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Pubblichiamo l’introduzione (a firma di Fabio Grassi Orsini) e uno degli interventi (a firma di Gaetano Quagliariello) del numero 26 di Ventunesimo Secolo:

Introduzione

di Fabio Grassi Orsini

La memoria della patria: anniversari a confronto. Il cinquantenario: il “genetliaco della nazione” all’insegna del patriottismo e dell’orgoglio nazionale

Si sta oramai concludendo il centocinquantesimo anno dell’Unità d’Italia ed è forse ancora presto per fare un bilancio delle celebrazioni che lo hanno accompagnato. Una considerazione sembra potersi fare: il paragone tra il 2011 da una parte, e il 1911 e il 1861 dall’altra, non regge al confronto. Il cinquantenario della proclamazione del regno venne solennizzato in modo trionfale nel segno del patriottismo. Per quanto non fosse stata ancora completata l’unificazione del paese, con il ricongiungimento alla madre patria delle “terre irredente” lo Stato liberale era oramai un fatto consolidato e generalmente legittimato dal consenso popolare. Il sistema politico-istituzionale era pienamente rappresentativo e avviato, con l’allargamento del suffragio che di lì a poco sarebbe divenuto quasi generale (con l’esclusione del voto femminile di cui si discusse senza arrivare ad un risultato) a divenire una democrazia, anche se una “democrazia in cammino”.

Oramai il take off era in una fase avanzata e le relazioni industriali si svolgevano in un clima decisamente favorevole, a partire dalla svolta di inizio di secolo; esso divenne ancora più disteso dopo il fallimento dello “sciopero generale” del 1904, per effetto della legislazione sociale dei governi liberali che si erano succeduti.

Per quanto la questione meridionale fosse ancora aperta, e il mondo contadino fosse di quando in quando scosso da improvvise agitazioni, il divario tra Nord e Sud si andava riducendo, anche in conseguenza delle leggi “speciali” e degli investimenti nelle infrastrutture (ferrovie, strade, porti) che mancavano al momento dell’Unità. La piaga dell’analfabetismo era in via di graduale superamento. Nonostante perdurasse l’esodo di massa dal Mezzogiorno verso le Americhe, erano stati presi provvedimenti per la tutela dei migranti e si erano create istituzioni ad hoc come, ad esempio, il Commissariato per l’Emigrazione. Le condizioni socio-economiche e sanitarie erano notevolmente migliorate. L'”Italietta” era oramai divenuta una grande potenza anche se “la più piccola delle grandi potenze” ed era in procinto di sbarcare sulla “quarta sponda”, estendendo alla Libia il suo piccolo “impero” africano. Luigi Einaudi nell’aprile del1911 scriveva in proposito: «I cinquant’anni decorsi dall’unificazione cambiarono la faccia all’Italia economica e politica» (Cronache Economiche e Politiche, 1893-1925, vol. III, Torino 1969, pp. 221 e segg.).

Ne conseguiva che l’Italia, oramai adulta, approfittava del “genetliaco della nazione” per fare, con soddisfazione non priva di orgoglio, il bilancio dei suoi primi cinquant’anni di vita. Le celebrazioni ufficiali si svolsero con solennità nelle tre capitali storiche (Torino, Firenze e Roma). A Roma si tennero due grandi mostre: la Mostra etnografica delle regioni e la Rassegna Internazionale di arte contemporanea di Valle Giulia di cui restano i padiglioni esterni divenuti, in seguito, accademie e istituzioni culturali straniere, e il Museo di arte moderna e contemporanea all’incremento delle cui dotazioni il governo collaborò con un generoso contributo. Nell’occasione furono realizzati importanti monumenti come il Vittoriano e opere pubbliche come il ponte Vittorio Emanuele II.

Il centenario: celebrazioni in tono minore ma un’occasione per ripensare il passato aldilà delle contrapposizioni

In un’atmosfera molto diversa da quella del cinquantenario ma in un clima costruttivo si svolsero le celebrazioni del centenario. L’Italia era uscita da una guerra perduta che aveva avuto enormi costi in termini di perdite umane, sia civili che militari, e di distruzioni materiali che riguardavano sia il patrimonio immobiliare che il potenziale industriale. Il paese aveva dovuto subire un’occupazione militare da parte degli alleati nel Sud e una guerra civile nel Centro-Nord. Ne era uscita con la cobelligeranza, con la partecipazione alla guerra di liberazione e con la guerriglia partigiana ma aveva dovuto accettare un trattato di pace umiliante che era un vero e proprio diktat.

Ma nel 1961 la ricostruzione era già avvenuta e l’economia era in piena ripresa avviandosi verso un vero e proprio boom economico. La società aveva riacquistare fiducia in se stessa, nonostante le divisioni in schieramenti contrapposti che riproducevano la frattura tra Occidente e mondo comunista. Rosario Romeo osservava che, nel 1911, la memoria risorgimentale era viva ed operante mentre cinquant’anni dopo il sentimento patriottico aveva subito un appannamento e l’anniversario fu vissuto con distacco non solo da parte delle masse ma anche da parte delle classi dirigenti (R. Romeo, «Il Resto del Carlino», 25 marzo 1960). Ciò fu dovuto anche ad una reazione verso la retorica nazionalista di cui il fascismo aveva fatto largo uso. Le celebrazioni si svolsero in tono minore rispetto a quelle grandiose del 1911 ed ebbero il loro principale centro a Torino considerata la “culla del Risorgimento”.

Nella vecchia capitale sabauda si tennero tre grandi esposizioni: una Mostra storica sull’Unità d’Italia a Palazzo Carignano, la sede del Parlamento subalpino; una Mostra delle regioni, una Esposizione internazionale del lavoro. La parte ufficiale delle celebrazioni ebbe luogo a Roma dove venne convocato il Parlamento a Camere riunite per ascoltare un messaggio del presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, che fece un collegamento tra il Risorgimento e la Resistenza intesa come “secondo Risorgimento”. Nella stampa comunista (Ragionieri, Manacorda) tale collegamento venne ripreso, il che costituiva un passo avanti rispetto all’interpretazione gramsciana del Risorgimento come “rivoluzione tradita”.

In quella occasione venne però ribadita la tesi che la Resistenza era l’evento fondante della Repubblica perché aveva realizzato quell’integrazione delle masse nello Stato che il Risorgimento aveva fallito. D’altra parte anche i socialisti, pur distaccandosi da quella interpretazione e rilevando che il Risorgimento era un avvenimento nazionale e popolare importante, ritenevano che non meritasse né le esaltazioni ufficiali né di essere passato sotto silenzio. Con l’occasione ricordavano che pur non avendo partecipato al movimento unitario (anche perché il partito era stato fondato nel 1892) avevano dato, a partire dai primi anni del Novecento, un grande contributo alla costruzione di uno Stato moderno e all’ integrazione delle masse nello Stato attraverso le lotte proletarie. In quell’occasione il revisionismo cattolico sembrò attenuarsi, anche per effetto del ruolo di governo che la Dc esercitava. La “difesa del Risorgimento” fu affidata a Rosario Romeo il quale, in un articolo per il «Carlino», aveva invitato la nazione a fare un esame di coscienza e a non perdere quella occasione per fare un bilancio dei primi cento anni prendendo in considerazione le realizzazioni compiute e le speranze, invece, deluse: a lui si aggiunsero altre grandi firme come Luigi Barzini e Manlio Lupinacci che scesero in campo per rivendicare i meriti dell’ unificazione. Dopo di che il Risorgimento entrò in un cono d’ombra da cui è uscito solo in prossimità della scadenza del centocinquantenario.

