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Considero il Suo editoriale di domenica uno dei tentativi più seri di sollevarsi dalla polemica spicciola, e mettere al centro del dibattito il tratto epocale che le vicende seguite alle ormai note dichiarazioni di Buttiglione hanno contribuito a disvelare.

I cardini su cui è poggiato il suo ragionamento, dando per implicita la disapprovazione nei confronti delle posizioni e del comportamento del Commissario italiano in pectore, mi sono apparsi i seguenti: 1) affermare la libertà come materia indivisibile: non sarebbe più possibile rifiutare gli esiti di secolarizzazione ai quali l’affermarsi della logica di mercato inevitabilmente conduce; 2) dichiarare che, in un Paese dominato dalla sola Chiesa cristiana cattolica, la combinazione tra un’esigenza di religiosità civile e i valori cristiani non possa produrre risultati differenti dal clericalismo. Questi “risultati differenti” negati al nostro Paese sarebbero, invece, alla portata dei Paesi anglosassoni e, in particolare, degli Stati Uniti, a causa della pluralità di chiese che lì contraddistingue il cristianesimo; 3) rilevare come tali premesse pongano la destra italiana nella condizione di essere vittima del processo di secolarizzazione da essa stessa avviato attraverso la promozione della libertà economica. Impossibilitata ad accettare gli esiti di quel processo sul terreno delle libertà civili, la destra nostrana correrebbe il rischio di ripiegare in uno stato di minoranza permanente, ben lungi dal conseguire la moral majority alla quale, invece, può aspirare la destra americana per il differente contesto religioso-culturale nel quale si trova ad operare. Il caso Buttiglione sarebbe l’emblema di tali rischi; 4) convincere la sinistra ad approfittarne: a non fare più “ostruzionismo” contrapponendo il sociale al mercato e a trasformarsi in liberale o, ancor meglio, in libertaria, per poter ultimare il cambiamento politico-culturale iniziato dalla destra a partire dagli anni Ottanta. Si tratterebbe, se capisco bene, di farsi i successori secolari della Thatcher e di Reagan, prendendo esempio dai Blair e dagli Zapatero.

Se non ho travisato le basi del suo pensiero, cerco ora di spiegarle perché dissento da quest’analisi, pur riconoscendole coerenza. Parto dal caso Buttiglione, perché esso mi aiuta a spiegare un diverso modo di sentirsi liberali oggi in Europa. Lei ha certamente letto le dichiarazioni rese dal politico italiano di fronte alla Commissione che lo esaminava e, probabilmente, ha anche visto il filmato dell’audizione. Non può non essersi accorto, dunque, dell’esistenza di un tentativo premeditato di portare il dibattito sui temi dell’omosessualità, della sua liceità e del suo riconoscimento civile. Non è bastato il tentativo di Buttiglione di respingere l’attacco dichiarando il giudizio appartenere alla sfera del privato e tra l’altro – aggiungiamo noi – poco attinente ai compiti del portafoglio che dovrebbe assumere. Non è bastata nemmeno la dichiarata suddivisione tra la sfera della morale e quella della politica, posta da Buttiglione a premessa della sua “confessione”. Lo scandalo è scoppiato in ogni caso, e prima del voto, seguendo i tempi di una ben congegnata trappola politica che, per essere montata, presuppone, a valle, l’esistenza di un conformismo dilagante per cui un’affermazione di fede religiosa, seppur depotenziata da antiche arroganze e da possibili esiti positivi, va intesa comunque come un’offesa al comune sentire europeo. E chi la pronunzia rischia il confino, in un campo di barbabietole.

Se questo è il contesto descritto ieri con efficacia da Piero Craveri sul suo giornale, non serve essere libertari. Si può essere anche solo liberali per comprendere che il significato intrinseco delle dichiarazioni rese da Buttiglione perde gran parte della sua importanza politica; così come la valutazione del suo curriculum e persino le preoccupazioni per le sue presunte liaisons dangereuses con spregiudicati uomini-macchina. Prima di ogni altra cosa, si pone il suo diritto di esprimere ciò che pensa in nome della sua fede, senza che ciò venga triturato, ridotto in poltiglia e dichiarato inaccettabile in nome del conformismo certificato dal politically correct. In passato in Italia libertari e liberali hanno fatto battaglie epocali affinché ai fascisti fosse reso il diritto all’opinione; hanno persino difeso il diritto dei mafiosi a possedere un pensiero politico e non sono indietreggiati di fronte alla denunzia dei rischi illiberali del conformismo: fosse quello imposto in nome dell’anti-fascismo ovvero dell’anti-mafia (“do you remember Leonardo Sciascia?”). Perché oggi, essere liberale dovrebbe significare smentire questo passato? Perché i liberali non dovrebbero dichiarare: anche se non siamo d’accordo con le posizioni di Buttiglione, rivendichiamo il suo diritto di affermarle senza dover subire un premeditato processo alle intenzioni? Perché dovrebbero mettersi la coscienza in pace, rimproverando a Buttiglione d’essere caduto nella trappola “con tutte le scarpe” (come se si trattasse di trappole lecite), o rilevando l’errore teologico di ritenere peccato ciò che è semplice confusione morale?

