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di Carmine Iannone

 

I recenti moti che hanno interessato l’area nord africana, e che sono stati etichettati dai media internazionali con l’accattivante definizione di “primavera araba”, hanno prodotto una serie di conseguenze sia a livello di politica interna dei singoli Paesi interessati sia a livello di equilibrio strategico dell’area. Infatti, da quando il 17 dicembre 2010 un tunisino si dà fuoco per attirare l’attenzione sulla difficile situazione che vive il suo popolo, si è scatenato un effetto a catena che ha coinvolto anche altri Paesi dell’area, in primis l’Egitto e la Libia.

Si è assistito ad un allargamento dell’area della protesta, che ha minato alla radice i regimi politici che da decenni governavano i suddetti Paesi e così, i vari Mubarack e Ben Alì – dopo anni di potere – sono stati costretti a lasciare il comando. Ma ecco sorgere subito il primo problema: l’abbandono dei vari leader ha portato a una reale democratizzazione oppure si è ridotto a un semplice avvicendamento di leadership, senza quindi intaccare la costituzione materiale dei singoli Paesi[1]? E ancora, è cambiato il rapporto tra governanti e governati all’interno dei singoli Stati o le libertà individuali vengono ancora una volta sacrificate in nome della fedeltà al dittatore di turno? Da una prima disamina appare evidente, addirittura lampante, che la cosiddetta “primavera araba” poco ha in comune con la primavera democratica vissuta dai Paesi dell’ex blocco sovietico dopo il 1989; infatti, nell’area nord africana così come in quella mediorientale (per esempio in Siria), i moti hanno assunto spesso il carattere di guerre civili tra bande dagli interessi e scopi diversi, e il ruolo delle forze armate non è stato accompagnato da una reale e profonda democratizzazione dei Paesi in questione.

Senza dubbio, anche in questo caso, lo strumento che ha dato una connotazione globale alla rivolta – che come abbiamo sottolineato era partita da un episodio di cronaca locale – è stato il web e i media in genere che con l’effetto “tam tam” hanno allargato l’area della protesta, facendo leva su problematiche comuni ai vari Stati e su condizioni di vita difficili.

Ma se il bisogno umano di sollevarsi da condizioni di vita miserevoli appare generalizzato, risulta diversificata la dinamica[2] con la quale, all’interno dei singoli Paesi, si sta portando avanti la protesta; per esempio, in Tunisia si assiste allo scontro tra fasce di popolazioni rurali che si oppongono alla borghesia cittadina; in Libia, invece, la protesta ha assunto il carattere di rivolta armata tribale contro il dominio assoluto del clan Gheddafi. In Egitto, la rivolta presenta caratteristiche diverse perché, in questo caso, è stata la borghesia cittadina di uno dei Paesi più culturalmente evoluti dell’Africa ad assumere la leadership del movimento di protesta.

Tutte queste considerazioni iniziali servono a farci comprendere come – prima di allargare la nostra analisi ai possibili sviluppi internazionali e ai conseguenti tentativi di voler imporre una propria egemonia su un’area strategicamente importante del Mediterraneo – occorra considerare i fattori interni ai singoli Paesi, le tradizioni culturali e i modelli politici costituzionali che si vogliono importare. In particolare, la nostra Europa non può disinteressarsi di ciò che avviene in Nord Africa e in Medio Oriente, della domanda di democrazia e di libertà, della ricerca di nuovi modelli economici di sviluppo, della nascita e dell’affermazione di nuove elite che vogliono integrare i loro Paesi nella comunità internazionale.

Un attento osservatore della realtà internazionale come Alain de Benoist[3], ha evidenziato come le questioni economico-sociali abbiano avuto una rilevanza determinante nello scoppio della primavera araba; ma – nello stesso modo – bisogna considerare altri fattori, come la ricerca della libertà, un nuovo protagonismo internazionale in epoca di globalizzazione, la non sopportazione da parte popolare delle dittature familiari-cleptomani. Bisogna anche evidenziare un altro carattere dei moti popolari, ossia l’essere di natura borghese-cittadina e non operaia, oltre al ruolo degli eserciti che, talvolta accompagnando la frustrazione dei ceti popolari, hanno fatto parlare gli esperti di colpi di Stato militari mascherati.

