Elogio della libertà, quella vera. Dialogo tra un cardinale e un pensatore laico

L’esplosione dei desideri individuali trasformati in diritti per tutti è materia di notizia quotidiana. Senza più limiti. Incide sulla nascita e la morte, le tecniche e l’ambiente, la politica e le migrazioni, insomma, sulla natura stessa dell’uomo. Ma è trionfo della libertà o dittatura, a scapito dei più deboli? E qual è allora l’altra libertà, quella che si nutre della verità e non può sussistere senza di essa?

Il cardinale Camillo Ruini, 89 anni, da una vita filosofo e pastore, ne discute con Gaetano Quagliariello, senatore, professore di storia contemporanea alla LUISS di Roma e presidente della Fondazione Magna Carta, in un libro lucido e appassionato, in vendita in Italia dal 20 febbraio:

> C. Ruini, G. Quagliariello, “Un’altra libertà. Contro i nuovi profeti del ‘paradiso in terra’”, Rubbettino Editore, 2020.

Qui di seguito se ne offre un assaggio. Sono tre brani nei quali il cardinale Ruini affronta la questione dell’aborto volontario. Dapprima come dato di fatto, poi analizzandola alla luce della sola ragione, e infine con un’attenzione speciale all’insegnamento della Chiesa, culminato nel pronunciamento “infallibile e irreformabile” di Giovanni Paolo II nell’enciclica “Evangelium vitae”, un’enciclica che “sembra scritta oggi”, tanto le sue previsioni si sono avverate, ma che troppi – nota il cardinale – sembrano aver accantonato.

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L’ABORTO, SPECCHIO DELLA CRISI DELL’OCCIDENTE

di Camillo Ruini

(da: “Un’altra libertà. Contro i nuovi profeti del ‘paradiso in terra’”)

1. IL CORAGGIO DI CHIAMARLO “OMICIDIO”

Nei casi riguardanti l’inizio della vita la rivendicazione della libertà individuale è fuori luogo, perché si decide non di se stessi ma di un altro, il nascituro, a meno di pensare che il nascituro stesso sia semplicemente parte del corpo della madre: assurdità insostenibile perché egli ha il proprio “dna”, un proprio sviluppo e interagisce con la madre, come risulta sempre più chiaramente.

L’alternativa è pensare che il nascituro non sia un essere umano ma potrà diventarlo soltanto dopo (dopo la nascita, o dopo la formazione del sistema nervoso, o dopo l’impianto nell’utero…). In realtà si tratta sempre dello stesso essere che si evolve, come fa anche dopo la nascita. La sua continuità è accertata come la sua distinzione dalla madre. Non è mai, dunque, un “animaletto” di specie non umana. Sopprimerlo è sempre, dal concepimento ossia dalla fecondazione dell’ovulo in poi, sopprimere un essere umano. Perciò l’enciclica “Evangelium vitae” di Giovanni Paolo II non esita a parlare di omicidio e mette in guardia dalle manipolazioni del linguaggio che nascondono la realtà. Chiede invece di avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome: “aborto volontario” e non asettica “interruzione della gravidanza”.

2. IL NO ALL’ABORTO ALLA LUCE DELLA SOLA RAGIONE

C’è un nesso tra l’attacco alla vita e la crisi dell’Occidente e dell’umanesimo occidentale? Io credo di sì, e per rintracciare il tratto comune mi rifaccio all’enciclica “Evangelium vitae”. […] È stata scritta venticinque anni fa ma nella sostanza sembra scritta oggi, con l’unica variante che oggi la situazione si è appesantita e i rischi allora denunciati si sono largamente realizzati.

Nel primo dei suoi quattro capitoli l’”Evangelium vitae” evidenzia infatti le minacce attuali alla vita umana, che tutti conosciamo. Non si limita però a descrivere la situazione ma ne esamina le cause.

La giustificazione base degli attentati alla vita umana è la rivendicazione della libertà individuale: vedi lo slogan anni ’70: “L’utero è mio e lo gestisco io”. Oggi, sempre sulla base della libertà individuale, viene affermato il diritto al testamento biologico e di lì al suicidio assistito, situazioni nelle quali non solo decido io ma vincolo gli altri, medici compresi, alla mia libera scelta.  […]

Ma vi è una profonda contraddizione alla base del disagio e dell’infelicità della nostra epoca, quindi della sua tendenza a evadere da noi stessi e dalla realtà. Da una parte è grande la rivendicazione della libertà e dei diritti del soggetto, fino a erigere questa libertà a criterio assoluto delle nostre scelte. Dall’altra parte il soggetto è concepito semplicemente come un frutto dell’evoluzione, una “particella della natura” (“Gaudium et spes,” 14), che come tale non può essere realmente e interiormente libero e responsabile né può rivendicare alcuna centralità o alcun diritto di fronte alla natura che lo ignora e non si cura di lui. Questa contraddizione esplode drammaticamente in casi come la morte di un giovane o una malattia invalidante, che appaiono privi di senso e del tutto inaccettabili.

