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La recente dichiarazione dell’ex segretario alla difesa americana Bob Gates – con la quale si invitavano i partners alleati europei ad impegnarsi di più in termini di investimenti militari per dare un valido contributo agli Usa nella gestione delle crisi internazionali e non basarsi interamente sull’apparato militare americano – ha riaperto un’annosa questione e vecchie ferite nel rapporto transatlantico.

Il tema si è già riproposto periodicamente nei decenni passati, quando in epoca di guerra fredda,  dinanzi alla minaccia sovietica, le capacità difensive europee si basavano quasi esclusivamente sull’apparato di difesa americano se si esclude la force de frappe francese e l’arsenale nucleare britannico. Le cause della tale situazione sono da ricercare in parte nella scarsa sensibilità di alcuni paesi tra i quali l’Italia per i temi della difesa e degli investimenti militari; ma a livello generale europeo si può ben dire che nell’ambito delle politiche governative i temi della difesa e degli investimenti militari sono stati relegati in secondo piano a favore delle politiche sociali del welfare state. Cosi nella gestione delle crisi internazionali e delle minacce terroristiche, malgrado un’enfatica politica estera europea di sicurezza e difesa, si aspetta sempre che gli Usa si muovano con il loro apparato militare per poi accodarsi in ordine sparso con vari distinguo, e livelli di  partecipazione diversi a seconda dei mutevoli contesti politici interni nazionali.

Finita la guerra fredda nel Ventunesimo secolo tale situazione non è più sostenibile e, così come evidenziato dalla dichiarazione di Gates, occorre un ripensamento delle politiche militari dei vari stati europei, una ricalibratura degli investimenti militari per far sì che il rapporto transatlantico in termini di efficienza e capacità d’intervento non sia squilibrato a favore degli Usa come appare ora. Con ciò non si vuole sostituire al sistema di welfare state uno di warfare state, ma si vuole porre gli stati europei dinanzi alle proprie responsabilità[1], consci una volta per tutte che la sicurezza non è un prodotto a costo zero e che non si può essere usufruitori di sicurezza senza esserne anche produttori.

La dichiarazione di Gates va valutata ed esaminata nella sua duplice valenza americana ed europea: all’interno dell’amministrazione americana c’è malcontento per il contributo europeo in termini di difesa e lo scoppio della crisi libica ha acuito questo malumore soprattutto quando ci si confronta con i costi che gli Usa stanno sostenendo nel nord Africa (1 miliardo dollari) 1/10 del bilancio annuale militare italiano[2]. A livello europeo la chiamata a maggiore investimento per la difesa avviene in uno dei peggiori periodi di crisi economica, e così il dilemma storico “burro o cannoni” sembra avere agli occhi europei una soluzione scontata nel preservare sistemi sociali impostati sul welfare che assorbono risorse in maniera abnorme con una ridistribuzione clientelare ed assistenziale tra cittadini ormai demotivati ed impigriti da un tale assistenzialismo.

La crisi economica non aiuta l’allocazione di risorse per investimenti militari ma, proprio dagli States, uno studio di Martin Feldstein[3] ripropone un vecchio cliché in voga in era reaganiana quando il riarmo anti Urss venne sfruttato come traino di crescita per la depressa economia americana. Infatti secondo l’economista le spese militari possono essere fattore di crescita per l’intero settore economico, ma occorre tenere nella giusta considerazione che il mercato militare si presenta con le caratteristiche oligopolistiche per eccellenza, e che nel valutare le economie di scala che si possono determinare occorre esaminare anche il livello tecnologico del Paese. Così una nazione poco sviluppata può godere solo in parte dell’effetto moltiplicatore determinato dagli investimenti militari mentre una molto sviluppata può goderne in pieno, a condizione però di non ridurre gli investimenti privati e gli incentivi di stato.

Nel caso americano se Obama decidesse di adottare una politica reaganiana – considerando che gli Usa spendono per la difesa circa 700 mld dollari l’anno, somma pari a quella del resto del mondo e soprattutto pari a quella che lo stesso Obama pensa di investire come stimulus package per l’economia americana – nel breve periodo sarebbe necessario aumentare la spesa militare per favorire la crescita. Invece a lungo termine, per avere effetti duraturi in termini di crescita economica, occorrerebbe eliminare le inefficienze che pure ci sono in ambito di burocrazie militari.