Il centocinquantenario: una festa contestata con un happy end

In occasione del centocinquantenario, Galasso, in un articolo sul «Corriere della Sera» (L’Alibi del Risorgimento, 11 aprile 2011), scriveva che se le celebrazioni furono circondate da «un generale consenso con poche dissonanze», con la crisi della prima Repubblica si era dato l’avvio non tanto a una revisione quanto a un vero e proprio processo all’Unità mosso da intenti politici. Inutile ricordare le polemiche antirisorgimentali di cui la Lega fu protagonista non solo sul terreno storico (Miglio) ma anche sul piano politico con la minaccia della secessione in parte rientrata dinanzi alla prospettiva del federalismo e che non poterono non riflettersi anche sulle celebrazioni. Più recentemente abbiamo assistito a un inquietante fenomeno di risveglio filo borbonico nel Sud.

Tra lo scorcio del 2010 e l’inizio del 2011 sono usciti in libreria alcuni volumi di serena e obiettiva ricostruzione delle vicende risorgimentali e dei suoi protagonisti[1]. Ma quelli che hanno fatto più rumore sulla stampa e i mass media sono stati alcune decine di titoli che esprimevano critiche radicali nei confronti del Risorgimento, rimettendo in discussione i vantaggi dell’unificazione e la sua opportunità, negandone le motivazioni ideali. E, in questo quadro, hanno cercato di trasformare quella che era stata una guerra di liberazione dal regime borbonico in una impresa coloniale, giungendo perfino a rivalutare anche quel governo oppressivo contro cui essa era diretta. Tra i temi su cui più si è insistito c’è stata la spoliazione della Chiesa e la rivalutazione del brigantaggio come un movimento di resistenza contro lo sfruttamento piemontese, con l’intento di scrivere una nuova “controstoria” del Risorgimento che non ha nulla di originale perché riprende le contemporanee tesi legittimiste e ultraclericali. Nei mesi che precedettero il17 marzo, quando il governo, non senza contrasti interni, proclamò la data festa nazionale questa decisione fu lungi dall’essere generalmente ben ricevuta: accanto ai favorevoli che la ritenevano un atto dovuto e una necessaria manifestazione di patriottismo, molti furono coloro che si opposero alla istituzione della festa mettendone in discussione l’opportunità, considerando il Risorgimento un avvenimento lontano senza più significato; altri ancora la accolsero con rassegnazione dichiarando che non si sarebbero astenuti dal lavoro. A ben riflettere non si trattò della riproposizione delle vecchie divisioni storiche di quelle forze che non avevano preso parte al moto risorgimentale e che avevano espresso critiche verso il Risorgimento, o avevano contestato le modalità dell’unificazione pur richiamandosi ad una tradizione risorgimentale.

Le divisioni che si manifestarono furono determinate dalle istanze separatiste emerse nella base della Lega che si è prestata ad un esercizio di doppiezza, approvando le iniziative ufficiali a livello di governo e lasciando la base esprimersi in senso critico; ciò che è stato più inquietante il risorgere nel Sud del borbonismo, rivitalizzato, dopo secoli di eclisse, come reazione alla Lega e sotto l’incalzare della crisi. Per quanto questi sentimenti siano espressione di minoranze che cercano di fare leva su argomentazioni prive di valore storico e anche di intellettuali alla ricerca di visibilità, non vanno sottovalutati politicamente perché rappresentano un grave segnale di pericolo per l’unità nazionale. Di queste divisioni se ne fece eco la stampa che ebbe inizialmente un atteggiamento incerto, anche se vi furono voci che si levarono a difendere le ragioni della commemorazione della “nascita della nazione”: Giovanni Berardelli sul «Corriere della Sera» dell’11 febbraio 2011 parlò, riferendosi alle critiche rivolte alla celebrazioni del 17 marzo, di «uno spettacolo surreale e un po’ triste» e Aldo Cazzullo invitò a riscoprire il patriottismo (Ritroviamo l’orgoglio di essere italiani, «li Corriere della Sera», 17 marzo 20011). Non mancarono, però, sullo stesso giornale articoli di taglio revisionista. Da parte sua, Mario Calabresi, in un articolo su «La Stampa», del17 marzo 2011, sostenne «che ricordare le conquiste, i sacrifici, le realizzazioni, i sogni e le delusioni dei nostri nonni è indispensabile per guardare avanti»; altri storici scrissero in senso critico, come Alberto Banti («Il Foglio», 11 dicembre 2010, Risorgimento Addio!) che giudicò inattuale il Risorgimento e non suscettibile di rappresentare un mito fondativo per la Repubblica perché esso aveva fornito al fascismo valori e simboli. Anche Emilio Gentile pubblicò un’intervista sul Risorgimento, uscita da Laterza, intitolandola Italiani senza padri, in cui ha sostenuto che il Risorgimento era senza eredi. Mentre infuriavano le polemiche, il comitato per il Centenario, presieduto da Ciampi, minacciava di naufragare nei contrasti, e in difesa del Risorgimento si levarono poche voci. La principale novità di questo centocinquantenario è che mentre nei giornali di Destra prevalsero, almeno inizialmente, le posizioni critiche nei confronti del Risorgimento, basti pensare agli articoli della Pellicciari come, ad esempio, quello comparso su «Il Tempo» del 17 marzo ma anche altri (I Savoia confinarono il Papa) che facevano seguito ad altri usciti nel 2010 sullo stesso quotidiano romano (Povera unità il 19 ottobre e Fra sangue e congiure il 17 dello stesso mese), la Sinistra, ribaltando le sue tradizionali riserve nei riguardi del Risorgimento fu più incline a prendere la festa e a mettere in sordina il tradizionale revisionismo. Ad ogni modo, se non ci fosse stato il colpo di barra dato dal presidente della Repubblica (con i suoi discorsi, da quello di Quarto del 2010 a quello a Camere riunite del 17 marzo 2011), la discussione si sarebbe trascinata finendo per dare l’impressione che non si volesse fare un bilancio per quanto critico del Risorgimento ma, anzi, si volessero mettere sulle spalle dei “padri della patria” gli errori e i vizi dell’Italia odierna. Non è che l’Italia sia stata “malfatta” ma sono gli italiani che, invece di “farsi”, minacciano con i loro comportamenti attuali di “disfare” ciò che con tanti sacrifici, lotte e sangue era stato fatto. Nel suo discorso del17 marzo, il Presidente troncava queste discussioni, oramai oltremodo sterili, dichiarando che «è largamente condivisa la convinzione che […] la memoria degli eventi che condussero alla nascita dello stato nazionale e la riflessione sul lungo percorso compiuto, possono risultare preziose per suscitare risposte collettive di cui c’è bisogno […] orgoglio e fiducia innanzitutto. […] Non lasciamoci paralizzare dall’ orrore per la retorica; per evitarla è sufficiente affidarsi alla luminosa evidenza dei fatti e l’unificazione ha rappresentato un’impresa storica straordinaria». Partendo da queste premesse, il capo dello Stato ha sottolineato come non furono élites minoritarie ma schiere di patrioti, aristocratici, borghesi, operai e popolani che combatterono mossi da un’aspirazione di libertà a compiere questa «opera ciclopica». E non c’è «discussione, pur lecita e feconda, sulle ombre, sulle contraddizioni e tensioni del movimento unitario che possa oscurare il dato fondamentale dello storico balzo in avanti che la nascita del nostro Stato nazionale rappresentò per l’insieme degli italiani». Fu, dunque, sotto la spinta del presidente Napolitano, con il coordinamento del Comitato nazionale, nonostante la partenza tardiva, che si è prodotta un’esplosione di iniziative nate “dal basso”, soprattutto per iniziativa di amministrazioni locali, istituzioni accademiche, associazioni culturali, biblioteche (nazionali e locali), molte delle quali di notevole livello (conferenze, mostre, inaugurazioni convegni) che hanno interessato quasi tutta l’Italia, dalle grandi città sino al più piccolo comune. Esse hanno dimostrato quanto, a livello locale, la memoria del Risorgimento e dei suoi protagonisti, grandi e minori, sia viva, in piena contraddizione con le riserve e le incertezze manifestate a livello centrale dalle autorità.