Lei potrebbe replicare: “quelle alle quali fa riferimento sono state battaglie di minoranza, che non hanno nulla a che vedere con la società liberale di massa che ho proposto alla sinistra come suo scopo ultimo”. Se questa fosse la risposta, le chiederei se è proprio certo che di quelle battaglie di minoranza non vi sia, invece, oggi più di ieri, un gran bisogno. Proprio oggi, che la libertà nel mondo non se la passa bene e che, invece di celebrare la sua vittoria finale, sta subendo una sfida che né Lei né io abbiamo sin qui sottovalutato. E non è dato ritenere che tutto ciò sia dovuto alle iniziative di piccole avanguardie estremiste, come pure il maggior quotidiano italiano ci inviterebbe a considerare, riconducendo il fenomeno del terrorismo islamico a quello che la nostra società nazionale visse tra gli anni Settanta e Ottanta. Cerchiamo di essere seri e poniamoci con serietà al cospetto di una sfida mondiale, che si preannuncia di lungo corso e dall’esito tutt’altro che certo, che già da ora coinvolge l’ambito religioso, quello culturale, quello demografico, quello strategico. Lei, ed i suoi lettori lo sanno bene, non ha mai contestato questo scenario. Ed allora mi chiedo: in nome di quale moralità domanderà all’Europa e, in particolare, alla sinistra europea, di riconoscere e difendersi dall’attacco alle sue tradizionali libertà? Cosa potrà mai produrre, in termini di resistenza morale, il politically correct oggi imperante? Io le rispondo: niente di buono. Consideri un’evidenza: non è un caso che la riforma “libertaria” voluta da Zapatero (ben diverso, lei ce lo ha insegnato, il percorso di Tony Blair!) sia seguita alla scelta di arrendersi e andare via dall’Iraq, cedendo di fatto al ricatto implicito nella strage dell’11 marzo.

Lei mi dirà, a questo punto: ma, per salvare un nocciolo duro di moralità resistente, dobbiamo per forza convertirci? La mia risposta è no. Ed io per primo non sono disponibile a farlo, senza che di ciò mi faccia minimamente un vanto. Nonostante questo credo che tutti dovrebbero porsi il problema di lasciare in Europa uno spazio per il sorgere di minoranze creative delle quali parla Arnold J. Toynbee. Solo esse, infatti, potranno essere in grado di restituirle quella forza di tenuta che l’edonismo indotto dal mercato non è in grado di produrre. Questo deve essere il problema, innanzi tutto, delle maggioranze responsabili, conscie degli effetti inintenzionali prodotti dalla secolarizzazione, che Lei così bene descrive. E, all’interno di questo quadro, non può essere avvertito come uno scandalo che vi sia spazio anche per quel cattolicesimo integrale che oggi è ridotto, per l’appunto, ad essere anch’esso minoranza. Bisogna innanzi tutto garantirgli l’esistenza, al di fuori di ogni preventiva ghettizzazione culturale. L’eventualità dell’alleanza è altra cosa, e può essere valutata laicamente caso per caso, sulla base degli obiettivi e delle analisi. Anche perché, chi ha coscienza della propria origine, sa bene che la laicità altro non è che la figlia emancipata del cristianesimo e che, per questo, tra il clericalismo ed il “politically correct di massa” vi è pur sempre lo spazio per una religione civile ispirata ai valori cristiani.

Garantire questi spazi, ai cattolici e non solo ai cattolici, a me pare oggi sia il compito prioritario del liberale, che egli si collochi a destra ovvero a sinistra. E non mi sembra compito né scontato né tanto meno superfluo. Anche perché, a cospetto delle sfide esterne che la situazione del mondo propone, qualora non sorgano e siano attive minoranze creative, l’opposizione al dilagare del politically correct assurto ad incontrastata “irreligione civile”, produrrà reazioni distruttive e irrazionali. Sta già accadendo, sotto i nostri occhi. Non è un caso che in Germania rinascano i nazisti. Non è un caso che in Francia la destra xenofoba ed antisemita continui ad attestarsi sul 20%, nonostante sia rappresentata da un leader ormai allo stremo come Le Pen. Signor direttore, mi creda: meglio farsi impropriamente definire teo-con che correre il rischio di finire vieux-con.

Il Riformista, 21 ottobre 2004