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Sul Domenicale del 22 luglio il coordinatore nazionale di Forza Italia Sandro Bondi ha prospettato una nuova fase politico-organizzativa per il suo partito: «[…] si tratta di una fase in cui alla centralità del leader occorre affiancare una strutturazione organica e strutturale di partito, in modo che il carisma democratico di Berlusconi attivi, tuteli e garantisca un processo di riforma interno a Forza Italia».

Il problema ha un’urgenza oggettiva. Bondi pone in tempo politicamente ancora utile la necessità di salvare la sostanza dell’esperimento rappresentato da Forza Italia al cospetto dell’ineluttabile trascorrere delle stagioni politiche e del naturale attivarsi dei processi di successione generazionale. Per ciò che Silvio Berlusconi ha rappresentato e rappresenta nella storia d’Italia, il problema assume, però, una dimensione che travalica i confini della storia di un singolo partito. Si tratta di comprendere, in realtà, se la rivoluzione carismatica dei partiti inaugurata nel 1994 attraverso la fondazione di Forza Italia potrà consolidarsi e proseguire. O se, invece, il pendolo che ha scandito i cambiamenti delle forme politico-organizzative inizierà il suo percorso a ritroso racchiudendo l’esperimento di Forza Italia tra parentesi.

L’alternativa presenta risvolti politico-culturali di grande momento. La loro portata investe la storia politica dell’Occidente degli ultimi due secoli, non meno della vicenda politica italiana dal dopoguerra a oggi. È bene portare alla luce questo retroterra per comprendere il carattere non solo contingente della sfida alla quale Forza Italia, a prescindere dalla sua stessa volontà e dalle sue consapevolezze, nei prossimi anni sarà comunque chiamata a rispondere.

Il modello continentale

C’è un mito da sfatare, innanzitutto. È quello che i partiti politici moderni siano sorti come derivazione dal modello socialdemocratico che nel suo esempio più alto – quello dell’Spd tedesco – si era dato il compito di integrare l’aderente in una sorta di piccolo stato nello Stato dotato di obbligazioni alternative a quelle ufficiali, di una propria organizzazione della socialità, di una gestione separata del tempo libero e dei divertimenti. Persino l’inizio e la fine della vita non sfuggivano all’invasione di questa tipologia di partito, in quanto l’organizzazione di battesimi e funerali rientrava a pieno nei suoi compiti.

Questo modello di partito, che la politologia ha battezzato con il nome di “partito d’integrazione sociale di massa”, si è caratterizzato per la preminenza della figura del funzionario e l’osmosi tra la leadership politica e gli organizzatori interni. In altri termini: chi voleva contare in politica non poteva fare a meno di porsi come primo problema quello di controllare il suo proprio partito.

Come s’è detto, a lungo si è creduto che questo fosse l’archetipo del partito moderno. Ma non è così. I partiti dotati di una macchina organizzativa non sono nati sul Vecchio Continente, bensì nel mondo anglosassone: negli Stati Uniti e poi in Gran Bretagna. Essi, pur dovendo rispondere ad alcuni compiti legati all’allargamento della partecipazione politica, a differenza di quelli continentali, si sono caratterizzati per il loro ruolo ancillare nei confronti delle istituzioni ufficiali dello Stato (in particolare del Parlamento), nonché per configurarsi come strumenti organizzativi, anche molto sofisticati, a servizio di un leader.

Ben presto tra i “partiti carismatici” di marca anglosassone (in particolare inglese) e i “partiti di massa” continentali si attivò un confronto a distanza, senza che fosse scontato quale delle due forme sarebbe infine prevalsa. All’inizio del Novecento, quando Robert Michels tradusse in una fortunata formula sociologica (la “legge ferrea delle oligarchie”) le sue lagnanze di militante dell’Spd, scontento per la mancanza di democrazia interna, il suo maestro Max Weber gli scrisse che esisteva un’alternativa agli oligarchi socialdemocratici che, fattisi custodi dell’ideologia, erano di fatto divenuti i padroni del partito. Ma questa non la si sarebbe dovuta cercare nell’impossibile democratizzazione del “partito di massa”, bensì in un’importazione del modello carismatico che si era affermato nell’Inghilterra di Gladstone e Disraeli.

