08 Febbraio 2007  

A confronto con l’islam: etica della tolleranza e dovere della identità

Redazione

 

E’ un “luogo” classico quello per cui stiamo diventando una società multiculturale, multirazziale, multireligiosa e che tale processo è ormai inarrestabile. Su questi temi ci si interroga da tempo: la sempre più massiccia presenza musulmana nell’Europa occidentale, le problematiche legate alla convivenza con una religione profondamente diversa, il ruolo dello Stato nel rapporto con il fenomeno religioso, il dibattito sulle radici cristiane dell’Europa, il dialogo fra laici e credenti, le questioni legate alla emergenza terroristica di matrice fondamentalistica islamica. Partiamo da un dato: l’ordinamento giuridico dell’islam è parte integrante della religione islamica: la legge islamica è la Parola divina, il precetto dato da Allah, sovrano e legislatore della Comunità musulmana. In virtù di ciò non esiste autorità qualificata a modificarlo. E’ un diritto ritenuto per ciò stesso sacro e immutabile. La superiorità dell’elemento confessionale su quello giuridico comporta la soggezione al diritto musulmano del credente in quanto tale, indipendentemente dalla sua appartenenza ad uno Stato di tipo laico. Da qui anche la diversità più profonda del diritto islamico rispetto all’idea laica di tipo europeo del diritto come emanazione del potere sovrano: poiché il potere sovrano spetta a Dio viene meno anche ogni distinzione tra norme giuridiche e norme morali.

Di certo non esiste un unico islam, poiché non esiste alcuna omogenea area musulmana, ma vi è al contrario un’area musulmana nella quale la sharia ha campi di applicazione diversi, da una estensione massima come in Arabia Saudita e in Iran, ad una minima come in Tunisia; altresì – non c’è neppure bisogno di dirlo – sarebbe un errore gravissimo confondere l’islam con il fondamentalismo islamico. C’è però un dato importante da tenere in considerazione: le formule costituzionali dei vari paesi islamici che dichiarano l’islam religione di Stato e la sharia fonte principale del diritto non possono essere considerate come clausole di stile, semplici rituali o formule vuote prive di forza normativa. La sharia per gli Stati islamici si pone come norma superiore alle norme giuridiche, comprese quelle costituzionali, e, insieme, come legittimazione del potere. Il sistema del diritto islamico appare cioè connotato – lo ha sostenuto A. Predieri nel libro Sharia e Costituzione, 2006 – da un «diritto apicale comune», superiore a quello dei singoli Stati islamici. In questa prospettiva la sharia non è una legge, un codice, un decalogo, una tavola, un documento, ma un vero e proprio sistema di valori che trascende il diritto, le diversità etniche, i luoghi, i tempi. E’ la base di ogni organizzazione istituzionale, di ogni ramo del diritto, di ogni politica, anche di ogni Costituzione; è la comunità, la patria, il mondo, la bussola nei momenti delle scelte tragiche, l’elemento unificante: in ultima analisi, la coesione di un intero popolo.

Se ammettiamo ciò, in che modo l’islam può radicarsi nel contesto laico degli ordinamenti dei paesi dell’Unione europea nell’ambito dei quali la religione, pur essendo parte della vita sociale, è nel contempo tenuta distinta da essa? Delicati sono infatti i problemi che nascono da queste nuove dimensioni della convivenza e che si pongono all’attenzione degli organi di governo con sempre maggiore intensità e frequenza, non solo in Italia (si veda ad esempio il libro di M. Parisi, L’islam e i paesi europei: problemi giuridici e di legalità costituzionale, 2002): dall’ora di religione islamica in alternativa a quella cattolica nelle scuole pubbliche, all’ora di educazione fisica sempre nelle scuole pubbliche per le ragazze musulmane; dall’inumazione dei cadaveri direttamente nel terreno, a questioni ben più gravi come il c.d. statuto personale islamico in materia di successioni, matrimonio, divorzio, educazione dei figli, capacità giuridica, fino ad arrivare alla giurisdizione dei tribunali sciariatici. La convivenza impone dialogo e confronto; né è pensabile continuare ad ignorare il fenomeno.

Ma da dove partire? In Italia, la mancanza di una regolamentazione generale sulla disciplina dei culti non ha spento il dibattito in merito: si pensi ad esempio ai vari progetti di intese che le maggiori organizzazioni islamiche presenti sul nostro territorio da tempo propongono al fine di vedersi riconosciuta e regolamentata dallo Stato italiano la propria autonomia religiosa, analogamente a quanto è stato fatto con le altre comunità religiose italiane diverse dalla cattolica (si veda in proposito il documentato lavoro di A. Cilardo, Il diritto islamico e il sistema giuridico italiano. Le bozze di intesa tra la Repubblica italiana e le associazioni islamiche italiane, 2002).