Un dovere etico-politico: ricordare il Risorgimento rivedendolo attraverso le lenti della critica senza cadere nel revisionismo

«Ventunesimo Secolo» non si poteva sottrarre a quello che considera, dati i suoi orientamenti culturali, un suo dovere etico-politico: dare un segno d’attenzione verso l’anniversario del centocinquantesimo. Lo abbiamo fatto dedicando all’avvenimento un numero speciale, partendo dall’idea che fosse necessaria una rivisitazione degli avvenimenti. Abbiamo perciò creduto opportuno che una ricostruzione storica non potesse andare esente da quella revisione che ogni generazione di storici è chiamata a compiere, perché la storiografia possa progredire, ma esprimendo una critica del revisionismo mosso da intenti politici. In questo non si può non condividere quanto scriveva Matteucci in un suo articolo per «Il Mulino» nell961, affermando che «il revisionismo era l’atteggiamento prevalente nel mondo moderno […] ma è politica in nuce e cioè non è comprensione del passato, ma soltanto programma d’azione»; e si domandava se «il revisionismo non fosse sterile non solo sul piano storiografico ma anche su quello politico». I tempi della ricerca sono, infatti, più lunghi di quelli della politica e quando i risultati di essa possono essere utilizzabili, le strategie politiche cui essa obbedisce sono oramai superate. Tenendo presenti queste riflessioni abbiamo organizzato questo numero speciale della rivista includendovi tre saggi di ricostruzione storica, altri due di carattere storiografico, dedicati alla critica del revisionismo risorgimentale e una rassegna bibliografica (La Nazione Unita. Biografie e ricerche nella recente storiografia italiana) a cura di Carmine Pinto. Il numero si apre con un intervento di Zeffiro Ciuffoletti che costituisce un’anticipazione della voce da lui scritta per il Dizionario del liberalismo, di prossima uscita. Si tratta di una brillante e problematica sintesi del processo unitario che si pone nel solco dell’interpretazione “classica” del Risorgimento in linea con quella dei De Ruggiero, degli Omodeo, dei Maturi, dei Morandi, dei Valsecchi, dei Ghisalberti, dei Matteucci e in continuità con la sua produzione storiografica in cui la storia del risorgimento ha una sua centralità. La rivisitazione che egli compie dell’età del Risorgimento, se tiene conto degli esiti della riflessione della “scuola liberale” sino alla magistrale lezione di Chabod, dà un giusto rilievo alle considerazioni della storiografia democratica (Salvemini, Rosselli) sino alle ultime “rivelazioni” di Salvo Mastellone su Mazzini. Zeffiro Ciuffoletti, nel disegnare questo panorama del Risorgimento, non può prescindere dal dibattito storiografico in corso e non risentire della crisi di identità che il paese ha vissuto e vive. Nel descrivere il difficile ma esaltante percorso del moto unitario, la cui la bussola è costituita dall’idea di nazione, le cui premesse si ritrovano nel romanticismo e nell’aspirazione alla libertà e alle riforme costituzionali che lo hanno contraddistinto e che affondano le radici nell’illuminismo, ne individua le tappe. Nella reazione al giacobinismo e alla dominazione napoleonica si rafforzano l’idea di nazione e l’aspirazione alla libertà e all’indipendenza. Ciuffoletti dedica una riflessione all’interpretazione di Cuoco sulla “rivoluzione passiva” e al drammatico rapporto tra intellettuali e masse. Fu questa incomprensione che causò il fallimento della “rivoluzione napoletana”; egli dà conto, a questo riguardo, dei giudizi di Foscolo, di Mazzini e di Pisacane. Tuttavia – ricorda opportunamente Ciuffoletti – che è nel “periodo francese” che sarebbe emerso un nuovo ceto borghese che fece le sue prime esperienze parlamentari, che fu un attore attivo della rivoluzione del1821 e che prese parte al movimento carbonaro e ai moti dei primi anni Trenta. La generazione seguente, figlia dei patrioti del1821, fu protagonista delle rivoluzioni del1848. Ma fu anche dalla reazione antigiacobina che si venne a sviluppare quel movimento moderato che, dinanzi al fallimento dei moti mazziniani e della alternativa neoguelfa, dette vita al moto unitario, rivolgendo le sue speranze verso la monarchia costituzionale del Piemonte liberale. Liberalismo, liberoscambismo, costituzionalismo e questione nazionale costituirono le linee guida del programma moderato di cui Cavour fu interprete dal 1852 e che portò a realizzare le riforme del 1854 -55 e alla soppressione degli ordini monastici nel quadro di un’ardita politica ecclesiastica. Attraverso il “connubio”, il “grande conte” riuscì a costituire una nuova maggioranza in grado di emarginare la Destra legittimista e clericale. Ma il suo capolavoro fu compiuto nella politica estera dopo la conclusione degli accordi di Plombierès, quando seppe sfruttare abilmente l’alleanza con Napoleone III, fare leva sull’interesse strategico dell’Inghilterra e volgere a suo favore la forza mobilitante di Garibaldi e del movimento democratico per abbattere il regno borbonico; infine riuscì ad annettersi l’Umbria e le Marche, non esitando ad invadere lo Stato pontificio.

Il 17 marzo di centocinquant’anni fa il più dell’unificazione italiana era compiuta: mancavano il Veneto e il Lazio. Cavour dimostrò, così, di essere uno dei più grandi statisti europei della sua epoca. Nel suo contributo, Carlo Ghisalberti, con efficace e rapida sintesi, ricostruisce la politica estera e interna del Piemonte, dalla “fatal Novara” sino alla proclamazione del Regno, mettendo in luce il ruolo di d’Azeglio il quale iniziò quella politica di riforme, poi completata da Cavour, alla cui abile diplomazia si deve tanto l’unificazione del paese, quanto il suo inserimento nel concerto europeo, compiendo un miracolo politico.

Il saggio che segue di Fabio Grassi Orsini è dedicato all’opera che Cavour compì negli anni del suo governo, favorendo l’evoluzione del modello istituzionale subalpino che, da un sistema costituzionale puro si trasformò in una monarchia parlamentare. In considerazione di ciò sembra necessario sfatare il luogo comune che il “connubio” sia stato il precedente del trasformismo: esso fu, invece, un’operazione per trasformare il vecchio sistema dei partiti in uno più moderno e creare una maggioranza efficiente il cui nucleo centrale era costituito dal “grande partito liberale”. Questo sistema gli sopravvisse e, malgrado fosse venuta meno la sua leadership carismatica, la Destra storica continuò a essere il partito dominante per un decennio: quando l’egemonia di questa maggioranza entrò in crisi fu possibile un’alternativa.