E qui entra in ballo anche il fattore nazionale che, inevitabilmente, chiama in causa il rapporto e l’influenza che la tradizione islamica proietta sul futuro di questi Paesi; a tal proposito, sempre il De Benoist, ha evidenziato come dai moti si evinca un minor sentimento di nazionalismo laico, potremmo dire “all’occidentale”, rispetto al fattore identitario islamico. Ciò non significa che si propenda per un regime islamico di tipo “talebano” – tanto per intenderci – quanto per un senso per l’appunto identitario e tradizionale e quindi, scartato il modello talebano e quello iraniano, ecco profilarsi all’orizzonte il modello turco come sintesi di tradizione islamica e di democrazia, sia pure imperfetta, in fieri, ma pur sempre esempio di regime che ha saputo conciliare strutture militari con democrazia, laicismo con religione, economia in ascesa e sintesi culturale tra occidente, oriente e islam, in un contesto geografico-sociale da sempre difficile e poco ricettivo all’importazione dei modelli costituzionali occidentali, e sotto l’influenza delle tradizioni islamiche[4].

Soprattutto quest’ultimo fattore non può essere sottovalutato, considerando che la religione islamica non ha mai vissuto una fase simile alla Riforma che – all’interno del cattolicesimo – ha dato sviluppo al fattore individuale e liberale dell’uomo nonché alla sua responsabilità, secolarizzando il potere politico e separandolo da quello religioso, favorendo lo sviluppo di modelli costituzionali che si sono articolati sulla separazione dei poteri e sulla tutela dei diritti e delle libertà individuali, anche alla stregua delle rivoluzioni politiche americana e francese. All’interno del mondo musulmano si è rimasti fermi alla Umma – la comunità islamica – che da secoli si regge su regole tradizionali che danno poco spazio alle libertà individuali e, a livello politico, a un’articolazione del potere accentrata ed incontrollata.

Ritornando al nostro tema iniziale si è accennato all’appeal che il modello politico turco potrebbe avere per i Paesi protagonisti della primavera araba, ma si deve altresì accennare ai tentativi turchi di stabilire una propria influenza nell’area e di creare un sistema “turco-centrico” che va dal Nord Africa Magreb-Masrek fino alla regione anatolica.

Alcuni fattori interni ci danno la chiave per comprendere il nuovo protagonismo turco: economia in crescita dell’11% nel primo semestre 2011; forze armate tra le più numerose in ambito NATO; volontà politica – soprattutto da parte del ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu – di sviluppare una nuova strategia estera per la Turchia che tenga conto sia dei fattori geografici territoriali sia di quelli storico-politici[5]. Alla base del nuovo protagonismo turco vi è anche un riesame critico del passato ottomano e del kemalismo, che ha plasmato grazie all’opera del padre della Turchia moderna[6] Kemal Ataturk la politica turca negli ultimi decenni. Taluni hanno visto in questa nuova fase proprio un’evoluzione dal kemalismo, un passo in avanti sia per difendere il retaggio storico ottomano sia per dare impulso al nuovo corso.

Infatti, dopo il ritorno della democrazia nel 1982 – che pose fine al ventennio di dominio dei generali iniziato con il golpe di Goursel del 1960 – i partiti che si rifacevano alla tradizione Kemalista, in assenza dell’alleanza strategica con i militari, perdono la leadership nell’arena politica turca e così i partiti di ispirazione islamica – come quello di Erdogan “Giustizia Islamica” – diventano motori del cambiamento all’insegna di una politica laica ma che tiene nel debito conto la tradizione musulmana[7].

Quest’evoluzione del quadro politico turco si presta ad alcune considerazioni perché, se è vero lo sforzo della leadership turca di dare vita a un modello politico in cui si integrino la tradizione islamica e il desiderio di non perdere la bussola dello sviluppo economico e delle sfide di un mondo sempre più globalizzato, bisogna altresì evidenziare come l’ascesa del partito “Giustizia Islamica” abbia portato riflessi importanti anche in politica estera, mettendo in discussione il vecchio linkage con l’occidente e le alleanze sviluppatesi in epoca di Guerra Fredda.

