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Il 9 maggio ricorreva come ogni anno la Festa dell’Europa, ma in realtà l’Europa ha poco da festeggiare. Con un futuro che non è mai stato così incerto, chi ancora crede nel sogno europeo sente il proprio entusiasmo smorzato dalla preoccupazione per il sentimento di avversione – o di indifferenza, che forse è anche peggio – diffuso tra la maggioranza dei cittadini italiani. Non va meglio nel resto d’Europa, ma concentriamo l’analisi sul nostro Paese.

Nella giornata in cui ricorre l’anniversario della dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950 che poneva le basi – proponendo la creazione di una Comunità europea del carbone e dell’acciaio – della futura UE, gli unici spazi in cui si parla di Europa sono dedicati alle ragioni della marea montante dei populismi, alla scarsa legittimazione e fiducia di cui godono le istituzioni europee e al più totale disinteresse della popolazione nei confronti delle elezioni del prossimo 25 maggio. Secondo l’ultimo sondaggio Ispo sarebbero il 28% i cittadini che dichiarano di non sapere neanche cosa sono le elezioni europee.  E circa il 50% degli italiani oscilla tra indecisione ed astensione.

Ma non è solo l’indifferenza che preoccupa. Ancora più pericolosa è la protesta anti-Euro e anti-Europa che sta accrescendo in maniera progressiva i consensi di forze politiche, come il Movimento Cinque Stelle, il cui obiettivo è distruggere quanto sin qui è stato faticosamente costruito. Tra l’opinione pubblica, ormai, sono minoritari coloro che credono ancora nella possibilità di rilanciare il progetto europeo attraverso una concreta e congiunta operazione di revisione degli assetti, delle procedure decisionali, dei poteri e delle forme di legittimazione dell’attuale Unione Europea.

In questo giorno, dunque, l’unica celebrazione possibile non è tanto quella che guarda con nostalgia al passato – come se i problemi di oggi non fossero frutto degli errori sin qui commessi – quanto quella che prova a guardare al futuro ragionando su cosa si può fare, in queste due settimane, per evitare che le prossime elezioni pongano una pietra tombale sul progetto europeo. Per porre un argine alla protesta fine a se stessa riconducendola nell’alveo della proposta.

Innanzitutto si può provare a ricordare quali sono i motivi principali che hanno spinto l’Italia, più di sessant’anni fa, ad essere tra i fondatori dell’Europa unita.  In primis, la consapevolezza presente anche nel nostro Paese della necessità di andare oltre quei nazionalismi che avevano alimentato la Seconda Guerra Mondiale portando gli Stati europei sull’orlo del baratro. Inoltre, il vantaggio di una cooperazione – anzitutto economica – in grado di dare un peso al vecchio continente all’interno del mutato scenario internazionale, prima governato dalla contrapposizione bipolare tra USA e URSS e successivamente caratterizzato dall’emersione di nuove grandi potenze che hanno reso la competizione internazionale sempre più agguerrita e difficile da sostenere per qualunque Stato europeo preso singolarmente. Tanto più per l’Italia, che subiva il peso della sconfitta e doveva rimboccarsi le maniche per ricostruire il proprio Stato e la propria economia dalle macerie della Guerra e di Vent’anni di dittatura. L’Italia scelse di essere europea perché uomini come Alcide De Gasperi seppero indirizzarla verso l’unica strada che le avrebbe consentito libertà, sviluppo e democrazia. Ed è esattamente ciò che abbiamo avuto in cambio, nonostante le tante storture e imperfezioni del nostro sistema.

Ma il ricordo, da solo, non basta a fare argine. Serve anche la capacità di attualizzare e dare nuova linfa a queste antiche ragioni, a cui si sono affiancati nel tempo altrettanti elementi in grado di giustificare contrarietà e pessimismo verso questa Europa.  Alla progressiva cessione di sovranità da parte degli Stati membri, che avrebbe dovuto costituire il presupposto di un rafforzamento del peso politico dell’Europa nel mondo, non è corrisposta infatti la creazione di un potere decisionale sovranazionale. Al contrario, abbiamo l’impressione – molto spesso la convinzione – di aver ceduto porzioni importanti della nostra sovranità ricevendone in cambio più che altro regole restrittive e imposizioni calate dall’alto.

In un momento nel quale le nuove dinamiche dell’economia e della politica globalizzata suggeriscono all’Europa di coagularsi intorno a una identità collettiva e di rendere più snella ed efficace la propria capacità decisionale, abbiamo agito esattamente all’opposto. Abbiamo rinnegato, da una parte, il nostro comune denominatore, vale a dire le radici cristiane che costituiscono la nostra tradizione, in nome della secolarizzazione e del relativismo; abbiamo allargato i confini dell’Europa senza una precisa strategia politica e abbiamo inserito all’interno dei suoi meccanismi decisionali le resistenze che costantemente impediscono all’Europa di esprimere una propria capacità decisionale. In questo modo, né gli interessi dei singoli Stati né l’interesse comune hanno potuto affermarsi. Volevamo costruire un’Europa più forte per rafforzare il peso degli Stati nella comunità internazionale; abbiamo costruito un’Europa fragile che ha indebolito anche, inevitabilmente, i suoi Stati membri.

Nella nuova dimensione globale, il bisogno di avere ben presente la propria identità e di fare squadra per affermare i propri interessi è più che mai stringente. L’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione, d’altra parte, impone decisioni rapide che né l’Italia né l’Europa sono in grado di assicurare. Per uscire dalla marginalità a cui ci stiamo condannando, servono dunque la consapevolezza dell’insostenibilità di questa situazione e la volontà di imprimerle, adesso, un cambiamento.

E l’unico cambiamento possibile è quello che parte da presupposti costruttivi. E’ quello che punta a ridimensionare il peso delle burocrazie e a valorizzare l’esistenza di un quadro normativo e istituzionale comune.  E’ quello che punta a rivedere i meccanismi per acquisire una capacità decisionale più rapida e riguadagnare credibilità politica. E’ quello che punta a coniugare il rigore con lo sviluppo, in un contesto di responsabilità ma anche di solidarietà tra gli Stati. I populismi hanno gioco facile nell’attuale contesto di crisi, che consente loro di prosperare anche grazie alla scarsa conoscenza che c’è tra i cittadini dei benefici che riceviamo dallo stare in Europa: ma l’atteggiamento irresponsabile e distruttivo che li anima non costituisce una soluzione ai problemi che vorremmo vedere risolti. Anzi, rischia persino di aggravarli.

In questa giornata dedicata all’Europa, dunque, ma in cui di Europa si parla soprattutto in negativo, noi della Fondazione Maga Carta vogliamo celebrare così il progetto europeo: lanciando un appello generale affinché di Europa si parli anche e soprattutto per spiegare ai cittadini che hanno molte buone ragioni per crederci ancora e per metterla nelle mani di chi vuole migliorarla. Speriamo che il nostro appello non cada nel vuoto e che il prossimo 25 maggio si possa festeggiare la tenuta del progetto europeo, nato sui valori popolari di libertà e democrazia.