Il trasformismo non fu, dunque, un’invenzione di Cavour e per quanto si dimostrò utile in qualche fase della nostra storia parlamentare, non si può considerare una legge “ferrea” del parlamentarismo italiano. Il saggio di Gaetano Quagliariello, che chiude, questa sezione, ricostruisce il rapporto tra Chiesa e Stato e tra liberali e cattolici nel Risorgimento, partendo da una premessa: l’Italia è stata l’unica nazione dell’Occidente che si è formata contro la Chiesa (ma anche la Germania ha avuto il suo Kulturkampf) e, si può aggiungere che, secondo quanto riconosceva Silvio Spaventa, il partito liberale fu costretto a essere un partito conservatore e rivoluzionario insieme. Quagliariello ripercorre le fasi che i rapporti tra Chiesa e Stato hanno attraversato: alla iniziale, quella che definisce il “tempo dell’intransigenza” ne seguirono altre quattro. La prima fu quella in cui si produsse una lacerazione tra cattolici legittimisti e liberali-cattolici creatasi già a partire dalle leggi Siccardi e poi acuita dalla politica ecclesiastica separatista di Cavour e dei suoi successori che pur non avendo velleità anticlericali e tantomeno antireligiosi avevano difeso la laicità della politica come necessaria risposta alla posizione intransigentemente temporalista della Chiesa. Durante questa fase, che corrisponde al pontificato di Pio IX (il cui inizio fu “liberale”), a partire dal1848 i liberali si arroccarono in una politica separatista e la Chiesa si impegnò nella delegittimazione dello Stato contrapponendo la “Nazione cristiana” allo Stato liberale. La seconda fase ebbe inizio con il pontificato di Leone XIII, durante il quale illiberalismo fu sottoposto a un “doppio attacco”: dal lato dello Stato e, dal basso, attraverso una maggiore attenzione alla politica sociale tendente a minare il consenso delle masse nei confronti del regime liberale. Una terza fase è quella della “tentata integrazione” in cui il “mondo cattolico” presenta due diverse posizioni: una intransigente e un’altra conciliatorista. Quagliariello ripropone un’interpretazione che richiama quella spadoliniana ricostruendo i tentativi di superamento del dissidio: quello fallito di Crispi e la “conciliazione tacita” di Giolitti, che contribuì a rasserenare gli spiriti, a rendere possibile il superamento del non expedit e la collaborazione politica tra liberali e cattolici transigenti sino agli accordi Orlando-Cerretti che avevano posto le basi di una conciliazione formale tra lo Stato italiano e la Santa Sede. Una conciliazione che non poté realizzarsi a causa dell’imminente crollo della democrazia liberale. Diverso significato avrebbe assunto un accordo che avesse dichiarato chiusa la “questione romana” nel contesto di uno Stato liberale. La quarta fase è quella della “conciliazione formale”. I Trattati del Laterano, aldilà dei contenuti che non potevano non risentire del clima politico in cui furono stipulati, vennero stipulati in una diversa cornice istituzionale. Croce lo sottolineò in un passaggio del suo famoso discorso al Senato del 29 maggio 1929 che non sembra fuori luogo citare perché non vi siano dubbi su quello che era il suo pensiero, condiviso da molti liberali e da una parte non minoritaria di cattolici liberali: «Dichiaro anzitutto, perché non abbia luogo equivoco, che nessuna ragionevole opposizione potrebbe sorgere da parte nostra all’idea della conciliazione dello Stato Italiano con la Santa Sede […]. La legge delle Guarentigie avrebbe avuto il complemento della conciliazione se la Santa Sede l’avesse accettata o se, movendo da essa, avesse aperto trattative che non erano escluse e potevano essere coronate da accordo. I ripetuti tentativi fatti nei decenni, dall’una e dall’altra parte, comprovano la tendenza a mettere fine a un dissidio che apportava danni o inconvenienti dall’una e dall’altra parte […]. La ragione che ci impedisce di approvare questo disegno di legge non è, dunque, nell’idea della conciliazione, ma unicamente nel modo in cui è stata attuata, nelle particolari convenzioni che l’hanno accompagnata e che formano parte del disegno di legge». Il filosofo liberale riteneva, infatti, che la politica ecclesiastica, inaugurata con il Concordato stipulato con il regime fascista, costituiva «l’abbandono di quella politica seguita per Ottant’anni dal Risorgimento e nell’Italia unita».

Alla sezione storica seguono, come si è detto, due contributi storiografici dedicati al problema del “revisionismo risorgimentale”. Roberto Pertici rileva come il Risorgimento sia stato, nel corso dell’Ottocento, e per gran parte del Novecento, al centro del discorso pubblico e come nei suoi confronti si siano definite le culture dei movimenti politici che se ne dichiararono eredi o che assumevano nei suoi confronti atteggiamenti critici. L’autore, nel suo saggio, isola in questo dibattito il concetto di “revisionismo risorgimentale” e ne riscrive la parabola, iniziando il suo excursus dall’opera di Alfredo Oriani per arrivare a Gobetti, il cui debito verso Oriani era grande e riconosciuto: Gobetti riprese il tema del “revisionismo risorgimentale” nella sua critica all’età giolittiana ma, in realtà, a tutta la storia dell’Italia unita, nel tentativo di rifondare illiberalismo in chiave di “rivolta” contro l’arretratezza italiana. Con l’avvento del fascismo vi è una ripresa dell’arianesimo: “revisionismo risorgimentale” manifesta una sua vitalità nella cultura della “sinistra fascista”, mentre il regime ufficiale mette in opera una strumentalizzazione del Risorgimento in chiave nazionalista. La storiografia antifascista si schierò decisamente in “difesa del Risorgimento” (Croce, Omodeo, Maturi, Salvatorelli e Spellanzon). Ciononostante il revisionismo antirisorgimentale si manifestò anche dopo la liberazione: basti pensare all”‘antistoria d’Italia” di Fabio Cusio, scritta tra il1943 e il1944, e pubblicata nel1948. Pertici non fa a meno di ricordare come, sul versante democratico, il revisionismo risorgimentale sia stato un punto di forza della cultura azionista mentre fu la polemica gramsciana contro il Risorgimento a dettare gli orientamenti della storiografia marxista. Sulla sponda cattolica vennero recuperare, dalla sinistra democristiana, le tradizionali critiche della corrente intransigente verso lo Stato liberale sino alla conversione ad un atteggiamento più positivo sulla linea neo sturziana di cui Gabriele De Rosa fu il principale esponente. Perrici mette, poi, in luce il revisionismo-antirevisionista di Del Noce e il dibattito con Matteucci e conclude valorizzando la “svolta”, costituita dai saggi di Romeo sul Risorgimento e dalla grande biografia di Cavour che chiudeva quella stagione del revisionismo.

Paolo Varvaro, nel suo saggio ricostruisce la formazione del mito del “secondo risorgimento”, nato come reazione alla strumentalizzazione fascista del Risorgimento (in parte ripreso dalla Repubblica di Salò). Nella Resistenza il precedente del “primo Risorgimento” veniva invocato per legittimare la guerra di liberazione nazionale, ma in chiave popolare e rivoluzionaria e non certo come rivalutazione del liberalismo moderato. Gli stessi liberali, richiamandosi alle più gloriose tradizioni del Risorgimento, non intendevano chiudersi nel passato e volevano presentare il loro partito come un “partito giovane” (Mario P annunzio, Il partito giovane, «Risorgimento liberale», 29 agosto 1944). Pur richiamandosi ai principi del liberalismo cavouriano, a Giolitti e ad Amendola, gli esponenti liberali, autori degli opuscoli editi nel periodo clandestino, definivano le linee di un “nuovo liberalismo”. Alla Consulta, come ricordato da Varvaro, Croce prese posizione contro Parri a difesa della democrazia pre fascista, erede del Risorgimento, e lo stesso Salvemini, che era stato così critico dell'”Italietta liberale” e del giolittismo ne ammise la superiorità nei confronti del regime fascista. Varvaro ritiene, tuttavia, che nella “prima Repubblica” il patriottismo risorgimentale fosse oramai in disarmo. Da parre sua Pertici osserva che nella fase finale della “prima Repubblica” il revisionismo ami risorgimentale aveva perso il suo vigore come motivo conduttore della politica culturale dei partiti di massa che non avevano partecipato al moto unitario.

