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Le alchimie del destino hanno voluto che il viaggio di Salvini in Russia coincidesse con le bombe esplose all’università di Kerch. E anche se la mattanza sembra priva di movente politico, un’ulteriore coincidenza sta nel luogo in cui si è svolta, la Crimea, che è il principale casus belli che divide non tanto Usa e Russia, quanto Ue e Putin, e che sembra legittimare la necessità delle sanzioni.

La proposta di toglierle, di alleggerirle, o almeno di aprire una via preferenziale per le nostre imprese, è stato l’obiettivo della missione di Salvini, ad anticipare l’incontro che Conte avrà con Putin. Sul piano teorico, eliminare le sanzioni alla Russia ci sembra giusto e necessario. Tali misure infatti raramente svolgono il loro ruolo, quello di indebolire i regimi che ne sono colpiti. In genere li rafforzano, e così certamente è stato per Putin.

Quanto i danni ad alcuni settori della economia russa, se vi sono stati, sembrano assorbiti dalla crescita di altri: a scriverlo non è un organo putiniano ma il « Wall Street Journal » di ieri, secondo il quale le sanzioni americane avrebbe fornito alla Russia «un’imprevista spinta». In compenso, le sanzioni hanno danneggiato le imprese italiane: si calcola una perdita di sette milioni di euro al giorno. Di cui si sono avvantaggiate altre imprese, di  paesi che hanno interpretato in maniera diciamo così più elastica le sanzioni. Il minimo che potremmo fare è cercare, almeno, di favorire le nostre imprese, facendoci anche noi altrettanto convessi. Scendendo dalla teoria alla pratica, però, togliere le sanzioni non sembra per nulla facile, per l’opposizione dei paesi della Ue e della stessa commissione.

In realtà, più di quest’ultima che dei primi, visto che la Germania continua a mantenere stretti rapporti con la Russia. Se l’ala «putiniana» della Spd si è indebolita, è ora la stessa Merkel che, incontrando in agosto Putin, ha impugnato il dossier del gasdotto Nord stream 2, mentre l’Italia nel 2014 avventatamente stracciò il contratto con Gazprom su pressione della Europa…merkeliana. Quanto a Macron, farebbe ponti d’oro affinché qualcuno, miracolosamente, togliesse le sanzioni. Insomma pare che la rigidità dei principi etici sia, come al solito, utilizzata dai big dell’eurozona per aumentare le loro fette di mercato. Da questo punto di vista non dovremmo preoccuparci dell’isolamento della nostra opposizione alle sanzioni, un isolamento peraltro molto relativo visto che i paesi di Visegrad (con eccezione di Varsavia) probabilmente ci seguirebbero. Aprire troppi fronti però, come insegnano i manuali di strategia, è pericoloso.

Con la Ue e, in parte, con alcuni dei suoi paesi, ne abbiamo almeno due, sugli immigrati e sulla manovra: inaugurarne un terzo è possibile? Salvini ha dichiarato di sentirsi più a casa in Russia che in alcuni paesi Ue, e sta bene, ma qui bisogna essere prudenti perché un nostro eccessivo sbilanciamento nei confronti della Russia potrebbe mettere in pericolo o almeno incrinare il rapporto con quel paese di cui abbiamo, però, soprattutto ora, più bisogno di tutti: gli Usa. Ne abbiamo bisogno per la Libia: se la conferenza di Palermo si terrà e soprattutto se ne sortirà qualcosa, la mano di Trump è indispensabile per ritornare a essere protagonisti, dopo il disastroso errore della guerra a Gheddafi. Abbiamo bisogno degli Usa dal punto di vista finanziario; e se certo i fondi americani non comprerebbero il nostro debito perché lo ordina Trump, abbiamo visto in più occasioni come gli investitori di Wall Street abbiano giocato un ruolo nel sostenerci. Abbiamo infine bisogno di Trump nella nostra competizione politica con Bruxelles: Trump ha tutto l’interesse a indebolire la Ue a trazione tedesca (con ruotina francese): e noi a lasciarci alle spalle la Ue a dominanza teutonica.

Tutto questo difficilmente potremmo ottenere da Putin, anche se sulla Libia un ruolo importante lo può e lo deve assumere. E in parte l’abbiamo capito, visto che il progetto della Tap va nell’interesse dell’amministrazione Usa. E’ poi probabile che Trump e Putin siano assai meno nemici di quanto si voglia credere (vero spauracchio della Casa Bianca è Pechino): ciò potrebbe, nel suo piccolo, fare svolgere a Roma un ruolo di mediazione. Che poi sarebbe quello tradizionale della politica estera italiana fin dalla guerra fredda: fedeli, anzi fedelissimi, atlantisti, Moro, Andretti, Craxi (poi, dopo il crollo del Muro, Berlusconi) si consentirono al tempo stesso aperture a Mosca che nessun altro paese Nato si era permesso. La politica estera, che in larga parte è geopolitica, non obbedisce alle ideologie e ai programmi di partiti: si muove su tempi lunghi, spesso secolari. Fedeli a Washington ma aperti a Mosca: questa la tradizione da continuare.

 

L’articolo è tratto da “Il Messaggero” di giovedì 18 ottobre 2018 ed è di Marco Gervasoni