In termini economici il dilemma è quello cui abbiamo già accennato: se gli Usa siano in grado di seguire sul piano degli investimenti militari una politica reaganiana o di continuare a sovvenzionare i costi della difesa europea. La questione appare agli occhi dell’economista William Niskanen[4] senza logica, dal momento che il bene pubblico “difesa” deve essere esattamente inserito come altri beni pubblici nei bilanci dei singoli stati sovrani. Per quanto riguarda il bilancio americano le stime per il 2011 evidenziano una spesa pari a 550 miliardi di dollari più di quanto Reagan spese al culmine delle spese di riarmo anti Urss negli anni Ottanta. La riflessione che all’interno dell’amministrazione americana[5] i vari esperti fanno sui compiti della potenza globale fa sì che qualsiasi stanziamento di bilancio venga ingoiato dal rendiconto della difesa e risulti insufficiente, se non si arriva ad una razionalizzazione delle priorità in termini di sicurezza nazionale ed a un maggior coinvolgimento degli alleati europei[6].

Senza dubbio la crisi mondiale ha generato un dibattito costruttivo sui modi di rendere meno oneroso per la collettività americana il suo bilancio militare; c’è la realistica consapevolezza che con una politica estera meno dispendiosa ed interventista gli Stati Uniti possano mantenere un vantaggio considerevole su qualsiasi ipotesi di coalizione nemica, pur risparmiando 1,2 milioni di miliardi di dollari per i prossimi 10 anni. Ciò è possibile se si riordina l’agenda degli impegni internazionali ed il relativo impiego dello strumento militare[7], perché non è possibile mantenere allo stesso tempo una politica estera di high profile e fare economie a livello di investimenti militari[8].

Dopo quest’ampia parentesi sui problemi della difesa Usa e relativi bilanci-investimenti, affrontiamo ora il tema base della nostra ricerca: le spese militari europee. È stato asserito all’inizio del saggio di come, a livello europeo, i temi della difesa e dell’importanza degli investimenti militari, soprattutto nello strategico settore della ricerca e sviluppo, siano considerati in maniera diseguale dai singoli stati. Non vi è dubbio che l’eredità storica, il passato imperiale, un contesto politico interno omogeneo – soprattutto in tema del valore di riferimento sicurezza e difesa della patria – abbiano una certa rilevanza quando cerchiamo di spiegarci perché taluni paesi compresa l’Italia spendono e stanziano cifre modeste  per il loro apparato militare.

In sede europea si è cercato di dare soluzione a tale problematica cercando di centralizzare l’azione di politica estera e di difesa con la “Sezione europea azione esterna” (SEAE). Questo per evitare gli inconvenienti delle diverse politiche estere nazionali e i relativi retaggi storici, ma ci si è dovuti comunque confrontare con le diverse concezioni nazionali in termini di sicurezza e difesa. Ad esempio la Francia, da sempre attenta e sensibile ai temi della grandeur e della sovranità nazionale, ha teorizzato il concetto di “Europa potenza” contro la logica bipolare in epoca di guerra fredda e contro l’unipolarismo dopo la fine della stessa per far risplendere a livello internazionale il suo prestigio determinato anche dall’atout nucleare della force de frappe. Quindi da parte francese ci si è serviti dell’Europa come moltiplicatore della propria potenza nazionale. Diversamente dalla Francia, la Gran Bretagna – dall’alto della sua “special relantionship” con gli Usa – ha adottato per i temi della sicurezza e difesa nazionale un approccio intergovernativo più che sovranazionale. Così mentre da parte francese si è cercato di dare vita ad un’efficace politica di difesa europea, da parte britannica  si è rimasti vincolati ad un approccio intergovernativo-informale che si doveva concretizzare in atteggiamenti pragmatici ed intergovernativi per le questioni della difesa e della sicurezza nazionali che non dovevano intaccare la sacralità della sovranità nazionale[9].

