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Osservando i risultati delle elezioni presidenziali 2008, e tenendo conto delle opinioni espresse negli ultimi anni dagli americani nei sondaggi e negli exit polls, è lecito sostenere che nessuno – a fronte della crisi economica, e di una presidenza Repubblicana uscente percepita da troppi cittadini come incapace ad affrontare la recessione che ha attanagliato il paese- avrebbe potuto sconfiggere Barack Obama. Esattamente come accadde per Lyndon Johnson nel 1964, l’America sentiva l’urgente bisogno di cambiare, di lasciarsi alle spalle quello che vedeva come un periodo buio, temendo profilarsi all’orizzonte il crinarsi del sogno americano. Gli Stati Uniti avevano la necessità e il desiderio di tornare a sperare, a sognare; come accadde con Ronald Reagan nel 1980, gli USA hanno dunque scelto un Presidente che è stato percepito in grado di sanare le ferite passate, e di incarnare le loro aspettative future – seppur declinate in forme diverse, dove i vari sottogruppi politici, etnici, generazionali e di genere hanno riposto in Barack Obama speranze differenti (1).

Durante l’ultima campagna presidenziale, John McCain ha lottato indefessamente, pur restando fedele alla sua natura ed al proprio spirito rispettoso nei confronti dell’avversario (2). Non sarebbe opportuno, né tantomeno utile, rimproverarlo per non aver fatto proprie le accuse che equiparavano le convinzioni di Barack Obama a quelle del reverendo Wright, intrise di teologia della liberazione, di nazionalismo nero e di Black Power; o per non aver sfruttato i poco saggiamente definiti “legami terroristici” del Presidente con Bill Ayers e l’organizzazione di estrema sinistra Weather Underground (3); o ancora, di essere stato generalmente troppo politically correct, lasciando a Sarah Palin il ruolo auto-attribuitosi di “mastino col rossetto” (peraltro tradizionalmente prerogativa del vicepresidente), che è consistito nell’attaccare l’avversario senza esclusione di colpi.

A tale proposito, va precisato come la decisione di candidare Palin – giovane, carismatica e relativamente sconosciuta all’establishment di Washington – è stata quantomai appropriata. McCain scelse la Governatrice dell’Alaska per lo spirito maverick che gli rammentava la propria gioventù, per la sua indefessa lotta alla corruzione che l’aveva portata a scontrarsi con il suo stesso partito, per il piglio deciso e quell’infectuous enthusiasm che in occasione della convention Repubblicana portò i Repubblicani in testa ai sondaggi – per la prima ed unica volta – nel settembre 2008 (4). L’innegabile appeal sul conservatorismo sociale che Palin è stata in grado di esercitare si è dimostrato un ulteriore vantaggio per McCain, seppur non sufficiente a battere i Democratici nella corsa alla Casa Bianca.

In realtà, McCain ha dovuto in parte abbandonare il proprio spirito maverick a favore di una linea più tradizionalmente conservatrice per conquistare lo zoccolo duro del proprio partito. Durante la campagna elettorale, McCain aveva tentato di far scivolare nell’ombra gli aspetti del proprio curriculum politico più controversi per i Repubblicani, tra cui la lotta alla corruzione ed alla burocrazia di Washington, la liberalità sui temi sociali e l’opposizione indiscutibile a Guantanamo ed alla tortura. Una volta ottenuta la nomination, McCain ha lasciato in ombra le proprie convinzioni personali, condizionato dalla necessità di mantenere coeso il partito: questo ha fortemente penalizzato la sua candidatura,
tacciandola di incoerenza, dove invece il suo spirito estremamente innovatore avrebbe potuto fare la differenza (5).