Weber, più tardi, si lasciò andare a una profezia: tra il partito degli organizzatori, quello dei notabili e quello dei leader carismatici, infine, sarebbe stato quest’ultimo a prevalere. Più precisamente, nei sistemi politici moderni si sarebbe stabilito un accordo tra il leader e gli organizzatori a scapito dei notabili. I funzionari di partito, infatti, avrebbero trovato nel leader un insostituibile veicolo del messaggio politico presso l’elettorato, e il leader, da parte sua, si sarebbe servito dell’apparato per diffondere e rendere popolare il suo carisma. A scegliere, infine, sarebbero stati gli elettori. Ed è a questo che avrebbe dovuto mirare chi aveva a cuore lo sviluppo democratico, anziché prestare orecchio ai lamenti sulla mancanza di democrazia interna ai partiti.

Weber formulava queste previsioni agli inizi degli anni Venti. C’è da chiedersi, allora, perché mai sul Vecchio Continente si sia dovuto attendere per oltre cinquant’anni affinché la storia gli desse ragione. I motivi sono molteplici ma, storicamente, uno è certo preminente. E risiede nella circostanza che l’Europa continentale, a differenza del mondo anglosassone, ha conosciuto la lunga stagione dei totalitarismi. Questo tipo di sistema politico, che ha lasciato un segno indelebile nella storia novecentesca del Vecchio Continente, si è caratterizzato, tra l’altro, per la pretesa del partito di inquadrare e controllare la società civile. In alcuni casi – come nei regimi comunisti –, persino, d’acquisire un’importanza preminente sulla stessa organizzazione dello Stato. E questa pretesa egemonica non è venuta meno con la sconfitta dei regimi nazi-fascisti. Qualcosa dei partiti dell’era delle tirannie si è infatti trasferito in quelli della successiva stagione democratica anche, ma non soltanto, per la presenza, in molti sistemi dell’Europa continentale, di partiti comunisti che, almeno per il periodo staliniano, sono stati piattaforme del nemico lanciate in territorio straniero.

L’anomalia italiana e Berlusconi

Con il passare degli anni questo residuo di totalitarismo si è affievolito. In Europa però, la circostanza non si è verificata ovunque nel medesimo momento. Nella Germania Occidentale, per esempio, giocarono un ruolo fondamentale il prodursi quasi contemporaneo di tre fenomeni: lo scoppio della Guerra fredda con la conseguente costituzionalizzazione dell’esclusione dei comunisti; il varo di un sistema politico imperniato sulla figura del Cancelliere e l’assunzione di un ruolo carismatico da parte di Konrad Adenauer. In Francia, invece, per assistere alla definitiva sconfitta del partito di massa si dovette attendere il ritorno di Charles de Gaulle al potere e il varo della V Repubblica. In Italia, infine, il “partito d’integrazione sociale” ha potuto approfittare di un più lungo periodo d’egemonia. Le ragioni sono molteplici: presenza del più forte partito comunista occidentale che, di fatto, ha funto da modello di riferimento per le atre organizzazioni partitiche; posizione geo-politica di frontiera nel conflitto Est/Ovest; conseguente necessità di trovare una forma di coesistenza pacifica che potesse condurre verso il superamento della logica binaria maggioranza/opposizione. Per tutti questi motivi è accaduto che il “blocco” consensuale del sistema necessitasse di strumenti in grado di favorire lo scambio consociativo.

E questi strumenti – almeno fino agli anni Settanta – sono stati identificati in partiti tendenzialmente di massa con una forte propensione al controllo della dinamica sociale. La loro potenza ha fatto sì che in Italia fossero avvertiti in ritardo persino gli effetti del progresso tecnico sulle forme dell’organizzazione politica. Non casualmente, la televisione giunse a stravolgere leggi e abitudini consolidate della lotta politica almeno un decennio dopo rispetto agli altri sistemi politici occidentali: solo negli anni Ottanta.