Insieme a queste logiche governative che ci aiutano anche a comprendere in termini numerici le diverse percezioni nazionali del tema della sicurezza in Europa, va valutata anche la scelta di fare di questo continente una “potenza civile” e non militare servendosi di un elevato soft power[10] che lo possa riportare al centro della vita internazionale. Senza dubbio la visione europea può risultare affascinante soprattutto per quei settori dell’opinione pubblica e della politica da sempre estranei e  volontariamente sordi alle problematiche della difesa e della sicurezza nazionale; ma la realtà si impone in tutta la sua complessità. Così un recente report del Center for strategic and international  studies[11] ha evidenziato come a grandi linee i paesi europei abbiano mantenuto nel corso degli ultimi anni bassi livelli di preparazione e di capacità di “combat ready” per gli eserciti nazionali dei paesi aderenti alla NATO.

In particolare si è notato come nell’arco di tempo[12] 2001-2009 il numero del personale militare dei paesi NATO si è ridotto dai 3,5 milioni d’unità del 2001 a 2,3 milioni d’unità del 2009. Ora alla luce di ulteriori tagli dei bilanci militari pari al 6% per l’anno 2011 si prevede una diminuita capacità dei paesi NATO di partecipare in modo fattivo alle missioni militari nelle aree di crisi ed in particolare si scorge un potenziale vulnus nella credibilità militare della stessa Alleanza, anche in virtù di ciò che è stato deliberato nello “strategic concept” del 2010 in occasione del summit di Lisbona, nel quale si è decisa l’adozione di un pacchetto di misure e di dotazione d’armamenti che permettono alla NATO di fronteggiare qualsiasi tipo di minaccia: dalla cyber war alla difesa missilistica da possibili attacchi di “rogues states”. Inoltre per migliorare l’efficienza dello strumento militare si è deciso di favorire tra i paesi dell’Alleanza[13] una nuova collaborazione sulla base dell’interoperabilità e della specializzazione[14] per evitare sprechi di risorse ed una migliore allocazione delle risorse non più sulla base delle logiche nazionali bensì nel contesto più generale dell’alleanza.

La spesa militare europea va valutata non solo secondo un’ottica nazionale ma anche secondo i parametri e le indicazioni che provengono dall’appartenenza dei suddetti paesi alla NATO. Abbiamo già accennato come nel summit di Lisbona del 2010 è stato approvato il piano strategico per gli anni seguenti soprattutto in riferimento alla gestione delle crisi internazionali e così, per garantire una maggiore sicurezza dei membri dell’alleanza oltre che una maggiore celerità nell’approccio e nella gestione delle crisi internazionali, si sono delineate e specificate le varie fasi che vanno dalla prevenzione della crisi alla gestione della crisi stessa, dalla stabilizzazione dopo intervento militare alla ricostruzione. Per garantire una tale gestione della crisi in ambito NATO si è pensato anche di affiancarle lo strumento economico rappresentato dal “Programma sicurezza ed investimenti” (NSIP) per l’anno 2011, nel quale si evidenziano alcuni punti focali come gli investimenti militari, la razionalizzazione delle forze armate per ricercare il massimo vantaggio operativo, la necessità da parte europea di colmare il divario militare nei confronti degli USA e di adeguarsi alla Rivoluzione degli Affari Militari (RMA) avvenuta dopo la fina della guerra fredda[15].

Anche riguardo quest’ultimo aspetto è stato evidenziato, da parte di alcuni paesi, come Gran Bretagna e Francia cerchino di adeguarsi alla RMA, soprattutto per quanto concerne il campo delle tecnologie informatiche applicate alla difesa, mentre altri paesi adottano politiche che allargano ancor di più il divario militare con gli altri paesi. In termini grezzi di aride cifre numeriche, che poi sono quelle che racchiudono ed spiegano meglio il nocciolo della questione, possiamo dire che secondo gli ultimi dati disponibili forniti dal SIPRI[16] di Stoccolma malgrado la crisi economica mondiale, che ha determinato decurtazioni nei bilanci militari, la Gran Bretagna e la Francia siano di gran lunga i paesi che investono di più in termini di ricerca militare. Infatti dinanzi ad una riduzione del 10% per l’anno 2010 la Gran Bretagna spende per investimenti militari la cifra di 38,4 miliardi di euro, la Francia[17] è invece stabile con un 0,3% e spende 32 miliardi di euro, la Spagna con una riduzione degli stanziamenti per il 2010 del 4% spende 7,7 miliardi di euro mentre l’Italia, a fronte di una decurtazione di stanziamenti per il 2010 del 2%, spende 14,3 miliardi di euro.

