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Il referendum confermativo sulla riduzione del numero dei parlamentari si sarebbe potuto evitare. Certo, il taglio di deputati e senatori è stato voluto per ragioni indubbiamente non nobili: risparmiare qualche stipendio, fare un po’ di retorica a buon mercato sulle “poltrone”, screditare il Parlamento. Porrà qualche problema, emendabile attraverso la legge elettorale, alla rappresentanza dei territori. Ma non è una tragedia, anzi potrebbe persino diventare un’opportunità.

Provo a spiegarmi. Il Movimento 5 Stelle, originariamente, aveva immaginato questa riforma abbinata all’introduzione del referendum propositivo. Il combinato disposto dei due provvedimenti avrebbe di fatto provocato la paralisi del Parlamento a favore di forme un po’ sconclusionate di democrazia diretta.

Il referendum propositivo di per sé è un istituto difficile da regolare ma non un tabù. Così com’era stato formulato nella proposta del governo giallo-verde, però, si configurava come una vera e propria bestemmia nei confronti del parlamentarismo: nessun limite di materia, nessun limite al numero di referendum proponibili, meccanismi tesi a interdire l’iniziativa parlamentare in pendenza dell’iter referendario (LEGGI QUI L’ARTICOLO SUL REFERENDUM PROPOSITIVO). Va da sé che, lungo questa deriva, il taglio dei parlamentari avrebbe assunto il significato di un ulteriore schiaffo assestato all’istituto parlamentare.

Una delle poche cose buone fatte dal governo attuale, succeduto a quello giallo-verde, è stata quella di scindere la sorte delle due riforme. La riduzione dei parlamentari ha concluso il suo iter; il referendum propositivo è stato bloccato. In questo nuovo contesto, il passaggio da un Parlamento di circa 1000 componenti ad uno di 600 cambia di segno e, addirittura, può trasformarsi in un’occasione per riformare e rilanciare la democrazia rappresentativa.

La teoria della rappresentanza, infatti, non è il libro dei dogmi e possiede l’elasticità per adattarsi a differenti contesti storici. Oggi, al tempo dei sondaggi, della rete e dei nuovi media con il loro corredo di like, se la democrazia rappresentativa vuole resistere e confermarsi un cardine della democrazia liberale deve velocizzare il tempo di produzione della decisione, rendere più “performante” il circuito “legislativo-esecutivo”, trovare forme d’integrazione con istituti ben congegnati di democrazia diretta. In tal senso, Camere più snelle rappresentano un indiscutibile vantaggio: soprattutto se la riduzione viene immaginata come il presupposto per una più ambiziosa riforma del parlamentarismo.

Si potrebbe immaginare una revisione dei regolamenti (della Camera senz’altro ma anche del Senato, sebbene l’ultimo cambiamento sostanziale risalga solo alla scorsa legislatura) per adeguare il funzionamento di Assemblee e Commissioni ai nuovi numeri. Si potrebbe, ancor più, pensare una riforma del bicameralismo che conduca a un assai più intenso lavoro comune (fiducia, decreti, trattati si potrebbero affrontare in seduta congiunta), avvicinando il nostro bicameralismo alla proposta che a suo tempo formulò Leopoldo Elia, al secolo nota come “la culla”, che tendeva a coniugare la risorsa di una camera di riflessione supplementare con l’efficienza derivante da un assetto di regola monocamerale.

Questo referendum si sarebbe potuto evitare. Ma, visto che si deve svolgere, piuttosto che interpretarlo come uno scontro tra demagogia e conservazione cieca, tanto vale che quanti considerano la politica ancora una risorsa s’impegnino affinché da esso possa prendere avvio una riforma ancora più ambiziosa, che rigeneri la rappresentanza e dia nuova linfa al parlamentarismo.