L’”Evangelium vitae” fa un assai impegnativo passo in avanti per uscire dalla contraddizione. Perché la rivendicazione della nostra libertà possa veramente avere un senso non è necessario che Dio non ci sia – come ha ritenuto gran parte del pensiero moderno – ma al contrario che Dio ci sia.

Infatti, solo se all’origine della nostra esistenza non vi è soltanto una natura inconsapevole ma anche e ancor prima una libertà creatrice, possiamo essere realmente e interiormente liberi. È questa una grande intuizione di Kant, ripresa da Schelling, che l’enciclica propone nella propria ottica. […] Quando riflettiamo su ciò che rende possibile che una vita umana sia realmente libera e abbia davvero un significato, ci rendiamo conto che non possiamo fare a meno di Dio, e non di un Dio qualsiasi ma di Dio nostro creatore, autore e fondamento della nostra vita e della nostra libertà.

Perciò la pretesa di essere noi i padroni della vita e della morte, nostra o addirittura altrui, è sbagliata per diverse ragioni. Innanzi tutto perché la libertà non è qualcosa di isolato e di assoluto ma può esistere solo in relazione alla realtà, cioè agli altri e all’ambiente in cui viviamo. In secondo luogo perché la nostra vita e la nostra stessa libertà vengono da Dio e sono intrinsecamente in rapporto con Lui, sono legate a Lui e in ultima analisi dipendono da Lui.

È infondato perciò trattarle come qualcosa di soltanto nostro, di cui non dovremmo rispondere a nessuno: dobbiamo risponderne davanti alla realtà che noi siamo, davanti alla società a cui apparteniamo e in ultima analisi davanti a Dio nostro creatore.

Nel dibattito pubblico non parliamo mai di questo rapporto con Dio per evitare l’accusa di difendere la vita per motivi confessionali, ed è giusto procedere così. Viceversa, in sede di approfondimento mi sembra doveroso accennare a questo aspetto, che getta luce sulle radici ultime della nostra libertà. Chi difende la vita e non è credente può, naturalmente, non essere d’accordo: la difesa della vita è senz’altro possibile anche a prescindere dal rapporto con Dio.

3. UN “NON UCCIDERE” CHE VALE ANCOR DI PIÙ PER I CATTOLICI

L’insegnamento della “Evangelium vitae” va riproposto con argomenti razionali, come raccomanda l’enciclica stessa, che è rivolta a tutti e chiede a tutti attenzione e simpatia per la causa della vita, senza temere l’impopolarità e senza scendere a compromessi. Ma la medesima enciclica è rivolta in primo luogo ai cattolici, a cominciare dai vescovi, e propone una verità che vale per tutti ma vale a titolo speciale per i credenti.

Nel pubblicarla, Giovanni Paolo II ha inteso compiere un atto del più alto valore dottrinale, massimamente impegnativo per i credenti. È questo infatti il documento del suo pontificato nel quale impegna maggiormente il suo magistero, affermando che il comandamento “Non uccidere” ha un valore assoluto quando si riferisce a persone innocenti. Questa precisazione, “innocenti”, è importante in rapporto al problema della legittima difesa, che può condurre lecitamente fino all’uccisione dell’ingiusto aggressore, e anche per la questione della pena di morte, che la Chiesa oggi esclude perché si può difendere la convivenza umana senza ricorrere a essa, ma non ha sempre escluso nel passato.

Secondo l’”Evangelium vitae” questa “inviolabilità assoluta della vita umana innocente è una verità morale esplicitamente insegnata nella Sacra Scrittura, costantemente ritenuta nella tradizione della Chiesa e unanimemente proposta dal suo magistero”. Essa è frutto del senso della fede, suscitato e guidato dallo Spirito Santo, che “garantisce dall’errore il popolo di Dio, quando esprime l’universale suo consenso in materia di fede e di costumi”. “Pertanto, con l’autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi successori, in comunione con i vescovi della Chiesa cattolica – scrive Giovanni Paolo II –, confermo che l’uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente è sempre gravemente immorale” (n. 57). Questa formula solenne esprime un pronunciamento infallibile e irreformabile. […] Il papa usa la parola “confermo” – e non “dichiaro” – per sottolineare che si tratta di una verità già prima appartenente al patrimonio della fede cattolica. […]

Di tutto ciò molti cattolici anche praticanti non sembrano purtroppo consapevoli: sostengono infatti e mettono anche in pratica riguardo all’aborto posizioni incompatibili con la fede che professano. […]

È interessante quello che possiamo qualificare come il risvolto intraecclesiale di questo intervento: nell’enciclica “Veritatis splendor” di due anni prima il papa aveva affermato che esistono verità di ordine morale contenute nella rivelazione divina, e che il magistero della Chiesa le può definire infallibilmente. Vari teologi cattolici, di parere contrario, avevano obiettato che di fatto non ci sono verità morali su cui il magistero sia intervenuto infallibilmente. La presa di posizione non riformabile dell’enciclica “Evangelium vitae” riguardo all’inviolabilità della vita umana innocente e in particolare all’aborto risponde in maniera molto concreta a un’obiezione del genere.

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