Privacy Policy Cookie Policy

Le dichiarazioni recentemente rilasciate dal presidente russo Vladimir Putin al “Financial Times”, in cui egli esprime l’opinione che il liberalismo abbia “superato il proprio obiettivo iniziale” e sia diventato “obsoleto”, sono importanti, prima ancora che per il loro contenuto, per il fatto che esse esprimono l’ambizione – per la prima volta da lui espressa in forma tanto esplicita – non soltanto di difendere il modello di società e di governo russo dalle contestazioni di parte occidentale, ma di intervenire direttamente nel dibattito politico-culturale occidentale. 

In quanto tali, dunque, quelle dichiarazioni vogliono essere, da parte di Putin, una dimostrazione di sicurezza e forza tali da potersi permettere di proporre il proprio ordinamento come un modello virtuoso e di rimproverare quelli che a suo avviso sono i difetti delle società che all’epoca della guerra fredda si sarebbero chiamate di “oltre cortina”. 

Si tratta di una raffinata operazione di propaganda, volta a raccogliere consensi nelle opinioni pubbliche occidentali, sfidando la pessima stampa di cui Putin complessivamente gode presso il grande sistema dei media e i ceti intellettuali di quell’area del globo. 

Evidentemente il leader russo ritiene di potersi permettere questo affondoperché in lui e nel suo entourage si è ormai fatta strada la convinzione che nella cultura politica delle democrazie occidentali si sia prodotta una debolezza di fondo, un vuoto: del quale è espressione la grande divaricazione tra élites politiche (accademiche, economico-finanziarie) consolidate e movimenti “populisti” o “sovranisti”. In tale vuoto Putin cerca di inserirsi, contrapponendo alle incertezze e alle lacerazioni degli ordinamenti liberaldemocratici nell’epoca della globalizzazione dispiegata la solidità del sistema politico-istituzionale russo, e declinando a partire da essa il ruolo centrale che il suo paese si propone di giocare nei nuovi equilibri mondiali. 

La diagnosi di Putin è molto netta: la crisi dell’Occidente consiste nel fatto che il “liberalismo” non rappresenta più una base culturale adeguata per il bilanciamento tra libertà individuali e ordine/stabilità sociale, ma è diventato una cultura anarcoide, destabilizzante, entrando per questo “in conflitto con gli interessi della stragrande maggioranza della popolazione”. In particolare, Putin contesta all’ideologia liberale prevalente ai nostri giorni di fondarsi su un multiculturalismo a senso unico, sul libertarismo in campo sessuale (riferendosi esplicitamente all’agenda LGBT) e su una concezione lassista dell’ordine pubblico (contraria alla sua secondo la quale “ogni crimine deve avere una punizione”). 

Ora, è difficile negare che questa descrizione di una parabola del liberalismo verso un “dirittismo” puramente relativistico relativistico, sia pur molto sommaria, abbia una sua veridicità storica. Ed è altrettanto difficile negare che identificando questa mutazione Putin metta il dito su una contraddizione fondamentale venutasi a determinare nell’Occidente contemporaneo, che mina l’idea in esso prevalente di libertà: non è possibile tenere coesa una società se la cultura politica in essa prevalente rifiuta ogni legame comunitario e identitario anteriore ai diritti individuali e di gruppo, ai desideri e agli stili di vita dei singoli. 

Per comprendere meglio le radici di tale contraddizione, e il decorso della parabola richiamata dal leader russo, occorre innanzitutto ricordare che il termine inglese “liberalism”, al quale egli si riferisce, ha un significato diverso – soprattutto sul continente americano – da quello della parola italiana “liberalismo”, e coincide, più o meno, con quello che noi intendiamo per “progressismo”: l’idea che i diritti soggettivi rappresentino un’entità in continuo, indefinito ampliamento. Ma alle sue origini, nell’Ottocento, il liberalismo era qualcosa di molto diverso. Esso rappresentava innanzitutto la sistematizzazione della tradizione del costituzionalismo anglosassone, quella che nei secoli – attraverso le Carte dei diritti e le consuetudini giuridiche – aveva consolidato ordinamenti fondati sulla limitazione del potere politico attraverso il diritto e i contrappesi tra istituzioni diverse. E quella cultura della difesa della libertà umana dagli abusi, a sua volta, si fondava sulla concezione ebraica del patto tra governanti e governati, e su quella cristiana del valore assoluto di ogni vita umana in quanto creazione di Dio a Sua immagine e somiglianza. 