Ricordiamo altresì che la Turchia è parte integrante della NATO e per la sua posizione strategica ha un ruolo fondamentale nell’area mediorientale[8] e in Asia Centrale; ora, la ricerca di una politica estera a 360° che tenga conto dei molteplici interessi e delle aree di influenza che storicamente hanno fatto parte dell’Impero ottomano, in parte allarma i Paesi confinanti ma finisce col mettere in crisi la stessa Europa e gli Stati Uniti, che si trovano nella difficile situazione di dover prendere le contromisure strategico-diplomatiche verso un Paese che è pur sempre un alleato. E il nuovo protagonismo ha trovato conferma nei recenti fatti della primavera araba quando il premier Erdogan non si è fatta sfuggire la possibilità di effettuare un viaggio nei Paesi interessati, in primis l’Egitto, per attuare una politica di riavvicinamento con il mondo arabo.

Gli effetti di questa politica si ripercuotono sulle relazioni con Israele, con il quale la Turchia aveva un accordo di collaborazione militare in chiave anti terrorismo islamico – ora sospeso – e sulla mai risolta e sempre attuale questione palestinese, verso la quale la Turchia – anche in conseguenza del viaggio all’ONU di Abu Mazen, leader dell’autorità palestinese, per chiedere un pronto riconoscimento dello Stato palestinese – ha adottato una politica accondiscendente arrivando anche a promettere fondi e aiuti economici, qualora la comunità internazionale bloccasse gli aiuti in seguito alla richiesta palestinese di essere riconosciuti come Stato[9].

Anche nei confronti della guerra civile libica la Turchia, dopo i timori iniziali per la sorte dei 25.000 turchi che lavorano in Libia, si è schierata a fianco degli insorti; e così in Siria, dove ha adottato una posizione critica nei confronti delle repressioni del regime siriano. In occidente la svolta turca in politica estera provoca qualche malumore e qualche preoccupazione: in parte si addebita il problema alla miopia dell’Europa, che ha chiuso le porte alla Turchia determinando un suo ritorno alle aree di influenza storica in Nord Africa e Medio Oriente; ma anche nei confronti della politica americana vi è stata qualche critica, soprattutto da parte israeliana, in seguito al discorso di Obama che chiedeva un ritorno ai confini precedenti alla guerra del 5 giugno 1967 per risolvere la questione mediorientale.

All’interno dell’AIPAC[10] vi sono state molte critiche verso questa presa di posizione dell’amministrazione americana e anche preoccupazioni per le future relazioni tra Israele e Turchia, alla luce delle posizioni assunte dal governo turco nei confronti della questione palestinese e della primavera araba nel suo complesso; a tal proposito una studiosa, Anna Maria Slaughter, del Dipartimento di Stato (ufficio pianificazione politica) ha detto che la Turchia negli ultimi 2 anni ha assunto posizioni non in linea con le aspettative americane sia per la questione del nucleare iraniano sia per le vicende siriane, pur riconoscendo alla stessa un possibile ruolo strategico a livello regionale. Il tutto avviene – secondo la Slaughter – mentre l’Arabia Saudita sta prendendo il comando della contro-rivoluzione del mondo arabo verso le richieste di democrazia che provengono dalle popolazioni arabe e l’occidente non riesce a capire, forse perché vittima di vecchi stereotipi, la natura e gli sviluppi della primavera araba[11]. Secondo l’analista americana la Turchia potrebbe assumere un ruolo importante nelle relazioni internazionali del 21° secolo se riuscisse a risolvere i cleavages tra laicismo e islamismo, tra mondo urbano e rurale, tra islam politico e diritti umani.