Inoltre, è da rilevare come in seguito ai successi riportati nel corso del surge – progetto fortemente voluto e strenuamente difeso dallo stesso McCain – la guerra in Iraq ha perso rilevanza nella corsa presidenziale, e con essa è diminuita l’importanza di eleggere alla Casa Bianca prima e sopra a tutto un autorevole commander in chief (6), ruolo che secondo i sondaggi McCain appariva più adatto a rivestire rispetto a Barack Obama. L’elezione di Obama non significa peraltro che l’America, la right nation, sia diventata improvvisamente meno conservatrice. Quello che negli Stati Uniti non cambia, ed anzi sta andando radicalizzandosi – come hanno dimostrato i già citati referendum collegati alle elezioni presidenziali, ed ha confermato anche uno dei più grandi filosofi politici americani, Michael Walzer – è la fede nei valori tradizionali (7).

Ciò nonostante il conservatorismo negli anni a venire – come ha ricordato David Frum – non potrà accontentarsi di questa realtà, mirando esclusivamente ad aumentare la propria base WASP – quella della piccola imprenditoria e della classe media, identificatasi in Joe l’Idraulico e Sarah Palin, per intendersi. In futuro, il Grand Old Party dovrà cercare di costruire un consenso più ampio, andando a rivestire una posizione dominante nelle università e conquistando il voto delle classi intellettuali, colte e giovani (8).

Per il neoconservatorismo propriamente detto, il futuro appare in ogni caso roseo. I neoconservatori potranno restare all’American Enterprise Institute, beneficiando della profonda sinergia che vantano con questo think tank, e proseguire con le loro ricerche -visto che per almeno altri quattro anni non ci sarà un presidente Repubblicano a “prendere in prestito le loro menti”, per usare le parole che furono di George W. Bush, e chiamarli a collaborare direttamente con la sua Amministrazione. I neoconservatori da un lato lavoreranno per riabilitare la Presidenza Bush, come hanno fatto già nell’ultimo anno e molto probabilmente seguiteranno a fare (9), volti a ripagare un “debito d’onore” verso l’uomo che li ha resi noti al mondo. D’altro canto, verso il Presidente Barack Obama il neoconservatorismo mantiene un atteggiamento cauto: per dirla con William Kristol, appoggiandolo quando possibile, conferendo il beneficio del dubbio nelle situazioni ambigue e confrontandosi con lui attraverso le critiche costruttive ed un’opposizione leale qualora affiorino le diversità (10).

Emerge in ogni caso una malcelata speranza dagli scritti dei neoconservatori nei confronti dell’Amministrazione Obama: quella che il Presidente prosegua senza indugi sulla strada tracciata in campagna elettorale, che rigetta fermamente ogni prospettiva declinista (11), abbraccia un interventismo di matrice valoriale in politica estera sempre più improntato alla prevention piuttosto che alla preemption, approva l’aumento della spesa militare per combattere la guerra al terrorismo e realtà odierna (16). Al contrario del conservatorismo tradizionalista e della destra statunitense, che negli ultimi decenni si sono già concentrati sulla rielaborazione filosofica delle proprie dottrine (17), è infatti possibile riscontrare una certa stanchezza intellettuale nelle proposte originali – con la notevole eccezione della politica estera, beninteso – che guidano il ricambio generazionale della prospettiva neoconservatrice; ricambio generazionale che tra l’altro si prospetta inevitabile, vista l’età non proprio acerba dei grandi appartenenti alla prima generazione di neoconservatorismo – Irving Kristol, Michael Novak e Norman Podhoretz. Questa persuasione dovrà guardarsi allo specchio, come già coraggiosamente fece negli anni Settanta e Novanta, per mantenere il proprio peso ed autorevolezza all’interno della vita politica statunitense.