In rapporto al PIL la Gran Bretagna si posiziona al 2,3%, la Francia al 1,7%, la Germania al 1,8%, l’Italia al 0,9%, la Spagna al 0,7%. In termini di spesa per la ricerca dai dati si evince come la Gran Bretagna e la Francia spendano di più con rispettivamente 15,6 e 10,5 miliardi di euro, mentre altri paesi come la Germania, l’Italia e la Spagna si assestano rispettivamente sul 7,6%, 3,2% e 1,1% del proprio bilancio militare per le spese di ricerca e sviluppo. Per rendere ancor di più l’idea della pochezza numerica di tali stanziamenti possiamo dire che, considerato l’aggregato popolazione europea e il Pil prodotto e paragonato agli USA, l’Europa spende per investimenti militari 1/4 di quanto spendono gli Stati Uniti mentre la percentuale delle spese per ricerca e sviluppo assomma ad 1/6 della spesa americana[18].

Un altro parametro utile per farci comprendere la dimensione della spesa militare europea è dato dal raffronto delle spese per il singolo soldato tra i vari paesi europei. Così per l’Italia abbiamo una spesa di 82.000 euro annui rispetto ai 194.000 della Gran Bretagna, 136.000 della Francia, 124.000 della Germania. Sulla base di questi dati ed appoggiandoci sempre sui dati SIPRI del 2011 possiamo dire che, dinanzi ad una spesa mondiale di 1630 miliardi di dollari (in termini reali +1,3% rispetto al 2009 e +50% rispetto al 2001 che costituisce il 2,6% del PIL mondiale pari ad una spesa pro capite per abitante di 236 dollari), l’apporto degli Usa risulta determinante se si considera che il resto del mondo, esclusi gli Stati Uniti, contribuisca solo per lo 0,1%. Ed ancora in un arco di tempo più ampio 2001-2010 possiamo vedere come le spese militari USA sono cresciute del 81% a fronte di una crescita del 32% del resto del mondo e del 2,8% dell’Europa[19]. A fronte di una crescita delle spese americane per il 2010 di solo 2,8% rispetto ad una media del 7,4% negli ultimi 10 anni possiamo quantificare la suddetta spesa nella cifra di 689 miliardi di dollari nella quale sono compresi gli oneri per la difesa, l’intelligence, gli interventi all’estero, gli approvvigionamenti, la ricerca e lo sviluppo.

Se diamo uno sguardo ai dati di spesa che trapelano per l’anno 2011 possiamo ben dire che la forbice tra spesa militare americana ed europea non può che allargarsi: in sede NATO sono previsti tagli pari a 300 milioni di euro, il -18,2% rispetto 2010 dai fondi d’esercizio che includono spese per carburanti, ricambi, addestramento del personale. In termini di investimenti per il 2011 si è previsto un bilancio di 3.454,700 milioni di euro con un +266 milioni euro rispetto al 2010 in cui sono compresi anche i progetti NATO Eurofighter, F.35 Joint strike fighter oltre che all’acquisto degli elicotteri NH 90 Tornado e sommergibili U122. Il bilancio difesa dei paesi NATO per il 2011 è pari a 20.556.900.000 milioni di euro, il 2,2% del PIL; ora al netto dei fondi destinati alla difesa scendiamo a 14.787.000.000 milioni di euro, lo 0,92% PIL ed al netto delle funzioni esterne ed ausiliarie si ha il reale bilancio della difesa paesi NATO: 14.360.000.000 milioni di euro, lo 0,89% del PIL[20].

