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Lectio magistralis tenuta alla Summer School 2008 della Fondazione Magna Carta

 

 

 

Per questo dobbiamo sentire come impellente l’esigenza di rielaborare e ridefinire categorie che ci permettano di pensare in maniera nuova la dimensione fondamentale del vivere insieme. Personalmente ritengo che categorie come reciprocità, tolleranza ed integrazione – marcatamente occidentali – si stiano rivelando non necessariamente sbagliate, ma insufficienti. Non tanto per i valori cui rimandano, quanto per quello che non riescono a pensare e a comunicare.

Prima di tutto occorre insistere sul fatto che l’inedita mescolanza di popoli che caratterizza le nostre società, imponendo come inevitabile l’incontro tra enti e religioni diverse, è innanzitutto un processo in atto, che io indico con l’espressione meticciato di civiltà e di culture. Non è quindi nè una teoria sull’integrazione culturale nè una categoria complessiva di comprensione della realtà. E’ un nome dato ad un processo. La categoria di meticciato di civiltà permette però di far riferimento ai cosidetti “universali concreti” delle religioni. Ma se di universali concreti si tratta, vissuti quotidianamente da quei soggetti comunitari che sono i popoli, si comprende allora che la strada per l’incontro tra gli uomini non può essere altro che la testimonianza. A patto di dare a questa categoria tutta la sua forza fondativa e teoretica, lontani da riduzioni di stampo moralistico.

La scelta di riferisi a degli universali concreti si precisa anche come tentativo di interpretazione culturale delle religioni. Anche le religioni, infatti, in ogni tempo, sono inevitabilmente assunte dai soggetti che le praticano dentro una interpretazione culturale. Nasce così un conflitto di interpretazioni. Vale per il Cristianesimo, vale per tutte le religioni. Per esempio, in Italia si incontrano e si scontrano in questa fase di “post secolarismo” due interpretazioni culturali del Cristianesimo.

La prima è quella di chi rischia di ridurlo ad una religione civile, che faccia da collante per tenere insieme la nostra affaticata democrazia.

L’altra è quella che io definisco “cripto-diaspora”. Molti sostengono che, proprio perchè il Cristianesimo non è una religione civile, esso dovrebbe ridursi all’annuncio personale della Croce di Cristo, e di Colui che predicò il Regno e sclese la forma del povero, mentre per quanto riguarda la questione pratica dell’etica, dell’economia e della politica i cristiani debbono stare in diaspora senza nulla di proprio da proporre in comune.

Ma c’è anche una terza interpretazione, minoritaria, che io sostengo e cerco di perseguire, che sta sul crinale della montagna e tenta di evitare di cadere sia nella riduzione a religione civile, sia in quella della dimensione di cripto-diaspora, proponendo un’interpretazione integrale del fatto cristiano e mostrando tutte le implicazioni, antropologiche, sociali, cosmologiche dei misteri del Cristianesimo. E’ vero che per la visione cristiana del “pratico” sono comuni a tutti gli uomini, ma dalla sequela comunionale di Gesù Cristo scaturiscono, a livello di tutte le implicazioni richiamate, precise proposte, talora necessarie talora contingenti, per vivere il “pratico” (etica, economia e diritto) secondo verità e, quindi, in pienezza.

 

Indice

La religione nella società in transizione

Riflettere sulla libertà religiosa e di coscienza

La libertà religiosa: il “caso serio” del rapporto verità-libertà

Testimonianza, proposte e dialogo