Ma in occidente si avverte una certa preoccupazione per il recente protagonismo della Turchia e molti sostengono che questo potrà portare il Paese in diretto conflitto con l’occidente stesso, nonché con gli interessi degli USA e della NATO[12]; infatti il nuovo corso della politica estera turca, elaborato e pianificato dal ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, prevede: la fine della subordinazione turca nelle relazioni internazionali; la difesa degli interessi nazionali turchi nelle diverse aree dell’Egeo, del Mediterraneo, del Nord Africa, del Medio Oriente e dell’Asia centrale, considerate da sempre sensibili; un ruolo importante ai fini della determinazione e delle scelte politiche nelle suddette aree. In parole povere, la Turchia chiede di contare di più e di avere un diritto riservato per le aree da lei ritenute sensibili per i propri interessi nazionali[13]. Secondo l’abile e astuta strategia di Davatoglu – non a caso definito il “Kissinger dell’Anatolia” – la Turchia deve ricorrere al soft power, inteso come sistema di influenza e pressioni non violente, determinate dalla dinamicità e dallo sviluppo del modello politico economico[14] turco negli ultimi anni, per creare una zona definita “arco d’amicizia e d’influenza” dove far pesare la propria leadership[15]. Sin dal 2009 il ministro degli Esteri turco ha portato avanti una politica tendente a eliminare ogni sorta di problemi con gli Stati confinanti con la Turchia; tale politica non a caso è stata definita “zero problemi con i Paesi vicini” e si è sviluppata in una serie di iniziative e azioni tendenti a eliminare alcuni motivi d’attrito con i Paesi confinanti.

Per esempio, vi è stato un tentativo di regolarizzare i rapporti con l’Armenia anche se affondato nelle reciproche accuse sull’olocausto degli armeni nel 1915, quando migliaia di loro vennero deportati e uccisi in campi di concentramento. Nei confronti di Siria e Iran vi sono state iniziative tendenti a favorire una transizione democratica e porre fine alla repressione, nel caso siriano, e a mediare sulla questione nucleare nel caso iraniano, col fine di rendere vana e superflua l’opzione militare.

In tali azioni vi è la convinzione turca che l’area mediorientale deve evolversi sotto la spinta e l’influenza determinante della Turchia verso una transizione democratica all’insegna di un’economia liberale; ma il nuovo approccio del ministro degli Esteri turco, che come un abile tessitore cerca di mettere tutte le pedine diplomatiche al posto giusto, non è stato esente da critiche sia all’interno del suo Paese che all’estero da parte degli alleati della NATO.

In particolare si è accusato Davatoglu di voler portare l’asse della politica estera turca verso oriente isolando il Paese dall’occidente, nonché di essere ambiguo su alcuni punti come le relazioni con l’Iran, dove la Turchia si è impegnata ad appoggiare un programma nucleare per uso civile e che in occidente è stato interpretato come un’azione anti occidentale, dal momento che non eliminava dalla politica iraniana i progetti nucleari[16]. Le stesse politiche “pace in patria e pace nel mondo” e “zero problemi con i vicini” hanno sollevato alcune perplessità negli analisti occidentale perché se la Turchia mira a una politica di pacificazione regionale non si spiega per quale motivo spende 5 miliardi di dollari per spese di riarmo che ai più risultano incomprensibili vista l’assenza di minacce palesi ai confini.

Uno sguardo più approfondito da parte degli analisti ha fatto evincere che il nuovo corso della politica estera turca mira, in parte, a ripristinare sotto diverse spoglie ed etichette la vecchia influenza che l’impero ottomano[17] aveva nel 19° secolo, quando il Sultano cercava di mantenere l’influenza e il controllo dell’area mediterranea, dell’Egeo e del Medio Oriente nei confronti delle potenze europee; a suffragare ancor di più una tale interpretazione in chiave anti occidentale ecco venirci in aiuto la dichiarazione di un esperto turco di politica internazionale, Aladin Borugadi, secondo cui i musulmani non dovrebbero servire gli interessi della NATO[18]. Quindi la politica estera turca elaborata dal Davatoglu[19] è al centro di interpretazioni e critiche; nella stessa Turchia vi è stato chi ha cercato di mettere in evidenza i benefici e i costi della nuova politica estera turca. Nei piani del Davatoglu vi è il progetto di dare vita a una confederazione simile al commonwealth britannico dopo la seconda guerra mondiale, con la quale tenere legate alla Turchia le aree d’influenza di Medio Oriente, Balcani e Asia centrale.