Nel corso di questo decennio, poi, la turbinosa evoluzione di una società civile rimasta troppo a lungo ingessata in schemi pre-moderni portò quei partiti a prendere la strada del declino, conquistati dall’interno da lobby politico-affaristiche in grado di segmentare e moltiplicare i momenti dello scambio. Ne derivò, tra l’altro, un aumento esponenziale della corruzione che s’incanalò nei simulacri di quelli che, una volta, erano stati partiti di massa. Questa dinamica ha indebitamente portato a identificare in quei simulacri nuove espressioni carismatiche – come quella craxiana – da criminalizzare. Si era al cospetto, invece, di una fase di cambiamento, tanto più tumultuosa in quanto troppo a lungo la realtà dei partiti e il loro ruolo avevano subito le conseguenze di un blocco artificiale. E la criminilazzazione del partito socialista craxiano appare, retrospettivamente, come l’ultima raffica di Salò che i partiti tradizionali fecero esplodere contro chi ne aveva messo in discussione l’egemonia. Di fatto, affinché un partito di tipo nuovo, carismatico senza più complessi, si affermasse in Italia, è stato necessario attendere la fine del comunismo, il consumarsi di Tangentopoli e l’avvento di Berlusconi. Allora s’inaugurò il tempo delle polemiche sul partito di plastica. E quello della previsione che in Forza Italia non si sarebbe mangiato il panettone. E poi quello dell’ipotesi, contrabbandata come certezza e reiterata per oltre un lustro, che il successo di quel tipo di partito fosse dovuto alle televisioni del “padrone”.

Dopo dodici anni queste e altre consimili congetture sono state confutate dalla durata. Tant’è che oggi le indagini politologiche in tema di partiti cercano di determinare quale sia stata l’influenza indiretta che il modello carismatico interpretato da Forza Italia abbia esercitato sulle altre forme organizzative: persino su quelle più debitrici della tradizione come i Ds e Rifondazione comunista. Affinché, però, la sfida della durata possa dirsi definitivamente vinta, e gli avvoltoi definitivamente allontanati, è necessario che Forza Italia (o la sigla che ne prenderà l’eredità) si dimostri in grado di gestire il passaggio dalla stagione del fondatore a quella dei suoi successori. Questa fase, per concludersi positivamente – anche su questo punto ha ragione Bondi – dev’essere interpretata come un processo di lenta devoluzione e non come un evento traumatico e men che mai come uno scippo. Perché ciò accada è necessario che una serie di problemi sorti nel frattempo all’interno del partito, che la presenza di Berlusconi è stata in grado di relativizzare, vengano posti con l’intento di risolverli. Solo in tal modo l’elemento carismatico del partito potrà essere oggettivizzato e si potrà consegnare al Paese il consolidamento d’un cambiamento politico che in Italia ha rappresentato una vera rivoluzione.

L’oggettivizzazione del carisma

Affinché il cambiamento carismatico si oggettivizzi, la volontà di un solo partito potrebbe non bastare. Alcuni problemi, infatti, possono trovare soluzione solo nell’ambito del sistema politico e, quindi, al livello di legislazione generale. Tre esempi, tra loro connessi, chiariranno il concetto.

