Ambiguità bipartisan sull’embargo militare alla Cina
Le recenti dichiarazioni di Prodi circa l’opportunità di revocare l’embargo sugli armamenti nei confronti della Cina, vanno lette nel quadro della competizione interna all’Unione europea per la conquista di quote di mercato cinese nel settore militare ad alto contenuto tecnologico. L’Italia deve guardarsi principalmente dalla concorrenza di Francia e Germania e il Presidente del Consiglio, nel suo viaggio in Cina, ha colto l’occasione per sostenere la posizione nazionale, come prima di lui Berlusconi, Fini e altri esponenti della Casa delle Libertà.
Queste righe, pertanto, lungi dal voler essere una difesa di Prodi dalle critiche trasversali che lo hanno travolto in patria, costituiscono un forte richiamo alla coerenza e all’onestà intellettuale, indirizzato ai politici del centrodestra per la levata di scudi contro il proposito di abolire le sanzioni alla Cina. Solo per un soffio, infatti, nella precedente legislatura il disegno di legge n. 4811, concernente la ratifica di un accordo italo-cinese “nel campo della tecnologia e degli equipaggiamenti militari”, stipulato nel 1989 tra i due Ministeri della Difesa e poi congelato a causa dei fatti di Piazza Tien an Men, non è stato convertito in legge dopo l’approvazione della Commissione Affari esteri. L’accordo, non specificando natura e tipologia degli “equipaggiamenti militari”, potrebbe essere ritenuto incompatibile con le disposizioni europee, ma non è l’unico punctum dolens: l’Italia, in compagnia di Francia, Germania e, in misura minore, la Gran Bretagna, aveva già autorizzato esportazioni di armi verso Pechino, in barba alle medesime disposizioni.
Di conseguenza, per quanto la polemica politica dia luogo a ogni sorta di disinformatia, dispiace che in occasione degli attacchi a Prodi il comportamento della Casa delle Libertà si sia rivelato quanto meno contraddittorio alla luce della condotta osservata durante gli anni di governo. Prodi, replicando, ha raccontato nientemeno la verità, ovvero che l’orientamento italiano sulla questione è lo stesso da anni.
In realtà, è intenzione di tutti i governi e di tutte le opposizioni europee, di destra e di sinistra, porre fine all’embargo. I ripetuti pronunciamenti del Consiglio europeo e le affermazioni di autorevoli membri della Commissione non danno adito a fraintendimenti. Le industrie della difesa smaniano per penetrare nel ricco mercato cinese degli armamenti e alle loro sollecitazioni i politici del sempre più vecchio continente cedono volentieri, magnificando i presunti passi avanti compiuti da Pechino nel rispetto dei diritti umani per giustificare l’annullamento delle sanzioni. Di diverso parere è il Parlamento europeo, le cui risoluzioni favorevoli al mantenimento dell’embargo si fondano sugli insufficienti progressi della Cina in materia di garanzie e libertà civili. L’ultima risoluzione è dello scorso 7 settembre e ha fatto da monito per il successivo summit euro-cinese di Helsinki. Stando alla dichiarazione congiunta rilasciata il 9 settembre al termine del vertice, “the EU side […] confirmed its willingness to carry forward work towards lifting the embargo”, a significare che sarà certamente rimosso, anche se nel documento non è indicata alcuna scadenza temporale.
Va detto, però, che Bruxelles, nel rinviare il termine delle sanzioni a un futuro non meglio precisato, ha tenuto conto più del parere degli Stati Uniti, ostile alla normalizzazione delle relazioni tra Europa e Cina nel settore della difesa, che delle pressioni del Parlamento a promozione dei diritti umani.
Washington teme, anzitutto, per il suo primato nel Pacifico. La flotta cinese al momento non è in grado di competere con quella americana, ma nel lungo periodo potrà rappresentare una minaccia per il controllo delle rotte energetiche e commerciali che attraversano l’oceano. Lo Stretto di Taiwan è il principale tavolo da gioco. Il governo cinese considera l’integrazione dell’isola nel framework continentale una priorità assoluta e, a tal fine, ammette apertamente l’ipotesi dell’uso della forza; ne sono prova la legge antisecessione del marzo 2005, gli oltre 800 missili puntati su Taiwan, in costante aumento, e il riarmo incessante, cui gli europei desiderano contribuire nella sfera dell’alta tecnologia, dove Pechino è carente. D’altro canto, a Taipei cresce l’insofferenza e si rafforzano le spinte autonomistiche. La logica della deterrenza militare è prevalsa sul dialogo e la revoca dell’embargo incoraggerebbe un’ulteriore escalation, col rischio concreto di provocare una rottura dagli esiti bellici. Alle acquisizioni cinesi made in Europe, Taiwan, in pieno stile guerra fredda, reagirebbe con la stessa moneta, affidandosi come sempre alle forniture a stelle e strisce. Gli Stati Uniti approvano la riunificazione, ma solo se per via diplomatica e sulla base del principio “un paese, due sistemi”, a tutela della libertà dell’isola che corre il pericolo di essere fagocitata dal modello autoritario invalso sulla terraferma.
