Privacy Policy Cookie Policy

Il grande sogno di una Europa unita ha tenuto assieme, per molti decenni, milioni di cittadini europei. L’idea di avere un continente in cui finalmente potesse perdurare la pace e dove persone e mezzi potessero circolare senza più confini ha rappresentato per i giovani un ideale e un futuro a cui tendere. Dopo l’avvio del processo di unificazione, tuttavia, complice la più grande crisi economica e finanziaria del Dopoguerra, quel sogno sembra essere venuto meno e la fiducia sconfinata che si era nutrita nel grande progetto europeo si è trasformata, improvvisamente, in un forte scetticismo verso l’idea stessa di Europa, fino a sfociare, in molti paesi del Vecchio Continente, addirittura in una chiara e netta avversione. Non è soltanto la crisi economica, dipesa da molti fattori esogeni, la causa di questa disillusione. Ad aver fallito sono state anche le istituzioni europee, e le scelte dei responsabili politici, che hanno creduto nell’ideale, di stampo evidentemente socialista, “uniti e uguali”, proponendo soluzioni che hanno mirato ad uniformare le politiche, soprattutto economiche, dei vari Stati membri, nonché le loro performance, senza tenere conto della natura dell’Unione, caratterizzata da un elevatissimo grado di eterogeneità e difformità tra le varie economie nazionali.

Questo saggio intende spiegare perché la scelta incondizionata della cosiddetta “integrazione positiva”, avente lo scopo di raggiungere obiettivi egualitari, è la principale causa della crisi di fiducia nell’Unione e propone, al contrario, l’idea di una “integrazione negativa” di stampo liberale, con l’obiettivo di attuare politiche comunitarie che valorizzino le differenze tra Stati, in competizione tra loro, al fine di tendere verso l’ideale dell’ “uniti e diversi”. In particolare, il lavoro intende prendere come esempio quello dell’integrazione fiscale europea, spiegando perché il progetto franco-tedesco, attualmente in discussione, di accentrare il potere decisionale in mano a istituzioni sovrannazionali, con regole di redistribuzione delle risorse basate su meccanismi concessionali, sia destinato a fare fallire l’unione economica e perché, al contrario, un sistema federalista di tipo competitivo possa portare l’Unione Europea a risultati superiori in termini di integrazione e di benessere per i suoi cittadini.

Il livello di apprezzamento dei cittadini europei nei confronti dell’Unione Europea ha ormai toccato i minimi storici da diversi anni. L’avvento dei partiti cosiddetti “populisti”, “sovranisti”, “anti-establishment”, “euroscettici” – degli aggettivi usati per descrivere i movimenti contrari all’Europa si è ormai perso il conto – porta a credere che la fiducia nel grande sogno europeo che ha segnato i primi decenni del Dopoguerra abbia ormai imboccato un declino inarrestabile. Certamente, la Grande Recessione che ha colpito l’economia mondiale dieci anni fa, Europa compresa, e che ancora non si è risolta, ha giocato un ruolo fondamentale nell’abbassare notevolmente il grado di apprezzamento dei cittadini verso le istituzioni europee. Crollo dei livelli di crescita, aumento della disoccupazione e della povertà, utilizzo di draconiane politiche economiche per risolvere crisi di debito sovrano, come nel caso emblematico della Grecia, hanno stremato la popolazione europea, che ha reagito ribellandosi alle istituzioni del Vecchio Continente e all’idea di una maggior integrazione, intesa come cessione di sovranità nazionale ad una entità sovrannazionale come quella dell’Unione.

A pensarci bene, però, viene da domandarsi se la crisi economica e istituzionale che ha investito l’Europa sia proprio la causa del crollo del livello di fiducia nelle istituzioni comunitarie, oppure sia l’effetto di una architettura costruita male fin dall’origine, nonostante tutte le buone intenzioni che la reggevano. Per capire questo, occorre tornare alle origini del dibattito europeo. Per farlo, è utile confrontare due differenti concezioni di Europa, intesa come federazione di stati, che si sono scontrate a cavallo degli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso.

