finanza pubblica. Commissione a composizione paritaria ed adeguatamente supportata sul piano delle competenze e delle informazioni tecniche.

Altro meccanismo importante è il superamento del carattere meramente formale della legge di bilancio (cfr. quesito costituzionale n. 9).

Il vincolo di bilancio ex-ante è difficilmente rispettabile in senso assoluto, poiché è frutto di previsioni e congetture (soprattutto per la parte relativa al gettito delle entrate). Di conseguenza, nel caso il vincolo non fosse rispettato ex-post, il Ministro dell’Economia dovrebbe immediatamente prendere delle misure d’intervento per ridurre lo squilibrio, facendo leva sull’utilizzo di clausole di salvaguardia automatiche. Il mancato rispetto del piano d’ammortamento per il finanziamento delle opere strategiche, invece, esporrebbe il Governo ad una forte responsabilità politica da giustificare di fronte al Parlamento e all’elettorato.

10) Per assicurare l’obiettivo del pareggio del bilancio ritiene sufficiente disciplinare in Costituzione tale principio o, al contrario, considera necessario prevedere in Costituzione ulteriori principi e/o regole in materia di finanza pubblica?

Come già argomentato al paragrafo 6 del presente documento, occorre porre molta attenzione al rischio che l’introduzione del vincolo del pareggio di bilancio si traduca in un aumento della pressione fiscale, nella misura in cui il Governo di fronte alla difficoltà di ridurre le spese preferisca incrementare le entrate.

Per scongiurare tale rischio non sembrano idonee le proposte dirette ad introdurre in Costituzione un tetto massimo alla pressione fiscale. Tale soluzione oltre che incerta sul piano tecnico (non esistono parametri scientifici in grado di definire un livello ottimale di pressione fiscale), appare debole sul piano politico-costituzionale (il livello di pressione fiscale rappresenta il cuore delle proposte di politica economica che si confrontano sul piano del consenso elettorale) e controindicato sul piano operativo (la fissazione del tetto ad un livello elevato potrebbe paradossalmente diventare un incentivo all’aumento della pressione fiscale).

Il problema deve essere affrontato attraverso meccanismi in grado di elevare il profilo della trasparenza e della responsabilità democratica della decisione parlamentare sul livello della pressione fiscale. La Costituzione dovrebbe cioè prevedere che sia il Parlamento a fissare il livello massimo della pressione fiscale. Il Parlamento sarebbe chiamato ogni anno a fissare, in anticipo rispetto all’approvazione della complessiva manovra di bilancio, il livello di pressione fiscale che dovrà essere rispettato nell’esercizio successivo (o anche nei tre anni successivi). Tale determinazione, oltre ad avere grande rilievo politico, avrebbe anche l’effetto di vincolare giuridicamente i successivi interventi legislativi, sia la legge di bilancio che le leggi di spesa adottate in corso di esercizio.

11) Qual’é la sua opinione in merito alle proposte di modifica del terzo comma dell’articolo 81 della Costituzione volte a superare la concezione della legge di bilancio quale legge meramente formale, facendo venire meno la necessità di affiancare alla legge di bilancio la legge di stabilità (già legge finanziaria)? Quali conseguenze determinerebbe l’accoglimento di tale nuova impostazione per quanto riguarda, in particolare, la natura e la funzione della legge di bilancio?

Cfr. risposta al quesito giuridico n. 9.

12) In considerazione del contenuto necessariamente sintetico e di principio delle norme costituzionali, un’applicazione efficace del principio del pareggio del bilancio richiede anche l’approvazione di una legge attuativa del dettato costituzionale, dotata di forza superiore alla legge ordinaria. Quali sono i temi che a suo giudizio tale legge dovrebbe approfondire o, eventualmente, trattare ex novo per evitare di costituzionalizzare determinate discipline?

Cfr. risposta al quesito giuridico n. 4.