Analizzando i dati dei paesi NATO e soffermandoci sulla funzione difesa dei bilanci militari europei possiamo dire che la Gran Bretagna[21] stanzia per la funzione difesa 38.348 milioni euro (pari al 2,32 Pil per una spesa pro capite di 617 euro), la Francia 32.150 milioni euro (pari al 1,61% PIL per una spesa pro capite di 496 euro), la Germania 31.367 milioni euro (pari al 1,28 PIL per una spesa pro capite 384 euro). Se allarghiamo lo sguardo ai paesi dell’Europa orientale[22], quasi tutti entrati nell’Alleanza atlantica, possiamo notare come il trend emerso per i paesi NATO[23] dell’Europa[24] occidentale sulla decurtazione e riduzione dei fondi disponibili per gli investimenti militari, si presenta ancora più accentuato. I dati infatti testimoniano un -28% per la Bulgaria, -26% per la Lituania, -25% per la Georgia, -10% per Albania, Grecia e Slovacchia. Se poi vogliamo valutare l’andamento degli investimenti militari in Europa orientale[25] per il periodo 2001-2011 possiamo dire  che la crisi economica[26] ha fatto lievitare gli investimenti militari solo del 4,1%.

Dopo aver passato in rassegna i bilanci militari dei paesi europei chiudiamo la ricerca esaminando la spesa militare italiana e le politiche di difesa e sicurezza nazionale adottate dal nostro governo. Prima di entrare nell’arido contesto dei numeri e delle cifre di spesa è opportuno fare alcune digressioni sulla politica di difesa adottata dal nostro paese negli ultimi 50 anni. In tale arco temporale ci si è basati sulla collaborazione transatlantica e sul processo d’integrazione europeo, uniche possibilità di restare aggrappati ai vertici della politica di sicurezza[27] e difesa[28] mondiali evitando in tal modo velleitarismi e fughe in avanti che non potevamo permetterci. A lungo andare l’ancoraggio europeo ed atlantico non ha evitato il deterioramento della funzionalità operativa delle forze armate italiane anche in virtù di stanziamenti insufficienti per garantire alti standard di “combat ready”e qualità degli armamenti.

Se poi a ciò aggiungiamo un certo squilibrio tra le voci di spesa del bilancio militare italiano ne viene fuori un quadro a dir poco desolante: l’equilibrio ottimale, che prevede un 50% per le spese di  stipendi-retribuzioni ed un altro 50% per la modernizzazione dei mezzi militari ed l’addestramento delle truppe, risulta squilibrato a favore della voce stipendi per il 60% del bilancio, risultando comunque una percentuale esigua, circa il 26,5%, per la modernizzazione dei mezzi militari, e il 12,5% circa per l’addestramento delle truppe. Le cause di un tale squilibrio sono da ricercare nel fatto che le forze armate sono state intese soprattutto nei decenni scorsi come una valvola di sfogo, un ammortizzatore sociale necessario a dare lavoro a tanti giovani laddove l’offerta di lavoro era scarsa se non inesistente; tutto ciò a discapito dell’efficienza e della qualità dello strumento militare.

Senza dubbio nel nuovo panorama della politica mondiale e dei focolai di crisi internazionali si richiede ai paesi che vogliono avere una statura internazionale un valido strumento militare con capacità di intervento rapido nelle aree di crisi. Perciò anche in Italia sulla spinta dell’abbandono della leva di massa a favore del professionismo ci si interroga[29] sugli stanziamenti militari e sul miglior uso possibile dei pochi fondi disponibili. Mancando risorse aggiuntive per i noti motivi della crisi mondiale, l’unico modo per trovare fondi disponibili per gli investimenti si rivela la razionalizzazione del bilancio[30] attuale, eliminando in tal modo gli sprechi e gli squilibri di spesa a cui abbiamo fatto cenno. Così appare necessaria una riduzione della quota del bilancio per gli stipendi, da portare sotto il 50%, ed un aumento delle cifre per la modernizzazione dei mezzi e l’addestramento delle truppe da portare intorno al 25%.