In un breve saggio pubblicato nel 1939[1], il grande filosofo ed economista Friedrich A. von Hayek, padre del liberalismo moderno, difese la prospettiva di una federazione liberale e decentralizzata dell’Europa. Come i padri fondatori europei, Hayek riteneva che “lo scopo principale della federazione interstatale fosse quello di assicurare la pace”. Tuttavia, egli aveva anche aspettative speciali sulla logica economica che doveva caratterizzare il federalismo europeo. Una federazione duratura, sosteneva, non richiede solo un’unione politica, ma anche economica, al fine di eliminare le molte barriere economiche indotte dalla politica che artificialmente finiscono con intaccare gli interessi dei suoi membri. La peculiarità della concezione di Hayek sull’unione economica, a differenza delle discussioni odierne sullo stesso argomento, è la sua aspettativa che potrebbe essere centrata solo attorno a una nozione di “integrazione negativa”, cioè basata sulla libertà di circolazione del lavoro, dei beni, dei servizi e dei capitali, opposta al perseguimento di politiche economiche e regolamentari centralizzate e dirigiste.

L’intuizione di Hayek è semplice: da un lato, il movimento senza ostacoli dei fattori di produzione – chiamate oggigiorno le quattro libertà fondamentali – limiterebbe significativamente la misura in cui gli Stati possono regolare le loro economie interne, esposte alla concorrenza all’interno della federazione. La concorrenza, quindi, nella visione liberista di Hayek, genera sempre e comunque vantaggi collettivi. D’altra parte, in un’unione vasta e diversificata con culture e livelli diversi di sviluppo economico, le politiche economiche interventiste sarebbero sicuramente percepite dai cittadini come intrusive, divisive e discriminatorie, e quindi sarebbero difficili da perseguire. La risultante dovrebbe essere quella di politiche economiche più liberali e la parziale devoluzione delle funzioni alle unità regionali e locali, gli Stati membri. Queste ultime competerebbero in uno spazio continentale aperto, garantito da istituzioni federali forti ma limitate nei loro poteri. In breve, la federazione di Hayek è uno spazio aperto e sussidiario, non un governo centrale forte e intrusivo. Alle istituzioni comunitarie sono assegnate solo le funzioni centrali – difesa, politica estera e le quattro libertà del mercato interno – mentre i trattati europei incoraggiano il decentramento e la concorrenza, non la centralizzazione e l’armonizzazione delle regole, a partire da quelle fiscali.

La visione federalista di Hayek è agli antipodi di quella di altri pensatori europeisti della prima metà del secolo scorso, come Altero Spinelli. Nel suo celebre Manifesto di Ventotene (1941), Spinelli dedicò gran parte delle sue energie alla denuncia dei crimini dell’”imperialismo capitalista”, che egli identificò come una delle cause alla radice del totalitarismo. Lungi dall’essere basata sulla visione di un mercato aperto, competitivo e decentralizzato, la sua unione europea ha obiettivi dichiaratamente socialisti: “la rivoluzione europea deve essere socialista, cioè deve avere come obiettivo l’emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per loro di condizioni di vita più umane”. L’unità europea dovrebbe favorire “la lotta contro le ineguaglianze e i privilegi sociali” consentendo le nazionalizzazioni e la tassazione redistributiva.

La federazione di stati concepita da Spinelli prevede chiaramente un livello di interventismo pubblico decisamente più elevato di quello concepito da Hayek, e sia il governo federale che le entità federate sono programmaticamente intrusive e centralizzate. Nonostante i ripetuti attacchi di Spinelli a “la sovranità assoluta degli Stati nazionali”, il suo ideale di federalismo europeo sembra essere, paradossalmente, proprio simile a loro. Attributi essenziali della politica e della società federalista, come la preferenza per il decentramento e la cooperazione volontaria, così come il rispetto delle identità nazionali e regionali, sono completamente tralasciati in Spinelli, la cui enfasi è evidente nel forgiare forti istituzioni centrali e nel perseguire una riforma radicale delle società europee al fine di raggiungere obiettivi egualitari.