Un tale progetto può dare senza dubbio benefici a livello economico, con la creazione di un’area omogenea per gli scambi e lo sviluppo, ma a livello politico presenta alcune difficoltà a causa dei difficili rapporti con alcuni Stati come la Grecia, per la questione di Cipro e le acque territoriali nell’Egeo, e l’Armenia, per il già ricordato genocidio del 1915; non meno impegnativo appare tentativo di mediazione nella scottante questione del nucleare iraniano e delle vicende libanesi[20].

Questo tipo di discorso è importante per capire come lo sforzo della diplomazia turca non è esente da errori di giudizio e incongruenze, come nel caso delle vicende libiche, dove si è celato dietro la difesa dei cittadini turchi che lavoravano nel Paese il reale interesse economico per le materie prime, come il petrolio e il gas, dei quali la Libia è ricca. Anche nei confronti della sollevazione popolare in Siria ci sono state incongruenze e contraddizioni, che hanno portato a un riesame critico di tutta l’azione diplomatica turca per distinguere tra la retorica e gli slogan roboanti[21] – dei quali si è fatta menzione – e la realtà dei fatti cosi come si sono sviluppati e si determinati; talvolta i mezzi impiegati non si accompagnano a una reale influenza politica[22], e così tutta l’attività di soft power e persuasione nelle aree di interesse non riesce a connettersi in politica di influenza reale. La sfida alla quale è chiamata tutta la diplomazia turca[23] è quella di essere in grado di connettere e far fruttare in termini di guadagni reali[24] l’attività diplomatica svolta[25].

Senza dubbio la politica estera turca deve essere interpretata sia come sfida interna[26] per la propria leadership, che si trova dinanzi alla primavera araba e deve impegnarsi affinché i nuovi equilibri regionali non vadano a danno degli interessi turchi in relazione all’occidente, in particolare gli USA e l’Europa, che da parte loro devono tener conto della nuova realtà emergente come ha fatto – in parte e in maniera ambigua – l’amministrazione Obama quando, prima, si è schierata a favore dell’entrata della Turchia nell’Unione Europea e, poi, ha fatto retromarcia cercando di capire i timori e le perplessità degli altri Paesi europei[27].

Accanto a questi legittimi dubbi riguardanti l’azione politico-diplomatica turca, vi sono nel mondo occidentale alcuni dubbi che riguardano la reale valenza dell’instaurazione della democrazia nel mondo arabo-mussulmano, consci del fatto che manca una tradizione storico politica caratterizzata da principi ormai affermati nella nostra civiltà atlantico-occidentale come libertà, democrazia e diritti umani, anche perché il mondo arabo solo recentemente sembra volersi aprire alla comunicazione globale[28].

Infine, bisogna considerare la valenza dei movimenti all’interno dei Paesi della primavera araba e i possibili sviluppi nelle relazioni con il mondo occidentale; alcuni osservatori e analisti hanno evidenziato come in taluni Paesi – per esempio la Siria – si assiste a una lotta tra la maggioranza sunnita riconducibile ai fratelli Musulmani contro la minoranza alawita alleata con l’Iran e gli sciiti. Gli interessi perseguiti vanno dalla ricerca di una rivoluzione democratica fino al nazionalismo più esasperato; se anche volessimo dare caratteri borghesi ad alcuni di questi movimenti, non sempre troveremmo una qualche sintonia con quelli del mondo occidentale. In genere, i movimenti e le sommosse che stanno infiammando il Nord Africa e il Medio Oriente appaiono – a un’analisi approfondita – estranei alla cultura occidentale e addirittura tendenzialmente si pongono in opposizione alla nostra civiltà perché mettono in discussione equilibri ed egemonie stabili, aprendo a scenari futuri incerti e potenzialmente pericolosi per l’occidente[29].