Il numero si conclude con la rassegna di C. Pinto che prende in esame la Biografia di Cavour di A. Viarengo, il Cavour e Bismarck di G.E. Rusconi, il Mazzini di G. Berardelli, il Murat di R. De Lorenzo, Il Risorgimento in Esilio di M. Isabella, I piccoli cospiratori di A. Arisi Rota, L’eredità di Mazzini tra Risorgimento e Fascismo di L. Sullam, L’apostolo a brandelli. L’eredità di Mazzini tra Risorgimento e fascismo e Sublime madre nostra. La Nazione italiana tra Risorgimento e Fascismo di M. Banti, come esempi di un nuovo clima storiografico. Pinto dimostra ottimismo, rilevando che se il cento cinquantenario era iniziato con il ritornello sulla scarsità delle iniziative e della mancata partecipazione popolare e sulla disaffezione verso il Risorgimento, il 2011 si sta chiudendo con un fiorire di manifestazioni e con una interessante ripresa di studi che dimostrano come nel discorso nazionale si sia riproposto con forza il nesso tra Risorgimento e identità nazionale.

Note

[1] Ne dà conto in una ben documentata tesi del dott. Rodolfo Salvicchi (L’Antirisorgimento nel 150° Anniversario dell’Unità d’Italia, Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Siena, a. a. 2010-2011, relatore prof. G. Nicolosi) che ne censisce oltre settanta pubblicati, o ripubblicati, tra la fine del2010 e il marzo del 201 1. Tra quelli revisionisti basta citarne alcuni come quelli di P. Aprile (Terroni: tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali, Napoli 2010; id., Malaunità 1861 -2011: centocinquant’anni portati male; L. Del Boca, Polentoni: come e perché il Nord è stato tradito, Milano 2011; G. Di Fiore, Gli ultimi giorni di Gaeta: l’assedio che condannò l’Italia all’Unità, Milano 2007; id., Controstoria dell’Unità d’Italia: fatti e misfatti del Risorgimento, Milano 2010; G. B. Guerri, Il sangue del Sud; antistoria del Risorgimento e del brigantaggio, Milano 2010; L. Langiano, Il Risorgimento e il brigantaggio: un olocausto tutto italiano, Terni 2010; A. Pellicciari, Risorgimento do riscrivere: liberali e massoni contro la Chiesa, Milano 2009; S. Prei te, Risorgimento, ovvero un passato che pesa sul presente: rivolte contadine e brigantaggio nel Sud, Manduria 2009. Più numerosi sono stati gli apporti di seria ricostruzione come quelli di M. L. Betri, di L. Cafagna, E. Di Rienzo, F. Della Peruta, D. Fisichella, M. Isneghi, L. Villari. Non era possibile recensirli tutti. Per altri riferimenti si veda la rassegna di Carmine Pinto pubblicata in questo volume della rivista.

 

I Cattolici, il Risorgimento e l’Italia Liberale

di Gaetano Quagliariello

Punti di partenza obbligati e premesse necessarie

L’analisi dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato unitario all’indomani della sua nascita ha un punto di partenza obbligato: l’Italia è stata l’unica grande nazione dell’Occidente la cui unificazione si è compiuta contro la Chiesa. Il moto unitario che si usa indicare con il termine Risorgimento fu, per non pochi aspetti, un moto anticlericale. Questa peculiarità della nostra storia nazionale ha condizionato a lungo le relazioni tra religione e politica, e ha contribuito a far sì che per molti anni la legittimazione del nuovo Stato fosse, come è stato autorevolmente detto, una scommessa da rinnovare ogni giorno[1]. Basti pensare al tema della base elettorale: al di là del confronto tra quanti l’avrebbero voluta fondata sul censo e quanti l’avrebbero preferita basata sulle “capacità”, vi era allora l’esigenza concreta di escludere dall’elettorato la maggior parte delle masse cattoliche che, se provviste di diritto di voto, avrebbero potuto metter in pericolo l’ancora giovane Stato liberale. Questa realtà delle cose rimanda a una sorta di peccato originale del paese: l’accentuata distinzione che si determina, al momento della conquistata unità, tra la Nazione e lo Stato; distanza che avrebbe rappresentato, per decenni e decenni, il margine concettuale e territoriale intorno al quale si sarebbe definito, e giocato, il rapporto tra religione e politica. Per i “risorgimentali”, il distinguo si sarebbe determinato per responsabilità della Chiesa e, in particolare, per la sua volontà di non rinunziare al potere temporale. Non di meno, il problema di ampliare la base statuale della nuova nazione, per forza di cose ristretta, e di includere progressivamente quanto agli esordi si era stati costretti a lasciare fuori, sarebbero stati i primi e più forti imperativi categorici avvertiti dai nostri nation builders e dai loro eredi.

Visto dalla parte degli esclusi – dalla parte dei cattolici – quel distinguo diviene addirittura una negazione: lo Stato ai loro occhi si è fatto contro la Nazione, intesa come “nazione cattolica”[2]. Per questa ragione, inevitabilmente, esso si sarebbe rivelato una entità fittizia con confini ideologici, culturali e tradizionali altri rispetto a quelli della Nazione la cui identità, invece, si sarebbe connotata prevalentemente attraverso il fattore religioso. I cattolici per questo, assai più dei “risorgimentali”, sarebbero stati spinti a sottolineare la distinzione tra “paese legale” e “paese reale”. Se ne valorizzava la portata storica – la irriducibilità della preesistente entità nazionale all’entità statuale sorta a seguito del processo di unificazione- ma, ancor più, il tema veniva sviluppato sotto l’aspetto filosofico. Sebbene il dibattito in seno al mondo cattolico sia stato articolato secondo percorsi differenziati che vanno considerati il riflesso delle pluralità delle voci interne, nei neoguelfi di Gioberti, nei lavori di Luigi Taparelli d’Azeglio come anche in Balbo[3] la ricerca di una soluzione alla questione cattolica ruota proprio intorno al confronto tra la natura dello Stato moderno e l’idea cattolica di patria: l’origine dello Stato è tutta contrattualistica (nell’accezione rousseauiana del termine), mentre la patria cattolica risponde ad un principio di ordine naturale e originario.

Nel trattare dei rapporti tra Stato e Chiesa agli albori dell’unità un’altra premessa s’impone: quando si analizzano le relazioni tra le due entità, i soggetti che determinano la separazione o quelli che trattano l’ avvicinamento sono due: lo Stato da una parte, la Chiesa da un’altra. La Chiesa “ufficiale”, tuttavia, comprende ma non esaurisce la molteplicità delle iniziative che nascono dentro il mondo cattolico. E queste iniziative talvolta seguono l’indirizzo ufficiale, altre agiscono in un’ottica diversa rispetto a quella della gerarchia finendo per condizionare l’evoluzione storica di quel rapporto. Questa dinamica fu ben chiara già nei pionieristici studi sull’argomento ad opera di Gaetano Salvemini[4]. Anche per questo non può essere elusa, ma a due condizioni che si evidenzieranno chiaramente dalla ricostruzione che segue: non ritenere che sia stata una dinamica a senso unico (che, cioè, abbia sempre e comunque suscitato spinte “progressiste” nel segno dell’apertura al nuovo Stato e in direzione dell’integrazione); non collocare le iniziative autonome del mondo cattolico in una dimensione alternativa rispetto all’azione della Chiesa “ufficiale”. Quelle iniziative, infatti, pesano nelle relazioni interne alla Chiesa ma non hanno la forza e neppure la possibilità teorica di articolare il rapporto duale tra Stato e Chiesa.