E’ una strada che, seppur con prudenza, deve essere perseguita: la presenza musulmana in Italia rende quanto mai urgente l’avvio di un confronto tra le istituzioni statali e la controparte musulmana per evitare la nascita di fenomeni di emarginazione sfocianti in episodi di radicalizzazione e di violenza. Non solo. C’è un problema che definirei di atteggiamento culturale. Siamo abituati ad accostarci al tema in termini di tolleranza distaccata. E’ sufficiente oggi questo atteggiamento? Probabilmente no.

Sono d’accordo con chi sostiene che esiste un fondamentalismo laico per il quale l’unico modo di porsi rispetto a culture diverse è quello di farle diventare tutte uguali a sé, cioè di porre la cultura occidentale laica come il punto di arrivo di un percorso che deve essere compiuto. Un’etica laica che si colloca aldilà della religione e che non intende porsi i problemi dei rapporti tra diversi. Quasi essa vivesse un “complesso di superiorità” nei confronti della religione. Si tende cioè ad assolutizzare un’idea di ragione umana dalla quale fare derivare principi e valori morali, uguali per tutti (si veda il dibattito contenuto nel quaderno 1996, n. 3 di Testimonianze e, in particolare, l’intervento di C. Mancina).

Non vi è dubbio che l’etica laica nasce con l’idea di tolleranza, di rottura rispetto ai conflitti e alle guerre di religione, ma nei fatti questo atteggiamento di tolleranza ha condotto ad una progressiva perdita della nostra identità. Quale identità? Prendo spunto da un incontro promosso dalla Fondazione Magna Carta e svoltosi a Roma sul tema “Il dovere della identità”. La identità di un popolo è la sua tradizione e la sua storia e dunque – lo ricordava nell’intervento conclusivo Marcello Pera – romana-giudaico-cristiana. C’è una presenza indiscutibile della cristianità nella nostra storia e nella nostra tradizione. Di ciò non possiamo scordarci. Eppure la nostra identità è anche rappresentata dal principio della laicità dello Stato: una laicità sana che non può significare neutralità, distacco, indifferenza dello Stato rispetto ai valori e ai principi fondamentali dell’uomo. Ragionare diversamente significherebbe commettere l’errore di relativizzare valori e culture. La vita, la dignità dell’uomo, l’eguaglianza, la tolleranza, sono principi a carattere universale e, soprattutto, a disposizione di tutti, che devono essere difesi e sui quali non si può transigere. Se non riaffermiamo con coraggio questa nostra identità corriamo il rischio – lo diceva ancora M. Pera – non solo di non integrare nessuno ma addirittura di arrenderci a chiunque.

Il rapporto con l’islam è dunque un percorso ancora da costruire, irto di contraddizioni e di incognite. Un processo che si gioca anche in casa nostra e che deve essere governato e diretto, sulla base però di due presupposti: l’inviolabilità dei diritti dell’uomo universalmente garantiti e la difesa della nostra identità. Papa Benedetto XVI ha recentemente parlato di diritti fondamentali che preesistono all’uomo: «i diritti naturali e innati debbono ispirare la legislazione e fornire allo Stato l’etica di cui ha bisogno. Per un cattolico essi si riconducono al Creatore, ma valgono comunque per tutti in quanto appunto innati». Se questo pensiero venisse veramente condiviso potrebbero superarsi anche le obiezioni circa la impossibilità di una convivenza tra religioni diverse e si potrebbe realizzare un patrimonio comune di diritti fondamentali.

Si potrà obiettare che l’islam ha una propria peculiare visione dei diritti dell’uomo e che la concezione islamica dei diritti si colloca su un piano diverso rispetto alla concezione occidentale (s’intende laica), trattandosi di diritti che si impongono come un dato di fede in quanto derivano dalle fonti del diritto islamico e non dalla legge naturale (si veda ad esempio il Preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nell’islam, 1981). Ma già il fatto di ragionare di diritti fondamentali dell’uomo, rappresenta di per sé un realistico inizio di confronto e di dialogo, anzi forse l’unico possibile. Quanto all’atteggiamento da assumere nella difesa della nostra identità, dobbiamo forse cominciare a pensare non più in termini di etica del laicismo, o di tolleranza distaccata, ma di etica della responsabilità, quella responsabilità che ci impone di prendere posizioni come cittadini, ancora prima che come cristiani, che ci porta a fare delle scelte, a discutere con convinzione gli argomenti altrui, a combattere con gli argomenti della razionalità, ma anche della fede, le etiche e i valori che non condividiamo. Non è più tempo per chiudersi in un’ottica rinunciataria, passiva, indifferente o semplicemente per delegare ad altri questo tipo di impegni.