Addentrandoci ancor di più nella giungla delle cifre possiamo dire che per il 2011 il bilancio di previsione per gli affari militari si attesta sulla cifra di 20,4 miliardi di euro con un +6,6% rispetto al 2010. Occorre anche considerare che sotto la voce “Funzione Difesa” e quindi nel relativo bilancio sono comprese anche altre voci come la funzione sicurezza del territorio (Carabinieri) e la funzione esterna. La questione non è irrilevante dal momento che se sottraiamo dal bilancio del 2011 le due voci sovra citate vediamo come lo stanziamento per la funzione difesa si riduce a 14,3 miliardi euro segnando un +0,2% rispetto al 2010. Andando ancora più a scavare all’interno delle voci della funzione difesa[31] possiamo vedere come le spese per il personale si assestano sulla cifra di 9,4 miliardi euro (+0,9 rispetto 2010), quelle per l’addestramento segnano un -18% rispetto al 2010 (pari a fondi inferiori di 320 milioni euro rispetto al 2010) mentre quelle per gli investimenti si fermano a 3,4 miliardi euro. Se noi volessimo rappresentare su un diagramma a torta l’andamento del bilancio funzione difesa italiano per l’anno 2011 vedremmo come le tre voci “personale”, “addestramento” ed “investimenti” invece di avere un equilibrio ottimale del 40% per il personale e del 30% per le altre due voci, si rivela ancora squilibrato alla voce spese per il personale (65,8% del bilancio) lasciando uno scarso 10% per l’addestramento e il 24% per gli investimenti[32].

Alla luce delle cifre stanziate e degli impegni internazionali del nostro esercito, non ultima la crisi libica, appare evidente come ci sia una certa incongruenza: basti pensare che per la crisi libica i costi hanno raggiunto la cifra di 8 milioni euro dei quali 5,5 milioni per le missioni navali d’appoggio. Se poi allarghiamo lo sguardo alle spese sostenute negli ultimi tre mesi vediamo come si siano raggiunti i 700 milioni euro per le missioni Odissea all’alba ed Unified Protector in Libia. A tali costi vanno aggiunti quelli per la missione in Libano in ambito Unifil pari a 22,3 milioni euro al mese: la nave Libeccio per esempio ha un costo giornaliero di 60.000 euro, la portaerei Garibaldi 130.000 euro, i velivoli Harrier 9.000 euro, i missili in dotazione ai nostri Tornado un costo di 300.000 euro cadauno.

Tali spese[33] determinano un costo complessivo[34] per il nostro paese per i primi 6 mesi del 2011 pari ad un miliardo e mezzo di euro, lo 0,2% del bilancio difesa che arriva a stento a coprire i dati degli stanziamenti previsti. Urge quindi una razionalizzazione dei costi e del relativo bilancio militare nonché un esercito più snello che assesti sulle 150.000-165.000 unità a fronte dei 179.600 attuali che costano 16,5 miliardi di euro rispetto ai 20 stanziati[35]. Il ministro della difesa La Russa ha dichiarato come in occasione della manovra estiva ci saranno risparmi e tagli solo per le spese correnti e non per gli investimenti, per quanto riguarda il bilancio militare italiano. In tal modo dovrebbero essere salvi i progetti avviati per il caccia Lockeed Martin F35 e il lanciamissili Fremm anche se si ignorano a questo punto i tempi di consegna dei primi prototipi.

Il tema della difesa e sicurezza nazionale che in questa ricerca sono stati approcciati in termini economici e di spese per i singoli paesi europei richiedono la massima attenzione e sensibilità da parte delle opinioni pubbliche, consci del fatto che la difesa nazionale, parte della sovranità nazionale e la sicurezza, oltre a non essere mai a costo zero non possono essere mai al 100% perchè come diceva Henry Kissinger “la ricerca della massima sicurezza per il proprio paese comporta la massima insicurezza per i paesi vicini”[36].