Molti anni sono passati da allora, l’Unione Europea si è di fatto compiuta e in Europa è ora possibile circolare liberamente, adottando una unica moneta, l’Euro. Ma, si diceva, gli errori nella costruzione dell’architettura unitaria hanno minato la fiducia degli europei nell’Europa, in particolare nelle sue istituzioni comunitarie, viste come lontane dalle esigenze dei popoli, eccessivamente burocratiche, complesse e intrusive.

Nel tentativo di risolvere questo crollo senza precedenti di fiducia nell’Unione, complice il rischio che i partiti “populisti” possano presto prendere la maggioranza dei consensi all’interno del Parlamento europeo, i due paesi leader Germania e Francia, per volontà della cancelliera tedesca Angela Merkel e del presidente francese Emmanuel Macron, hanno unito le loro proposte di riforma della traballante governance europea nella Dichiarazione di Meseberg, che nelle loro intenzioni vuole essere una vera e propria road map per la riforma dell’Europa. Certamente il tentativo di mettersi d’impegno per cambiare lo stato delle cose è senz’altro da apprezzare. Quello che preoccupa, di quella proposta, sono però i contenuti. Dalla lettura del testo della dichiarazione, si può facilmente notare, infatti, come le proposte franco-tedesche si pongano più sulla linea socialista di Spinelli che su quella liberale di Hayek e creano istituzioni europee ancora più invadenti e centralizzate. Ciò è evidente, ad esempio, dalla lettura degli obiettivi relativi alla politica fiscale e di tassazione comunitaria allorché si propone di “Realizzare una convergenza fiscale effettiva tra Francia e Germania in merito all’imposta sulle imprese. Entrambi i paesi hanno concordato una posizione comune sulla proposta di direttiva della Commissione che istituisce una base imponibile comune per le società: la promuoveremo congiuntamente al fine di sostenere e accelerare il progetto europeo di armonizzazione della base imponibile delle imprese in Europa” e di “Raggiungere un accordo Ue su un’equa tassazione digitale entro la fine del 2018”. Armonizzazione ed equità sociale sono esattamente le caratteristiche precipue di ogni sistema fiscale di stampo socialista, contrapposto a quello di competizione e libertà di imposizione tipico della società liberale. Al principio liberale di sussidiarietà, poi, Francia e Germania contrappongono la volontà di creare istituzioni economiche comunitarie ancora più forti e invasive, come il Meccanismo europeo di stabilità (Mes): “Come primo passo, dobbiamo modificare il Trattato intergovernativo del Mes al fine di includere uno strumento di garanzia comune, migliorare l’efficacia degli strumenti precauzionali per gli stati membri e rafforzare il suo ruolo nella valutazione e nel monitoraggio dei programmi futuri. E in una seconda fase possiamo quindi garantire l’integrazione del Mes nella legislazione europea, preservando le caratteristiche chiave della sua governance.

Ulteriori attività dovrebbero essere intraprese in un quadro appropriato per il sostegno alla liquidità necessaria alla risoluzione.

La condizionalità rimane un principio di base del trattato sul Meccanismo europeo di stabilità e di tutti gli strumenti del Mes ma va adattato a ciascuno strumento.

Ricordiamo che qualsiasi decisione di fornire sostegno alla stabilità attraverso il Mes a uno stato membro dell’area dell’euro include un’analisi della sostenibilità del debito (Dsa).

Per migliorare il quadro esistente promuovendo la sostenibilità del debito e migliorarne l’efficacia, dovremmo iniziare a lavorare sulla possibile introduzione dell’euro CaC (collective action clauses) con l’aggregazione a un solo capo. Se ritenuto appropriato, il Mes può facilitare il dialogo tra i suoi membri e investitori privati, seguendo la prassi del Fondo monetario internazionale.

Il Mes dovrebbe avere un ruolo rafforzato nella progettazione e nel monitoraggio dei programmi in stretta collaborazione con la Commissione e in collegamento con la Bce e sulla base di un compromesso da trovare tra la Commissione e il Mes. Dovrebbe avere la capacità di valutare la situazione economica generale negli stati membri, contribuendo alla prevenzione delle crisi. Ciò dovrebbe essere fatto senza duplicare il ruolo della Commissione e nel pieno rispetto dei trattati.