L’Italia è uno dei pochi Paesi nel quale non vige una legge regolativa di alcuni aspetti della vita interna ai partiti, che stabilisca delle garanzie minime per gli iscritti. Anche se ormai più nessuno nega la funzione pubblica dei partiti ed essa è generalmente considerata più rilevante di quella delle società commerciali, non per questo, però, ci si preoccupa di fissare uno statuto pubblico dei partiti. È questo, al contempo, un residuo della Guerra fredda e di anti-statalismo. Il primo rimanda al tempo nel quale il partito comunista temeva che una normativa pubblica potesse rappresentare il cavallo di Troia del potere costituito per mettere sotto controllo i suoi rapporti politico-militari e finanziari con l’Urss; il secondo, invece, richiama il tempo nel quale il ruolo dei partiti era considerato succedaneo e non subordinato rispetto a quello dello Stato, anche perché si faceva fatica a confessare che i partiti servissero, essenzialmente, all’obiettivo della conquista del potere. A causa di quest’assenza di una regolamentazione pubblica si è assistito, tra l’altro, al fiorire di “primarie fai da te” funzionali a esigenze politiche più o meno legittime, senza che nessuno si sia preoccupato della vera questione rappresentata dalle garanzie giuridiche per gli iscritti.

Questa carenza si riflette su un altro problema sistemico aperto: quello della legge elettorale. Non è questa la sede per entrare nel merito della scelta tra sistema proporzionale e maggioritario (questione che non andrebbe posta in astratto, in quanto la scelta di un sistema elettorale è sempre empirica e approssimativa). Quel che si vuole affermare, invece, è che la torsione carismatica dei partiti è stata agevolata dal progressivo venir meno, nell’ultimo ventennio, delle preferenze: un tempo strumento dei “notabili” e oggi di lobby trasversali che intendono approfittare della crescente debolezza dei partiti. Anche se la campagna per la loro reintroduzione è formalmente portata avanti in nome del diritto di scelta dell’elettore (il quale, invece, è generalmente più interessato a giudicare una proposta politica incarnata da una leadership chiaramente identificabile) essa copre, in realtà, l’obiettivo più difficilmente confessabile di indebolire ulteriormente i partiti e, soprattutto, condizionare il potere dei leader. Sul punto è necessaria chiarezza: se non si vorrà tornare indietro, la responsabilità di proporre candidature e di determinare in larga misura la propria rappresentanza istituzionale deve restare in capo ai partiti. Questi, in compenso, dovranno dare garanzie di rispettare criteri stabiliti dalla legge nell’assolvere a tale loro compito primario.

Infine, si pone il problema del rapporto tra partiti di tipo carismatico e rappresentanze locali. Anche in questo caso si sconta un disordine di tipo sistemico. Perché l’elezione diretta delle rappresentanze locali non è stata in grado di garantire da sola l’auspicabile depoliticizzazione del livello amministrativo (riparare una strada o assicurare la sicurezza pubblica non è, infatti, né di destra né di sinistra). D’altro canto, proprio la debolezza dei partiti ha consentito la formazione di potentati personali dotati di una notevole forza di ricatto sulla propria parte politica, senza che il partito abbia gli strumenti per controllare questa dinamica. Sono sempre più numerosi – sia a destra sia a sinistra – i casi di sindaci o presidenti di Regioni che si sentono investiti di un potere autonomo e che, al momento della scadenza del loro incarico, cercano di sfruttarlo minacciando la coalizione di appartenenza. A questa tendenza, evidentemente, solo una riconsiderazione di natura sistemica potrà porre rimedio.

Se questi esempi, direttamente o indirettamente, investono il ruolo di tutti i partiti all’interno del complessivo sistema politico, ve ne sono altri che pure concernono la sorte del partito carismatico, ma ai quali spetta rispondere specificamente a Forza Italia, soprattutto nella prospettiva di possibili allargamenti o patti federativi. Anche in questo caso ne segnaleremo tre, cercando di farne emergere le connessioni.

Il primo lo definiremo “dello scambio interrotto”. Come si è visto, nei modelli virtuosi, tra leader carismatico e organizzazione si stabilisce uno scambio politico fondato sulla convenienza reciproca. In Forza Italia, invece, la rilevanza del ruolo di Berlusconi e il fatto che il modello sia stato sperimentato in una fase di transizione sistemica sempre esposta al pericolo di restaurazioni, ha fatto sì che lo scambio non si sia attivato. In Forza Italia i voti appartengono in larghissima parte al leader carismatico e la sua presenza nella competizione è l’elemento decisivo per il risultato finale.