 

NOTE

[1]    Robert Kagan in “Paradiso e potere”, Mondadori 2003, ha coniato una locuzione molto accattivante per criticare l’inefficienza degli europei in termini di capacità militari; per lo studioso la causa di ciò è da ricercare nel fatto che gli europei discendono da Venere mentre gli americani discendono da Marte che era il dio della guerra nell’antichità. Di Kagan si veda anche “Il diritto di fare la guerra” Mondadori 2004 

[2]    Andrea Gilli, “Gates, la Nato e le spese per la difesa”, Epistemes 2011

[3]    Andrea Gilli “Aumenta la spesa per la difesa ed anche l’economia”, Epistemes 2011

[4]    William Niskanen, “Martin Feldstein on the defense budget”, Cato Institute. In occasione della Irving Kristol lecture l’economista Martin Feldstein ha fatto una dichiarazione sorprendente nel senso che non esiste il pericolo di bancarotta da imperial overstreach quando si spende meno del 5% del PIL per il bilancio della difesa. Secondo i dati del 2010 le spese per la difesa americana e sicurezza nazionale sono state il doppio di quelle delle amministrazioni Ford e Carter negli anni Settanta; se gli Usa vogliono mantenere un ruolo di global broker devono sottoporsi ad alti tassi di defense spending.  

[5]    Ciò avviene malgrado l’amministrazione Obama abbia pianificato tagli nei bilanci militari; è necessario un riesame dei compiti americani nel mondo anche perchè l’equazione “più spendo, più sono sicuro” è di dubbia veridicità. Perciò onde evitare un indebolimento economico a causa dell’eccessiva spesa militare con conseguente vulnus alla capacità di generare ricchezza per l’economia americana occorre rifocalizzare i compiti Usa nel mondo e la relativa strategia d’approccio. Si veda Cristopher Preble, “Toward a responsible Defense budget”, Cato Institute.   

[6]    Cristopher Preble and Benjamin H. Friedman “A U.S. Defense Budget worty of its name”, Cato Institute.

[7]    Secondo Ronald Reagan la difesa non comportava problemi di budget e per raggiungere alti livelli di sicurezza e difesa occorreva spendere il dovuto. Cristopher Preble, op. cit.

[8]    Cristopher Preble, “U.S. Military cost must less and do less”, Cato Institute.

[9]    Report Nouvelle Europe 18/05/2011

[10]  Concetto elaborato da Joseph Nye negli anni Novanta con il quale si intende la capacità di ottenere ciò che si vuole senza ricorrere alla forza (hard power) tramite la propria forza attrattiva; il politologo si riferisce dunque a quell’insieme di valori che si cerca di evidenziare e rappresentare; la teorizzazione del soft power non tiene conto della grandezza geografica e così anche piccoli paesi possono essere detentori di soft power. Joseph Nye, “Soft Power”, Einaudi 2005

[11]  Second line of defense “Transatlantic defense troubles” Richard Werte Center for strategic and international studies.

[12]  Nello stesso arco di tempo Valerio Brioni in “La scure della crisi sul bilancio militare” Istituto Affari Internazionali da ora IAI ha evidenziato come la la spesa militare europea sia stata solo del 4,1% del PIL che in presenza di materiali facilmente deteriorabili e bisognosi di manutenzione ed aggiornamenti tecnologici ha determinato una battuta d’arresto per l’efficienza dello strumento militare europeo.

[13]  Secondo il rapporto del CSIS “ Transatlantic defense…”op.cit  la Gran Bretagna,la Francia e la Germania costituiscono il 65% della spesa europea per la difesa e l’88% per i progetti di ricerca e sviluppo sempre in ambito militare.

[14]  Michele Nones “Ancora di salvezza:l’unione europea”IAI ha evidenziato come una soluzione per uscire dall’impasse della crisi degli investimenti militari europei vada cercata in un approccio diverso che tenga conto della specializzazione ed eccellenze nazionali, superi le logiche nazionaliste e favorisca una ristruturazione dell’industria bellica europea.

[15]  NATO WEB LINK

[16]  Stockolm International peace research institute autorità mondiale per quanto riguarda le cifre dei bilanci militari e del mercato delle armi. I dati sono dell’ultimo bilancio militare disponibile più recente del 2010.

[17]  La Germania anche si colloca sulla stessa cifra della Francia con un 0,3% ed una spesa di 3,2 miliardi di euro. 

[18]  Alessandro Marrone Giulio Maria Raffa “La sfida del bilancio della difesa” IAI

[19]  Cristopher Preble “Robert Gates’victory lap”Cato Institute 06-06-2011

[20]  Nato review 2011

[21]  Secondo U.K. Publishing spending la Gran Bretagna spende per la funzione difesa per l’anno 2011, 40 milioni di sterline e 8,2 milioni sterline per missioni esterne.