Il tempo dell’intransigenza

Punti di partenza obbligati e premesse necessarie servono a impostare un tentativo di periodizzazione dei rapporti tra Stato e Chiesa dalla unità fino alla conciliazione, senza dimenticare mai che alcune fratture originarie attraversano – a volte in modo evidente altre allo stato latente – tutte le diverse fasi e che, anche per questo, assai spesso alcuni tratti del periodo successivo si ritrovano in nuce già in quello precedente. Sicché, si può affermare in premessa, sono più le contingenze storico-politiche che un mutamento degli orientamenti di fondo a determinare il passaggio da un periodo all’altro[5]. E, a ben vedere, queste precisazioni valgono persino per quella prima fase che coincide col pontificato di Pio IX, dal 1861 al 1878, dominata dalla intransigenza assoluta e dall’ostilità reciproca. L’essenza della posizione espressa dal fronte cattolico è presto detta: Pio IX, per il suo percorso biografico, si convinse dopo l’assassinio di Pellegrino Rossi che le riforme conducevano alla rivoluzione e che il potere spirituale non avrebbe potuto fa re a meno della tutela proveniente dal potere temporale. Conseguentemente, i vertici ecclesiastici manifestarono la loro opposizione intransigente auspicando una rivincita della Santa Sede sullo Stato liberale. L’idea era quella di sfruttare prima le insorgenze meridionali e poi qualche difficoltà internazionale del giovane Regno italiano per provocare il crollo dell’edificio unitario permettendo il ripristino dello status qua pre-unitario. Si potrebbe affermare, utilizzando una terminologia un po’ oleografica, che in questa prima fase l’ attacco allo Stato la Chiesa lo mosse esclusivamente “da destra”.

Più complessa si rivela, invece, l’analisi dell’atteggiamento assunto dalla classe dirigente liberale, al punto da affermare che il processo che avrebbe portato alla legge della Guarentigie, letto in controluce, è in grado di rivelare le diverse sensibilità e progettualità delle quali gli eredi di Cavour si fecero interpreti. La complessità originaria dei rapporti tra Stato e Chiesa, e la inevitabile reciproca diffidenza, portarono a ritenere che la soluzione della questione potesse risiedere nella fissazione di garanzie molto incisive. Quest’esigenza plasmò l’atteggiamento della classe dirigente nei confronti del rapporto politica/religione, spingendola a dare della formula cavouriana Libera Chiesa in Libero Stato una lettura istituzionale dalla quale scaturì la legge delle Guarentigie del 1871, all’indomani cioè della breccia di Porta Pia.

Va precisato che questa formula, nel riconoscere l’esistenza di due sfere distinte e separate, non negava certamente la presenza diffusa di una componente cattolica ma prevedeva che i suoi valori e la sua religiosità fossero trasferiti dall’ambito pubblico a quello della coscienza individuale. D’altro canto, è noto come la componente cattolica fosse ben rappresentata all’interno della classe politica: accanto alla Sinistra storica, legata agli ambienti massonici e idealmente anti-cattolica, e agli hegeliani che militavano nella Destra, c’era infatti una parte della Destra storica sensibile, non ostile e a volte addirittura praticante la religione cattolica. Fra tutti i nomi, basterà ricordare quelli di Minghetti e Ricasoli.

Furono dunque le contingenze a far sì che la formula cavouriana fosse interpretata in senso separatista. Né si trattava dell’unica interpretazione possibile nell’orizzonte della cultura liberale del tempo. Poco prima, infatti, negli anni immediatamente precedenti al Secondo Impero, quelli del regno di Luigi Filippo in Francia, l’allora deputato liberale Alexis de Tocqueville produceva un’ampia serie di interventi per spiegare, in virtù delle sue esperienze anglosassoni, quanto una democrazia liberale avesse bisogno dell’apporto e dell’influenza attiva della religione nella vita pubblica. Quelle letture non furono ignote a Cavour e ad altri nation builders che a lui facevano riferimento[6].

Tocqueville non intendeva tale apporto delle Chiese come sopraffazione c tanto meno come privilegio. Auspicava, piuttosto, che in luogo della separazione si instaurasse tra la sfera dello Stato e la sfera della Chiesa una distinzione che assicurasse ambiti di assoluta competenza esclusiva e, allo stesso tempo, consentisse che Io spazio pubblico fosse irrorato anche dalla religione, nella convinzione che questo fosse interesse non contingente di uno Stato democratico e della sua sanità spirituale. Tocqueville, in particolare, riteneva che il riferimento alla religione e alla libertà di pratica religiosa fosse l’essenziale antidoto contro l’individualismo esasperato e, dunque il rischio di particolarismo, insiti nelle democrazie. Lo considerava, in sostanza, come lo strumento in grado di garantire la ricomposizione di un tessuto organico, di un idem sentire, di obiettivi, scopi e valori che prescindevano la dimensione individuale.

Per come era nato lo Stato unitario, però, questo filone “anglofilo” del liberalismo, presente anche in Italia e anche all’interno della Destra storica, non aveva alcuna possibilità di affermarsi. La contingenza storica, infatti, aveva imposto che una ipotetica soluzione del rapporto tra Stato e Chiesa prendesse le mosse da una constatazione: a confrontarsi non erano due Stati sovrani, ciascuno dotato di un proprio territorio e di un proprio ordinamento. La Chiesa altro non era che un insieme di associazioni e di gruppi soggetti alla regolamentazione e agli indirizzi del governo; ad essa non veniva riconosciuta una propria sovranità, “primaria ed originaria”, all’interno della quale potesse vigere un ordinamento diverso da quello statale. Quest’assunto portò, da una parte, a ritenere di poter regolamentare unilateralmente il rapporto con la Chiesa tramite, appunto, le Guarentigie; dall’altra, invece, innescò un ulteriore irrigidimento da parte della Chiesa stessa: atteggiamento che avrebbe rafforzato le posizioni degli “intransigenti” rispetto a quelle minoritarie rappresentate dagli eredi di Gioberti[7].

Si può dunque affermare, in conclusione, che sul versante liberale una delle ragioni della cristallizzazione di una logica separatista fu proprio la non scontata fusione, favorita dagli accadimenti, di due tendenze culturali interne al composito mondo liberale: quella legata a ciò che restava del liberalismo cavouriano che impediva di eliminare completamente la Chiesa dal nuovo sistema e quella di ispirazione giurisdizionalista, radicata negli ambienti intellettuali napoletani. Sul versante della Chiesa la situazione si presenta più lineare: questa prima fase è certamente caratterizzata da un condiviso arroccamento su una posizione di difesa che non lasciasse margini di manovra alla classe dirigente liberale. Basti ricordare, a tal proposito, la posizione del Papa che si sarebbe dichiarato, fino alla morte, «prigioniero dello Stato italiano». Ma persino in questa temperie, nel più ampio mondo cattolico – quello diverso dalla gerarchia – vi fu l’emergere di tesi e atteggiamenti “transigenti” che, almeno in parte, richiamavano le posizioni che erano state di Antonio Rosmini, inascoltate da Pio IX.

La definizione dei rapporti di forza in questa prima fase condizionò, inevitabilmente, gli eventi successivi: l’arroccamento della classe dirigente liberale su posizioni separatiste irrigidì la Chiesa come, d’altronde, l’arroccamento di Pio IX sbarrò il sentiero dell’incontro tracciato dai cattolici transigenti sulla base del principio di distinzione più che di separazione. Dal punto di vista politico questo esito ha influenzato le scelte successive, al punto che sarebbe un errore interpretare le aperture sociali della Chiesa compiutesi dopo l’ascesa al soglio di Leone XIII come un abbandono automatico dell’impostazione che, nei rapporti col nuovo Stato, era stata data dal suo predecessore. Nella realtà delle cose la svolta “sociale” del pontificato di Leone XIII, avvenuta in particolare con la pubblicazione della Rerum Novarum nel 1891, si prestò a una lettura non univoca e offrì alla Chiesa, nel suo confronto a distanza con lo Stato liberale, di venirsi a trovare in una posizione politica di felice ambiguità[8].