In questa situazione, i responsabili locali del partito, loro malgrado, si sono ri trovati a poter sfruttare questa condizione senza dare nulla – o quasi nulla – in cambio. Essi, assai spesso, hanno sequestrato il carisma del leader nazionale per gestirne il monopolio nell’arena locale. Questa situazione ha determinato la circostanza che, nella maggior parte dei casi, la loro effettiva preoccupazione è stata quella di allontanare dal partito potenziali concorrenti per poter restare gli intestatari unici del potere carismatico. L’aggregazione di nuovi soggetti, soprattutto se responsabili e di qualità, non avrebbe infatti modificato sensibilmente il risultato elettorale esterno troppo dipendente da Berlusconi e avrebbe rischiato, invece, d’indebolire il potere interno del suo rappresentante locale.

Scambi e opposizioni

Il secondo problema discende di conseguenza e lo si potrebbe definire “dell’eterna litania sulla democrazia interna”. A questa situazione di blocco, infatti, una delle reazioni più diffusa è quella di rivendicare una più ampia e maggiore democrazia interna. Di solito la richiesta viene da un personale politico il cui unico scopo è quello di sostituire in sella coloro i quali in quel determinato momento reggono le redini. Non a caso la richiesta di democrazia interna è fino a oggi stata sempre avanzata in nome di Berlusconi (quello che si pretenderebbe autentico, non edulcorato dai suoi profittatori) e mai legata a una proposta politica alternativa. In tal modo, paradossalmente, la mancanza di scambio si rafforza anche per il contributo degli oppositori. E si evita di porre il vero problema: legare la funzione interna al partito al raggiungimento di obiettivi precisi e controllabili, sia interni sia esterni, nonché stabilire durate e incompatibilità in grado di assicurare la circolazione interna delle élite.

Il terzo problema, infine, può dirsi “degli acquari asimmetrici”. Si tratta della variabile virtuosa del caso precedentemente esposto. Perché chi viene escluso dal potere interno evita – per convenienza o per stile – d’intonare la litania sulla democrazia interna negata, ha perlopiù reagito organizzandosi una propria struttura collaterale al partito: un circolo, un’associazione, una fondazione, un movimento. In ciò nulla di male, anzi: questa dinamica ha rappresentato una risorsa per Forza Italia perché di queste strutture se ne potrebbero classificare più di dieci. Quel che, invece, va rivisto è l’asimmetricità del loro rapporto con il partito. Essa, infatti, dipende quasi esclusivamente dal rapporto tra chi si fa promotore di tali iniziative e il leader, senza che intervenga la seppur minima disposizione statutaria a regolare il rapporto.

Appare evidente che tali anomalie potranno persistere senza mettere in forse il ruolo stesso dell’organizzazione partitica fino a quando il ruolo di leader carismatico sarà assicurato da Silvio Berlusconi. L’oggettivizzazione del carisma, invece, avrebbe bisogno di regole e soluzioni formali che consentano, al contempo, di riattivare lo scambio interrotto, di rispondere alla litania sulla democrazia interna e di far uscire i pesci dagli acquari incoraggiandoli a sfidare il mare aperto. Queste innovazioni sono tanto più importanti perché, dopo un periodo durato quasi un ventennio, durante il quale la televisione ha esaltato il significato del contatto diretto tra premier ed elettorato, è ora in atto un ritorno a contatti interattivi più diffusi e ravvicinati. Il ruolo svolto in tal senso da internet, e in particolare dai blog, è emblematico.

Anche il partito carismatico, insomma, è destinato a evolversi come un tempo è accaduto a quel partito di massa che in tanti avevano ritenuto insuperabile. E Forza Italia, se vorrà continuare a svolgere il compito di vedetta della modernità, deve fare in tempo quel che serve per farsi trovare pronta all’appuntamento.