Ogni qualvolta uno stato membro richiede l’assistenza finanziaria del Mes, può anche richiedere l’assistenza finanziaria dell’Fmi.

Il Mes potrebbe essere rinominato.

Dovremmo rendere gli strumenti precauzionali esistenti più efficaci per garantire la stabilizzazione. Tale supporto dovrebbe comportare condizionalità.

Come ulteriore sviluppo della linea di credito cautelare del Mes (Pccl), il supporto alla stabilità potrebbe essere utilizzato in caso di rischio di penuria di liquidità, quando i membri del Mes rischiano di subire una graduale perdita dell’accesso al mercato, senza la necessità di un programma completo.”

 

Meccanismi precauzionali, concessionalità, monitoraggio dall’alto, stabilizzazione, progettazione centralizzata di programmi economici. La semantica racchiusa in queste proposte è degna di ogni più classico vocabolario socialista. Locuzioni come competizione, decentramento, sussidiarietà, tipici, invece, di quello liberale non sono per nulla menzionati. La Dichiarazione di Meseberg lascia intendere come le proposte franco-tedesche rischino di portare l’Unione Europea ancora di più verso il modello centralista e dirigista che i cittadini europei hanno già deciso di bocciare.

Rimane, poi, difficile da capire come un meccanismo di tipo concessionale come il MES possa essere accettato a livello comunitario, dal momento che un tipo simile di meccanismo, che è poi quello tipicamente utilizzato dal Fondo Monetario Internazionale nei suoi programmai di salvataggi e che è stato usato anche nel caso della crisi greca e di quella argentina, funziona secondo il paradigma di “soldi in cambio di riforme”. Soldi concessi dai paesi più ricchi ai paesi più poveri in cambio di riforme, a patto che questi ultimi accettino di farle, avendo una possibilità di rifiutare praticamente nulla, pena il loro default e l’impossibilità di finanziarsi sui mercati finanziari internazionali.

Un meccanismo, quindi, che non prevede quell’automatismo tipico di ogni federalismo fiscale, nel quale le risorse sono redistribuite dalle giurisdizioni più ricche a quelle più povere secondo formule matematiche predefinite e normate, ma che decide di volta in volta, situazione per situazione, quante risorse assegnare ai paesi in difficoltà in cambio di riforme stabilite ad hoc.

 

Per tutti i predetti motivi è quanto mai necessario che alla proposta franco-tedesca si contrapponga una proposta finalmente di matrice liberale, basata su un federalismo di tipo decentrato, competitivo e sussidiario, anziché basato sui principi socialisti di armonizzazione fiscale ed egualitarismo. In questa prospettiva, un modello di federalismo fiscale che riprenda il modello svizzero potrebbe essere la miglior soluzione, seppur con le dovute differenze da tenere in considerazione, dovute alla diversa scala dimensionale e al fatto che l’Unione Europea è ancora lungi dall’essere una confederazione di stati come quella elvetica.

Per poter convergere verso un modello federale di questo tipo occorre però modificare radicalmente la normativa comunitaria, secondo alcune direttrici precise. Innanzitutto, le regole fiscali dovrebbero essere, possibilmente, stabilite dalla fonte normativa comunitaria di rango più elevato, ovvero dai trattati europei. Questi dovrebbero fissare le aliquote massime che gli Stati membri possono applicare al loro interno. Secondariamente, diversa deve essere anche la ripartizione della potestà impositiva in relazione ai vari livelli di governo.

La tassazione indiretta (IVA, accise e dazi doganali) dovrebbe essere di competenza esclusiva della legislazione di livello comunitario. La tassazione diretta, ovvero quella del reddito personale e societario, dovrebbe essere ripartita, invece, tra il livello comunitario e il livello nazionale. Altre forme di tassazione come quelle della ricchezza, dei patrimoni, dei capitali, delle eredità, dei giochi dovrebbero, infine, essere di competenza esclusiva delle legislazioni nazionali.