In particolare, l’attenzione per la nuova dimensione dell’impegno dei cattolici concesse alla componente transigente margini di manovra ben più ampi di quelli consentiti, in precedenza, da Pio IX. Non per questo, però, gli intransigenti furono messi fuori gioco. Essi, piuttosto, adattarono la loro convinzione di fondo a contingenze politiche e a problemi inediti. Se, infatti, è vero che periodicamente sarebbe riemersa l’ipotesi conciliatorista della formazione di un partito cattolico conservatore, nazionale e cristiano, non è meno vero che grazie all’impegno di Rampolla del Tindaro, nominato nel 1887 Segretario di Stato da papa Pecci, l’intransigentismo riuscì ad acquisire forza culturale, capacità organizzativa e radicamento ben maggiori, al punto da monopolizzare il controllo dell’Opera dei congressi, nata nel 1874[9].

L’attacco sui due fronti

Tutto ciò ci spinge ad affermare che, senza dubbio, con l’ascesa al soglio pontificio di Leone XIII (1878-1903) si inaugurò una seconda fase dei rapporti tra Stato e Chiesa. La differenza più marcata con il periodo precedente, però, piuttosto che in una diversa attitudine nei confronti dello Stato liberale, va segnalata nella sostituzione della strategia del “controllo dall’alto” con un tentativo di “riconquista dal basso”, attraverso una strutturazione della componente cattolica come forza sociale organizzata. Tale tentativo fu trasversale e politicamente ambiguo. Il successo dell’Opera dei Congressi, infatti, aumentò in maniera graduale il peso degli intransigenti. Questi, privi di progettualità politica e concentrati sulla rivendicazione dell’impegno sociale e civile, fecero dell’Opera non lo strumento che avrebbe dovuto fungere da tramite verso una apertura della Chiesa alle istanze della società civile, al fine anche di integrarle nello Stato, bensì una roccaforte della difesa degli interessi cattolici nella memoria del sopruso compiuto ai danni della Chiesa dal processo di unificazione. Ma a partire dal1896, l’affermarsi delle correnti democratico-cristiane, più inclini a favorire un’apertura al contempo sociale e politica del movimento cattolico, avrebbe determinato una profonda crisi dell’istituto del quale venne decretato lo scioglimento nel 1904. Vale la pena precisare, a tal proposito, che Leone XIII non avrebbe probabilmente ostacolato la nascita di tendenze democratiche, a differenza del suo successore Pio X che, d’altro canto, come si dirà, sarebbe risultato più propenso a favorire l’integrazione dei cattolici nel mondo liberale.

Si può dunque affermare che, vista nel complesso, questa seconda fase fu caratterizzata da una sorta di tentativo di accerchiamento dello Stato da parte della Chiesa: l’attacco, precedentemente mosso da destra, si articolò su due fronti, impossessandosi anche della emergente, cosiddetta, questione sociale. La priorità attribuita a questo tipo di tematiche consentì alla Chiesa di conquistare consensi tra le masse ma, per una sorta di eterogenesi dei fini, questa attenzione le consentì anche successivamente di acquisire peso contrattuale nei confronti dei liberali. Questi, infatti, dopo la nascita del Partito socialista avevano bisogno dell’alleanza con i cattolici per contrastare quella

che consideravano una minaccia e, al di là delle ostilità di fondo, preferivano che fossero le organizzazioni cattoliche ad occuparsi delle emergenze sociali evitando che divenissero il terreno di battaglia sul quale il Partito socialista potesse guadagnare consensi. Con la svolta del secolo si assisté, insomma, allento avanzare di un processo di integrazione spontanea tra cattolici e liberali – un processo più forte nel Meridione che in altre parti d’Italia – favorito anche dalla volontà della classe dirigente liberale di allargare le basi sociali dello Stato. E siamo così giunti alla terza fase.

L’integrazione tentata

Questa progressiva attenuazione della contrapposizione si avvantaggiò anche, a partire dal1904, della attenuazione del non expedit da parte di Pio X, che consentì ai cattolici di partecipare in misura crescente alla vita politica del paese. Entrambi i fenomeni, dunque – sia quello che si svolgeva sul versante liberale, sia quello che si svolgeva sul versante cattolico- andavano nella stessa direzione e cioè verso un ricomponimento della frattura risorgimentale tra Stato e Chiesa. Ciononostante, è innegabile che vi fu una permanenza di forti resistenze all’avvicinamento sia all’interno della componente liberale che in quella cattolica. Sul primo fronte restarono attive le correnti radical-massoniche, che continuarono a identificare nell’originario anti-clericalismo un irrinunciabile e in comprimibile tratto identitario. Sul secondo versante, quello cattolico, l’ affermazione della corrente democratico-cristiana, incarnata poi storicamente dalla nascita della Democrazia cristiana di Romolo Murri, giungeva a rendere più complesso il processo di avvicinamento[10]. E se è senz’altro vero che l’allentamento del non expedit prima – come si vedrà – il patto Gentiloni poi, aprivano nuovamente la strada ad una soluzione diversa dalla separazione, è anche vero che il mondo cattolico, almeno in alcune delle sue componenti, muoveva verso direzioni opposte. Approdata dal punto di vista politico all’apertura verso l’ avvento della democrazia e le trasformazioni sociali evidenti nel primo decennio del1900, questa parte del mondo cattolico cominciava a pensare, e rendeva concreta, l’ipotesi che anche i cattolici si servissero di uno strumento per tutelare e difendere interessi parziali: il partito. Un partito che avesse una propria identità tanto più definita, quanto più esclusiva.

Tuttavia, a fronte di questi fermenti, è innegabile che il patto Gentiloni del 1913 rappresentò il punto più alto dell’avvicinamento e non fu un semplice accordo di vertice, quanto il risultato di un effettivo processo d’integrazione. A questo proposito, le carte disponibili da qualche anno negli Archivi Vaticani parlano chiaro: esse mostrano come quel Patto, assai più che una tappa verso la nascita di un partito cattolico, rappresentò, nelle intenzioni della gerarchia, un passaggio per evitare tale evenienza attraverso una compenetrazione tra cattolici e liberali[11]. Il tentativo, è bene ribadirlo, non ebbe la forza di chiudere i giochi né questo sarebbe stato, d’altro canto, politicamente possibile: continuava a esistere, nonostante il Patto, tutta una parte di mondo cattolico che ragionava in termini di separazione o, al più, di ingresso nella vita del nuovo Stato, ma attraverso una definizione specifica della propria identità. A prevalere, fino al 1913, fu l’impostazione orientata verso la compenetrazione con il mondo liberale. L’avvento della prima guerra mondiale sarebbe giunto a cambiare il corso della storia.

Per una storia non ideologica della conciliazione

Difatti – e siamo alla quarta e ultima fase – il momento che sancì il definitivo ingresso dei cattolici nella vita politica italiana, e l’acquisizione da parte loro di una cittadinanza non separata, corrispose proprio allo scoppio della prima guerra mondiale. Al di là della naturale avversione morale al conflitto armato, i cattolici non fecero mancare il loro sostegno al governo durame la guerra. Non solo dimostrarono di non essere anti-italiani, ma assunsero un comportamento patriottico. Del resto, negli anni del conflitto vi furono in Italia anche ministri cattolici come, ad esempio, Filippo Meda che resse il ministero delle Finanze dal 1916 al 1919. Il passo successivo fu la strutturazione di una presenza politica autonoma dei cattolici, con la nascita del Partito popolare italiano fondato da Don Sturzo nel 1919. Essa fu conseguenza della frattura storica che bloccò il processo di integrazione tra cattolici e liberali e, al contempo, frantumò la famiglia liberale. La rottura che al momento dell’ingresso in guerra si consumò fra Giolitti e l’ala interventista liberale, con Giolitti che considerò quell’azione alla stregua di un vero e proprio colpo di Stato contro la maggioranza parlamentare.