Washington, tuttavia, è consapevole che non riuscirà ancora a lungo a trattenere gli europei dal potenziare le capacità militari cinesi; la minaccia di ritorsioni economiche è volta a procrastinare il più possibile l’abrogazione delle sanzioni, anche in considerazione della dimensione globale della sfida lanciata dal colosso asiatico. Pechino lavora pazientemente alla costruzione di un’alleanza transcontinentale che faccia da contraltare alla potenza degli Stati Uniti e abbracci la causa cinese in caso di conflitto nello Stretto di Taiwan. A questo scopo, opera su due livelli, uno bilaterale e uno multilaterale: al primo, corrisponde la fitta trama di relazioni politiche, economiche, militari e culturali, intessuta vis à vis con i paesi di Asia, Medio Oriente, Africa e America Latina; alla seconda, il ricorso alle Nazioni Unite per osteggiare la politica di Washington in Medio Oriente e nel Golfo, l’asse con Chavez nel Movimento dei Paesi Non-Allineati e la graduale istituzionalizzazione di blocchi regionali come il China-Africa Cooperation Forum (CACF), da condurre alla maniera della Shangai Cooperation Organization (SCO) in Asia Centrale.
In tale ottica, per molti, troppi uomini di governo europei la ragione economica insita nel vendere armi alla Cina – pecunia non olet, è una verità universale, bando al moralismo – si sposa a quella politica propria del multipolarismo ideologico, antioccidentale e antiamericano, incarnato dal vanaglorioso e nostalgico sciovinismo francese in versione gaullista-chiracchiana e dal cattocomunismo prodiano-dalemiano, con la sponda zapaterista a supplire la venuta meno di quella schroederiana. Costoro sono tanto abili a massimizzare il legame transatlantico, quanto lesti a flirtare con il nemico nelle vesti di pacificatori: dai salamelecchi di Washington alle lusinghe rivolte ad Ahmadinejad, passando per le strade di Beirut in compagnia di Hezbollah.
Una delle innumerevoli lezioni della Storia che i paesi occidentali farebbero bene ad applicare, è la necessità di una maggiore accortezza nel dare appoggio politico e militare ai presunti amici, ai nemici dei nemici e ai nemici degli amici, perchè è già accaduto in passato che l’eccessiva disinvoltura si sia imprevedibilmente trasformata in un boomerang. Ci si può fidare della Cina, di un’aspirante superpotenza autoritaria e antiliberale che arma e supporta Iran, Siria, Corea del Nord, Myanmar, Venezuela, Sudan, Zimbawe e chi più ne ha più ne metta? Rimuovere l’embargo equivale virtualmente a mettere la tecnologia militare europea a disposizione dei peggiori regimi del pianeta, che nondimeno potranno riprodurla autonomamente una volta ottenuta la ricetta da Pechino. Eppure, più realisti di Machiavelli e dell’odiato Kissinger messi insieme, gli orfani dell’Unione Sovietica se ne infischiano: quale migliore occasione di rafforzare militarmente la Cina per assestare un bel colpo alla leadership degli Stati Uniti?
In risposta, quando era al governo, il centrodestra si è colpevolmente adoperato a favore del commercio di armi con Pechino. Lo spirito mercatorio ha avuto la meglio sulla linea atlantica che in altre circostanze ne ha illuminato l’impegno internazionale. Sulle ragioni economiche bipartisan non ha affermato le buone ragioni politiche che discendono dalla sua identità culturale e dai nobili valori che la contraddistinguono, lasciando in seguito campo libero ai cattivi “ideali” di Prodi,
D’Alema e compagni. Ora, dal pulpito dell’opposizione è fin troppo facile condannare il Presidente del Consiglio venditore di armi, recitando la parte delle anime belle nelle apparizioni televisive, con la quasi totalità dei propri elettori all’oscuro del disegno di legge n. 4811.
A questo punto, la Casa delle Libertà ha la responsabilità politica e il dovere morale di assumere una posizione inequivocabilmente contraria alla revoca dell’embargo militare alla Cina, dando battaglia, con le parole e con i fatti, affinché le buone ragioni s’impongano sulle cattive, gli affari prendano strade più prudenti e il contributo dell’Italia e dell’Europa al corso storico sia più saggio e lungimirante.