In quest’ottica è importante aprire una parentesi importante, quella riguardante Francis Fukuyama, il quale – va specificato – più che “rinnegare” il neoconservatorismo di terza generazione ha saputo andare “oltre” – per richiamarsi al titolo di un suo notissimo scritto (18) – ed evidenziarne le mancanze, innescando un processo di ripensamento e ridefinizione che sta già dando frutti. Fukuyama constata la difficoltà nel trovare soluzioni rapide all’impasse a cui il neoconservatorismo talvolta ha portato in politica estera, come la situazione in Iraq ed ancor più in Afghanistan; l’autore richiama per questo motivo i neoconservatori ai principi chiave della Presidenza Reagan negli anni Ottanta, le cui basi restano ancora attuali. Tra queste, Fukuyama ricorda la preoccupazione per la democrazia e i diritti umani; la convinzione che l’America debba usare il proprio poter per scopi morali; lo scetticismo verso le istituzioni e legislazioni internazionali per risolvere le gravi questioni di sicurezza che affliggono il mondo oggi; ed infine la certezza che la pianificazione sociale su larga scala non consegua gli scopi che si prefigge, ed in più porti a conseguenze inaspettate e ostili, minando dunque i propri obiettivi dichiarati (19).

Per risolvere lo iato creato dallo stesso neoconservatorismo, in bilico tra la condanna della pianificazione sociale e la tentazione di costruire un nuovo ordine mondiale, Fukuyama chiede cautela in politica estera: prendendo le distanze dall’isolazionismo di Pat Buchanan, così come da nozioni troppo audaci di regime change e di guerra preventiva, lo studioso ricorda che la democrazia non può essere imposta, tantomeno con le armi; le condizioni economiche e politiche necessarie al suo radicamento devono piuttosto maturare col tempo, attraverso riforme e richieste di democrazia dall’interno, e se possibile anche attraverso il lavoro con gli alleati democratici che da sempre condividono il cammino dell’America verso un mondo più giusto.

È interessante notare come le teorie di Fukuyama mostrano notevoli affinità con il lavoro di un altro grande studioso neoconservatore, Joshua Muravchik – nonostante quest’ultimo abbia in più occasioni criticato l’economista politico, in particolar modo riguardo alla sua concezione di terrorismo ed al giudizio severo sulla Presidenza Bush (20). In realtà, l’approccio di Fukuyama va a recuperare lo spirito originale di ciò che lo stesso studioso ha definito “il realismo wilsoniano”, progetto che anche Muravchik sottoscrive: un sistema multilateralista multiplo, pur sempre con al centro l’America, che sia in grado di indirizzare il mondo verso equilibri più benevoli; che riveda il modello delle Nazioni Unite affinché sia in grado di agire attraverso meccanismi orizzontali di accountability, senza per questo sostituire la sovranità nazionale con un governo globale; e che promuova lo sviluppo politico ed economico di ogni nazione, se possibile senza ricorrere alla preventive war.

Sembra proprio questa l’eredità del neoconservatorismo che John McCain ha voluto far propria nella sua corsa alla Casa Bianca, e che anche Barack Obama pare intenzionato a sottoscrivere – quantomeno sulla base delle sue prime dichiarazioni. Difatti, al di là dell’inconfutabile influenza esercitata dal neoconservatorismo sul Partito Repubblicano, e dall’affermazione di questa prospettiva nel Grand Old Party dapprima con la Dottrina Bush ed in seguito con la scelta ufficiale di John McCain come candidato presidenziale, quello che più stupisce è come la persuasione neoconservatrice abbia in realtà inciso su tutta la tradizione politica statunitense, sino a divenire parte dell’America, del modo in cui questa nazione vede se stessa.

Il neoconservatorismo ha dimostrato di aver saputo lasciare un’impronta, oltre che sulla figura di John McCain, anche sul Partito Democratico ed indirettamente su Barack Obama, il giovane Presidente più popolare sin dai tempi di John F. Kennedy. Un Presidente che, proprio come John McCain, si è dichiarato intenzionato a chiudere Guantanamo ed ad abolire le torture in America; che personalmente è contrario all’aborto, ma non vuole privare le donne della possibilità di scegliere; che nutre una profonda fede, pur non reputando che il religiously informed argument debba inderogabilmente far parte delle decisioni politiche dell’America; che mette la sicurezza degli Stati Uniti al primo posto, auspicando un maggiore coinvolgimento del proprio paese in Afghanistan e caldeggiando la linea dura contro il terrorismo; che vuole fortemente una soluzione alla questione palestinese, pur sostenendo imprescindibilmente il diritto alla sopravvivenza ed alla sicurezza di Israele; che è disposto a dialogare con l’opposizione per una nuova e più giusta concezione di welfare; e che intende promuovere i diritti umani nel mondo. Queste sono posizioni che il neoconservatorismo, prima di Barack Obama, ha sostenuto e contribuito a radicare saldamente all’interno della tradizione politica statunitense.