Anche in relazione alla struttura della tassazione, le aliquote fiscali dovrebbero essere stabilite dai trattati europei, in relazione al loro ammontare massimo, con la possibilità per gli Stati membri di poterle rimodulare liberamente al ribasso, secondo le loro esigenze e spazi di bilancio. La definizione della base imponibile, invece, dovrebbe essere di competenza esclusiva del livello comunitario. Per quanto riguarda le cosiddette tax expenditures (esenzioni, detrazioni e deduzioni d’imposta), infine, la definizione della lista completa di quelle ammissibili dovrebbe essere stabilita dalla normativa di livello comunitario, mentre dovrebbe spettare poi ai singoli Stati membri decidere quali di queste adottare e in quale misura.

Per quanto riguarda il problema dell’equalizzazione fiscale, la soluzione ideale dovrebbe essere quella dell’adozione di un fondo perequativo, come quelli tipicamente utilizzati nei principali stati federali, dove la perequazione del gettito fiscale è sia di tipo “verticale” (tra livello comunitario e livello nazionale) che di tipo “orizzontale” (tra vari Stati membri), con un trasferimento delle risorse dagli Stati con maggiore capacità fiscale a quelli con minore capacità. La perequazione dal lato della spesa dovrebbe avvenire, invece, in funzione delle caratteristiche topo-geografiche e socio-economiche di uno Stato membro, a vantaggio degli Stati più svantaggiati. A questi fondi perequativi dovrebbero essere affiancati, infine, i già esistenti fondi per le politiche di coesione.

Un sistema fiscale competitivo con le suddette caratteristiche richiede, però, la garanzia da parte degli Stati membri di impegnarsi a raggiungere la massima responsabilità fiscale, ovvero la presenza di un cosiddetto hard budget constraint. Per poter ottenere questo, innanzitutto, occorre che il principio del pareggio di bilancio diventi la regola base. Non è un sistema, tanto per intenderci, per coloro che credono che la crescita economica possa essere raggiunta attraverso un aumento del deficit o del debito pubblico. In un sistema economico dove viene sostenuta la competizione fiscale, infatti, l’indebitamento non può che essere visto come un vero e proprio doping finanziario, in grado di alterare gli equilibri del gioco tra vari Stati. L’azzeramento del deficit pubblico e la riduzione del debito pubblico sono quindi delle condizioni necessarie per poter avviare un sistema di federalismo competitivo.

Una volta rispettato il principio del pareggio di bilancio da parte di tutti gli Stati membri, poi, i trattati europei devono prevedere una norma specifica secondo la quale uno Stato membro può chiudere un esercizio in deficit, ad esempio in una fase di forte recessione dell’economia o in virtù del verificarsi di circostanze eccezionali, imponendo però che quello stesso Stato sia costretto a raggiungere un surplus di bilancio negli anni successivi, quando l’economia è in fase di espansione. Solo per circostanze eccezionali devono poter essere previste deviazioni da questa regola. Ad esempio, se uno Stato chiude un anno in deficit, i trattati devono stabilire in quanti anni questo deficit dovrà essere ripagato, ovvero quanti anni di surplus obbligatorio dovranno essere realizzati. Se il pareggio di bilancio non viene realizzato, i trattati europei devono contemplare l’obbligo di intervento automatico da parte della Commissione Europea nello Stato membro inadempiente. Questa, dovrà prontamente intraprendere azioni volte a ridurre il livello generale di spesa pubblica necessario per ripristinare l’equilibrio di bilancio, senza ricorrere a nocive azioni volte ad aumentare le tasse.

In conclusione, un sistema di federalismo fiscale liberale come quello che viene qui proposto per il futuro dell’Unione Europea non consente pasti gratuiti e al dovere di solidarietà tra Stati membri affianca quello della responsabilità e dell’autodisciplina fiscale. Come qualsiasi altra forma di competizione, affinché il gioco regga i free riders devono essere puniti e i virtuosi premiati. Una governance economica, come quella che si sta delineando in Europa, che punta invece sull’egualitarismo e sulle decisioni imposte dall’alto non potrà che punire i viziosi e mettere i paesi più deboli nelle mani dei paesi più forti. Tutto questo, non potrà che portare, nel lungo periodo, al fallimento definitivo dell’Europa.

[1] LE CONDIZIONI ECONOMICHE DEL FEDERALISMO TRA STATI