In altri termini, la nostra tesi è che il processo di compenetrazione che si era intrapreso con il patto Gentiloni si arrestò per l’emergenza storico-sociale che fece seguito alla prima guerra mondiale che, in particolare, portò contemporaneamente a un ricompattamento della componente cattolica e a uno sfarinamento della sponda liberale. Il Partito popolare italiano si connotò, dunque, come un partito in bilico tra la una diffidenza permanente nei confronti dello Stato e, nondimeno, una vocazione verso l’inclusione. Non credo sia un caso, d’altra parte, che proprio nel 1919, in contemporanea con la nascita del partito, si verificò il più importante

tentativo di conciliazione tra Stato e Chiesa mai compiuto fino ad allora: l’incontro a Parigi tra Vittorio Emanuele Orlando e Monsignor Cerretti, durante il quale si arrivò a un passo dall’accordo che avrebbe potuto portare, una volta per tutte, alla soluzione della Questione Romana. Per una serie di ragioni ben scandagliate da Roberto Pertici, quel tentativo falli e dovettero passare altri dieci anni di trattative perché, nel 1929, si giungesse ai Patti Lateranensi[12]. Ciononostante, da questa vicenda emerge chiaramente come l’idea di un accordo fosse già matura in età liberale, dopo la fine della guerra, come risultato di quel processo di integrazione “dal basso” fin qui delineato che, al di là delle contingenze e delle soluzioni immaginate, comunque progredì attraverso le quattro fasi delineate. A riprova di ciò valga la citazione dal libro Il Partito Popolare e la questione romana di Gaetano Salvemini, che fu probabilmente il più strenuo oppositore del Concordato del ’29 e segnò, con questa opposizione, una pagina di storiografia e di azione politica. Egli, però, nel 1922, in un’altra temperie politico-culturale, non casualmente scriveva: «La transazione [tra Chiesa e Stato, ndr], guardata con spirito sgombro da sdilinquimenti conciliatoristi e da convulsioni massoniche ritardatarie, non merita di essere né sospirata come indispensabile, né condannata come dannosa, né disdegnata come del tutto inutile. È un frutto che va maturando»[13].

Un’ultima considerazione riguarda il contesto storico-politico in cui il percorso di pacificazione sarebbe giunto a compimento. Il Concordato, infatti, fu firmato quando alla testa del paese non c’era più un governo liberale ma il regime fascista. Tale circostanza ha dato adito, ex post, a un’interpretazione fuorviante dell’atto di conciliazione in sé, considerato più come una manifestazione di appoggio al regime che come approdo finale di un processo di integrazione perpetratosi nel tempo. Proprio di questo, invece, si è trattato: di un Patto che ha chiuso la controversia risorgimentale; della tappa finale di un lungo e lento percorso di composizione della frattura tra Stato e Chiesa, prodottasi con la nascita dell’Italia unita.

Note

[1] Su questo aspetto mi permetto di rimandare al mio Cattolici pacifisti teocon. Chiesa e politica in Italia dopo la caduta del muro, Mondadori, Milano 2006, in particolare il capitolo «Ouverture», pp. 5-40. Per una riflessione di più lungo periodo volta ad indagare le origini del complesso rapporto tra Stato e Chiesa in Italia alla luce del dibattito più attuale si veda il volume di F. Traniello, F. Bolgiani, F. Margiotta Broglio (a cura di), Stato e Chiesa in Italia. Le radici di una svolta, Il Mulino, Bologna 2007.

[2] Per una ricostruzione del rapporto tra i cattolici e il processo di unificazione nazionale, si vedano, tra gli altri, F. Traniello, Religione, nazione e sovranità nel Risorgimento italiano, «Rivista di storia e letteratura religiosa», n. 2, 1992, pp. 319-368; G. Formigoni, L’Italia dei cattolici. Fede e nazione dal Risorgimento alla Repubblica, Il Mulino, Bologna 1998, G. De Rosa, Il movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana, Laterza, Roma-Bari, 1988, A. Monticone, l cattolici e lo Stato nazionale in Italia dal 1870 al 1919, «Humanitas», n. 12, 1976, pp. 945 ss.

[3] Le riflessioni del mondo cattolico sono ricostruite in maniera efficace nel saggio di F. Tranicllo, Da Gioberti a Moro. Percorsi di una cultura politica, Franco Angeli, Milano 1989 e Id., Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2007.

[4] Per una panoramica degli studi salveminiani sull’argomento, mi permetto di rimandare a G. Quagliariello, Gaetano Salvemini, Il Mulino, Bologna 2007, in particolare al capitolo «Salvemini e l’anticlericalismo», pp. 209-244.

[5] Oltre ai volumi già citati, una ricostruzione interpretativa del quadro storico-politico della evoluzione dei rapporti tra Stato e Chiesa fino all’avvento della prima guerra mondiale si trova in R. Pertici, Chiesa e Stato in Italia. Dalla Grande Guerra al Concordato (1914-1984), Il Mulino, Bologna 2009, in particolare nel capitolo I, «Il mondo di ieri», pp. 13-39.

[6] Per un ‘analisi della recezione da parte di Cavour delle riflessioni di Tocqueville contenute nella Démocratie en Amérique cfr. R. Romeo, Cavour e il suo tempo (1810-1842), Laterza, Roma-Bari 1977 (3° ed.), passim.

[7] Sul rapporto tra cattolici “transigenti” e cattolici “intransigenti”, si veda, tra gli altri P. Scoppola, La democrazia dei cristiani. Il cattolicesimo politico nell’Italia unita, Laterza, Bari 2006; F. Fonzi, I cattolici e la società italiana dopo l’unità, Studium, Roma 1977; G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, vol. I, Laterza, Bari 1966. Cfr. anche A. de Tocqueville, Libertà e cristianesimo. Interventi sul problema religioso e la libertà d’insegnamento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, passim.

[8] D. Menozzi, Episcopato e società tra Leone XIII e Pio X, Il Mulino, Bologna 2000.

[9] Sulla storia dell’Opera dei Congressi si vedano M. Invernizzi, I cattolici contro l’unità d’Italia? L’Opera dei Congressi (1814-1904), Marietti, Casale Monferrato 2002 e S. Tramontin , «Opera dei Congressi e dei comitati civici», in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, vol. II, Marietti, Torino 1981, pp. 336-347.

[10] Sull’affermazione della cultura anticlericale, cfr. G. Verucci, Cattolicesimo e laicismo nell’Italia contemporanea, Franco Angeli, Milano 2001, pp. 205-288 mentre sull’esperienza di Murri e la fondazione della prima Democrazia cristiana si vedano i saggi contenuti nel volume il concetto di democrazia nel pensiero di Romolo Murri, Transeuropa, Ancona 1996.

[11] Tra i nume rosi studi si veda G. Miccoli, Chiesa e società in Italia dal Concilio Vaticano I ( 1870) al pontificato di Giovanni XXIII, vol. V, I documenti, t. II, Einaudi, Torino 1973, pp. 1510-1518.

[12] Cfr. R. Pertici, Chiesa e Stato, cit., in particolare pp. 52-59.

[13] G. Salvemini, Il Partito Popolare e la questione romana, La Voce, Firenze 1922, p. 86.