 

[1]    Stratfor Global Intelligence, «Riesame della primavera araba», 15-08-11

[2]    Lisa Anderson, Demistificare la primavera araba, «Foreign Affairs», 06-05-11

[3]    Alain de Benoist, Primavera Araba? «Diorama Letterario», 04-10-11

[4]    Rash Khalidi La Primavera araba «The Nation», 21-03-11

[5]    Worldpress.com

[6]    Sugli eventi e sulle azioni che hanno determinato la nascita della Turchia moderna si veda Anna Maria Porciatti, Dall’impero Ottomano alla Turchia moderna: cronaca e storia, Alinea, Firenze 1997.

[7]    Sonar Cageptay Da Ataturk ad Erdogan: rimodellando la Turchia, «Hurriyet daily news», 21-08-11

[8]    Burak Bilgehan Ozpek Primavera araba o inverno turco «Near East Quarterly Review»

[9]    Cioffi Giovanni, Il ruolo turco nella primavera araba, «Euros EU» 06/10/11

[10] American Israel Political Action Committee.

[11] Ilhan Tamir, Sarà necessaria una primavera araba per la Turchia?, «Hurriyet daily news» 29/05/11

[12] Ilham Tamir, La Turchia verso una potenza regionale, «Hurriyet daily news»01/07/11

[13] Mehmet Alì Birod, La Turchia non sarà più un ragazzo tranquillo, «Hurriyet daily news»

[14] Gokhan Kinteren, La Turchia tra le prime sette economie, «Hurriyet daily news» 06/10/11

[15] Semih Idez, Davatoglu torna al tavolo da disegno, «Hurriyet daily news» 12/09/11

[16] Murat Yetkin, La politica estera di Davatoglu, «Hurriyet daily news» 07/10/11

[17] Yusuf Kahli, Erdogan ed i neocolonialisti, «Hurriyet daily news» 18/09/11

[18] Burok Bekdil, Zero problemi 100 problemi rivisitati, «Hurriyet daily news» 08/09/11

[19] Occorre anche sottolineare come per sintonizzare l’intero corpo diplomatico sulla stessa linea di politica estera Davatoglu ha dato vita a periodici incontri di “Brainstorming” con il corpo diplomatico turco accreditato all’estero con lo scopo di indottrinare i diplomatici sulle nuove direttive della politica estera turca, sul nuovo ruolo della Turchia nel mondo, sul diritto turco di essere consultati sui problemi riguardanti le aree confinarie o storicamente sensibili all’influenza turca.Yusuf Kahli, Politica estera per la Turchia, «Hurriyet daily news» 04/01/11

[20] Cuneyt Ulsavar, Analisi costi-benefici della politica estera turca, «Hurriyet daily news» 25/01/11

[21] Erdogan ha sostenuto che la Turchia deve essere «fonte d’ispirazione» per i Paesi che vogliono uscire dai regimi dittatoriali ma nello stesso tempo occorre evidenziare come la gestione del potere e dell’influenza risulta determinante allorché la stessa Turchia diventa fattore dinamico negli equilibri della regione e non più dello statu quo diplomatico. Carnegie Endowment, La Turchia e la primavera araba report 2011

[22] Anatolia News Agency, L’influenza crescente della Turchia in Medio Oriente, 08/06/11

[23] Una data importante per la politica estera turca è stata il 17/12/2010 quando il consiglio di sicurezza nazionale ha approvato il Libro Rosso sulla politica estera turca dei prossimi anni. Valentino Gentili, Libro rosso e politica estera turca, Eurasia 2011

[24] Negli ultimi anni la Turchia ha effettuato un upgrading del suo ruolo in Nord Africa e Medio Oriente in virtù di un’economia dinamica e di un modello politico che sembra aver integrato tradizione islamica e democrazia; Islamic World Forum, Turchia e primavera araba, 25/05/11

[25] Giuda Grunstein, Turchia e primavera araba, «World Politics Review» 06/05/11

[26] Emiliano Alessandri, La Turchia alla prova della rivolta araba, Istituto Affari Internazionali 20/03/11

[27] Cesare Merlini, USA ed Europa dinanzi al nuovo corso della politica estera turca, Istituto Affari Internazionali 19/07/10

[28] Guyum Dyer, La democrazia e gli arabi, «Hurryet daily news» 02/03/11

[29] Roberto Aliboni, L’orizzonte strategico della primavera araba, Istituto Affari Internazionali 06/05/11