Il liberalismo, insomma, mantiene il suo significato originario soltanto se non si disconnette dalle proprie radici culturali, di civiltà e religiose. Un liberalismo non ebraico-cristiano ma agnostico rinnega se stesso. Ordinamenti fondati sulla libertà possono reggersi solo se una società vive “come se Dio esistesse”, a prescindere dalle convinzioni e fedi individuali. Si può affermare, come nella Dichiarazione di indipendenza americana del 1776, che tutti gli uomini sono uguali e dotati di diritti inalienabili soltanto se si premette, come nella Dichiarazione stessa, che sono stati creati uguali. Solo questo dà alle loro vite un valore assoluto. 

Allo stesso modo, un liberalismo sconnesso dalla storia di una nazione, astrattamente cosmopolita, applicabile automaticamente ad ogni comunità e ad ogni civiltà, è una contraddizione in termini. Quelli rivendicati  dai parlamenti contro l’assolutismo degli Stuart erano non diritti astratti, ma i “native rights” degli inglesi, l’eredità della loro storia. E quando in Europa si rivendicarono le costituzioni come garanzia di libertà si cercò sempre una sintesi tra esigenze comuni alla natura umana in quanto tale e una specifica appartenenza, uno specifico spazio all’interno del quale quelle libertà potessero essere assicurate, una specifica autorità che di quelle esigenze avrebbe dovuto essere garante. 

Quando, nel corso del Novecento, si cominciò a declinare il liberalismo  come “liberalism” nel senso che la parola assume in America, cioè come serbatoio potenzialmente illimitato di diritti soggettivi, quelle radici, quella complessità e completezza di significati, quel fondamento etico-religioso si andarono rapidamente perdendo. Il “liberalism” si trasformò in ochi decenni in un integrale relativismo, in cui sempre più la libertà venne assimilata al desiderio, e la sacralità dell’essere umano venne confusa con la assoluta “autodeterminazione”, la illimitata facoltà per ciascuno di decidere la propria identità. 

Questa deriva, identificata sul finire del Novecento da Joseph Ratzinger come “dittatura del relativismo”, è stata alla base della disgregazione delle democrazie liberali occidentali, della perdita del loro fondamento identitario e comunitario, della loro incapacità di accordarsi sui propri princìpi fondamentali e di difenderli efficacemente. E’ questo il liberalismo al quale si riferisce Putin quando dice che esso è diventato “obsoleto”, e non può più “dettare niente a nessuno”. 

Putin non si può considerare un liberale in nessuna accezione del termine. Nella sua visione della politica, speculare a quella del progressismo soggettivistico occidentale, la comunità prevale     decisamente sull’individuo, e il principio di autorità incarnato dalla  nazione e dalle istituzioni che ne incarnano la sovranità dispone sostanzialmente, in ogni “stato di eccezione”, degli spazi di libertà dei governati: temperato sì dalla democrazia, ma pur sempre da una democrazia “sorvegliata”.

Sarebbe dunque superficiale, da parte di chi in Occidente si riconosce nella tradizione del costituzionalismo liberale, pensare che il “putinismo” possa offrire alle democrazie liberali in crisi un modello alternativo di ordinamento che non sia la negazione, per molti versi, delle premesse poste da quella tradizione. 

E tuttavia, sarebbe parimenti un grave errore delegittimare, trascurare o minimizzare la critica che Putin, dal suo particolare punto di vista, pone agli esiti critici della nostra “storia della libertà”. 

Quella critica – come quelle di altri intellettuali russi anche più lontani dal liberalismo occidentale in ogni sua accezione, come Solženicyn o Dugin – dovrebbe servirci per riportare il liberalismo alla sua fonte originaria. Per riformulare, cioè, la differenza profonda ed inconciliabile tra il progressismo relativista oggi divenuto ideologia egemone delle élites occidentali e il liberalismo autentico: la difesa della sacralità dell’essere umano sulla scorta dell’ebraismo, del cristianesimo e della tradizione giuridica e istituzionale delle nazioni.