Quello che eventualmente cambierà saranno i modi attraverso i quali il quarantaquattresimo Presidente degli USA attuerà tali progetti; ciò nonostante, la via che l’America intende seguire nel Ventunesimo secolo è stato tracciata, e i neoconservatori hanno innegabilmente – e largamente – contribuito. Da un Grand Old Party elitario, di grandi imprenditori ed intellettuali, e da un Partito Democratico in balìa del relativismo culturale che appoggiava uno stato sociale invasivo nei confronti dell’individuo, il neoconservatorismo ha saputo creare un’ampia zona di consenso, trasversale ai due schieramenti, che ha recuperato l’uomo e la famiglia, il capitalismo moderato e la fede nella bandiera – in nuce, quella che rappresenta la leadership morale dell’America nel mondo (21). I neoconservatori hanno già cambiato il Partito Repubblicano. Forse oggi, più che mai, si sta realizzando il loro sogno: riportare il Partito Democratico sulla retta via.

NOTE

1 J. PODHORETZ, “Obama’s Triumph, the GOP’s Calamity”, Commentary, novembre 2008
2 P. NICHOLAS e S. METHA, “McCain Calms Supporters, Urges Respect For Obama”, Los Angeles Times, 11 ottobre 2008
3 J. MURAVCHIK, “Obama’s Leftism”, Commentary, ottobre 2008
4 Intervista dell’autrice a Michael Barone e John Fortier, “McCain ha fatto la scelta giusta: il ticket con la Palin può valere la Casa Bianca”, L’Occidentale, 12 settembre 2008
5 M. WALZER, “Con Obama l’America è già cambiata”, intervista di M. Molinari, La Stampa, 5 novembre 2008
6 W. KRISTOL, “President Obama. Now it’s Our Turn to Hope”, The Weekly Standard, Volume 14, n° 9, 17 novembre 2008
7 M. WALZER, “Con Obama l’America è già cambiata”, cit.
8 D. FRUM, “Sarah Palin non è il futuro del Partito Repubblicano”, L’Occidentale, 8 novembre 2008
12 R. KAGAN, “Obama the Interventionist”, The Washington Post, 29 aprile 2007
13 J. PODHORETZ, “Obama’s Triumph, the GOP’s Calamity”, cit.
14 B. OBAMA, “The American Moment”, Chicago Council on Globa Affairs, 23 aprile 2007
15 J. MURAVCHIK, “Two Cheers. Second Thoughts on the Bush Doctrine”, World Affairs, 11 novembre 2008
16 J. HART, The Making of the American Conservative Mind. National Review and Its Times, Wilmington (Del), ISI Books, 2005
17 G. PARABOSCHI, Leo Strauss e la Destra Americana, Roma, Editori Riuniti, 1993, p. xi e p. 129
18 F. FUKUYAMA, “After Neoconservatism”, The New York Times, 19 febbraio 2006
19 F. FUKUYAMA, After the Neocons. America at the Crossroads. Democracy, Power and the Neoconservative Legacy, New Haven, Yale University Press, 2006
20 J. MURAVCHIK, “Two Cheers. Second Thoughts on the Bush Doctrine”, cit.
21 B. OBAMA, “The American Moment”, cit.

Tratto da Alia K. Nardini, Neoconservatorismo americano. Ascesa e sviluppi, Rubbettino 2009