[22]  I dati sull’Europa orientale sono tratti dalla rivista Eurasia.

[23]  In ambito NATO è stato ribadito che occorre un cambiamento radicale nei criteri di spesa militare ed un adeguamento dei budget militari tra i membri dell’alleanza in modo tale da evitare squilibri in termini di prestazioni e capacità operative. NATO review 2011

[24]  A livello europeo è sempre vivo il dibattito sulla possibilità di una credibile difesa europea e vede in prima linea anche economisti come Andrè Sapir il quale sottolinea come vi siano due concezione d’Europa: intergovernativa per i grandi stati dalle grandi tradizioni militari come Francia e Gran Bretagna, e comunitaria per i piccoli stati che storicamente hanno sempre avuto un hard power debole e di secondo livello; inoltre sempre Sapir evidenzia che a livello di spese NATO, gli Usa contribuiscono per il 75% dei costi totali mentre 20 anni fa contribuivano “solo” per il 50%; Euronews 2011.  

[25]  Secondo i dati dell’Economist solo la Polonia mantiene un tasso del 2% PIL per investimenti militari,gli altri paesi sono sul1%PIL 

[26]  Sempre secondo l’Economist del 12-05-2011 possiamo rilevare come in taluni paesi dell’Europa orientale il tema della sicurezza nazionale sia passato in secondo piano rispetto ai temi della competitività sui mercati internazionali, la disoccupazione, il mantenimento di un generoso welfare state. 

[27]  Sempre in ambito di sicurezza e difesa l’Italia fa parte di alcuni organismi come: L.O.I. Letter of intent per la difesa europea, Agenzia Europea Difesa,organizzazione congiunta e cooperazione in materia d’armamenti OCCAR, Defense Package Commission. Michele Nones “L’Italia e gli accordi….” op. cit 

[28]  Michele Nones “L’Italia e gli accordi franco-britannici” IAI 

[29]  Mario Arpino in “Forze armate al bivio” IAI ha evidenziato come dal Consiglio Supremo Difesa sia partito l’input per una maggiore razionalizzazione delle risorse per le forze armate per renderle sempre più omogenei in termini di capacità operative con quelle dei maggiori paesi europei; inoltre all’interno del Ministero della Difesa è stata istituita la Commissione alta consulenza e studio per la riorganizzazione dei sistemi di sicurezza e difesa nazionali. 

[30]  Vincenzo Camporini “Le patologie del bilancio della difesa italiana” IAI.

[31]  Valerio Brioni Alessandro Ungaro “Forze armate alla ricerca dell’equilibrio perduto” IAI

[32]  Il presidente di Finmeccanica Guarguaglini si è detto preoccupato del taglio investimenti per ricerca e sviluppo che può mettere in diffficoltà progetti già avviati come Eurofighter e lanciamissili Fremm e perciò si augura il mantenimento dello stanziamento di 2 miliardi euro come da leggi 828 e 471.Rapporto Difesa 2011.

[33]  Risulta importante anche dare uno sguardo ai costi sostenuti dagli altri paesi nella crisi libica; un report del Pentagono ha evidenziato come le spese americane per la crisi libica nei primi 6 mesi 2011 raggiunge i 664 milioni dollari di gran lunga superiori alla stima fatta da Bob Gates per tutto il 2011 di 250 milioni di dollari; la Francia per i primi tre mesi ha speso 87 milioni euro, la Gran Bretagna 300 milioni di sterline. Rapporto Difesa 2011.

[34]  Secondo i dati forniti dal Financial Times l’Italia per l’anno 2011 ha sostenuto i seguenti costi per le missioni all’estero: Afganistan 3.647.000 euro, missione Unifil Libano 259 milioni euro, Kossovo 130 milioni euro, altri interventi esterni 5 milioni euro.

[35]  Rapporto difesa 2011 ICSA  Intelligence culture and strategic analysis

[36]  Henry Kissinger “Anni di crisi” Sugarco 1984