17 Agosto 2007  

Audizione di Gaetano Quagliariello

Redazione

 

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle tematiche riguardanti la modifica della parte II della Costituzione, l’audizione di Gaetano Quagliariello, professore ordinario di storia contemporanea presso la facoltà di scienze politiche dell’Università Luiss di Roma.
Ringraziando il professore per avere voluto corrispondere all’invito della Commissione e per la sua relazione, gli do senz’altro la parola.

GAETANO QUAGLIARIELLO, Professore ordinario di storia contemporanea presso la facoltà di scienze politiche dell’Università Luiss di Roma. Il mio intervento – che, ovviamente, avrà un’impostazione prevalentemente di storia delle istituzioni – si concentrerà su tre punti. In primo luogo, il cambiamento della forma di Governo, piuttosto che essere un’esigenza di carattere dottrinario, è il frutto di un’evoluzione della Costituzione materiale che, fino ad oggi, si è svolta in senso univoco e senza sostanziali contraddizioni. In secondo luogo, tale mutamento della forma di Governo ha bisogno di un intervento che lo consolidi e che lo razionalizzi perché le condizioni storiche che sono verificate dal 1994 ad oggi non hanno consolidato, anche a livello materiale, un risultato che può essere considerato definitivo. In terzo luogo, vorrei segnalare alcuni interventi di carattere legislativo che si ritengo fondamentali in sede di riforma costituzionale della forma di Governo.
Ogni riforma complessiva della Costituzione ha sempre il rischio di cadere in una sorta di giacobinismo istituzionale, cioè di spingere i suoi autori a privilegiare l’armonia del progetto sulle imperfezioni della realtà, di sublimare la passione della politica a fronte della lentezza dello sviluppo sociale. Comporta, insomma, il rischio di farsi contagiare da quello che in campo costituzionale può essere definito «il mal francese», cioè una sorta di enfasi sul testo scritto e sul progetto costituzionale a fronte della considerazione della consuetudine. Ritengo che nel caso italiano questo rischio, almeno per quel che riguarda la forma di Governo, non esista perché, in realtà, il cambiamento si è verificato per via materiale, senza strappi ed è progredito in maniera priva di contraddizioni. Per mostrare questo percorso bisogna risalire al 1994 e segnalare la sequenza delle tre elezioni generali che da allora si sono susseguite (1994, e 1996 e 2001). I politologi che lavorano sulle transizioni, in particolare su quelle dai regimi totalitari-autoritari a quelli democratici, ritengono che tre elezioni rappresentino il ciclo del consolidamento di un nuovo sistema e di un nuovo regime. In questo caso, stiamo discutendo di una diversa transizione, cioè da un tipo di democrazia ad un altro tipo di democrazia, ma in ogni caso abbiamo lo spazio di tre elezioni.
Nel 1994 il sistema aveva due novità principali, un inedito sistema elettorale imperfettamente maggioritario e un numero consistente di nuove forze politiche, in conseguenza del venir meno del precedente sistema dei partiti. Il combinato disposto di queste due novità portò, come conseguenza principale, alla formazione di due schieramenti contrapposti a sinistra ed a destra del sistema politico. Il terzo polo, centrista, già nel corso della campagna tonale si rivelò marginale rispetto all’effettiva dinamica della competizione politica. Per la vicenda politica italiana si trattò di una rivoluzione copernicana: il centro non cessò di essere il punto cardine del sistema ma non era più occupato da quelle forze che aspirano a conseguire, per l’appunto, la «centralità» politica. Si trasformò, piuttosto, in uno spazio occupato dagli elettori moderati che i due schieramenti principali avrebbero dovuto attrarre a sé, al fine di prevalere. Connessa a questa, vi era un’altra novità. I due schieramenti si presentarono all’opinione pubblica sotto l’egida di un leader. Sicché si sarebbe potuto presumere che la sera delle elezioni, a cospetto di un risultato inequivocabile, gli italiani avrebbero immediatamente conosciuto il nome del Presidente del Consiglio: una circostanza questa che in passato non si era mai verificata. Come sapete, le cose andarono esattamente in questo modo, ma le conseguenze furono più complesse e meno lineari. Le difficoltà del sistema furono almeno pari alle novità che il sistema stesso aveva prodotto in quella circostanza. Le ragioni di ciò possono essere colte sin dal processo di coagulazione delle due coalizioni principali che si scontrarono, perché, in quel caso, a cospetto di uno schieramento coeso, comprendente tutte le forze della sinistra, a destra si formarono due diverse alleanze, differenziate dal sovrapporsi di una frattura politica e di una geografica. Al centronord, infatti, operò l’alleanza tra Forza Italia e Lega; al centrosud quella tra Forza Italia e Alleanza nazionale.
La nuova formazione creata da Berlusconi, in quell’occasione, assunse, nei fatti, il ruolo di anello di congiunzione tra due partiti già radicati, indisponibili a spingere il loro accordo fino al punto di dare vita ad un unica coalizione per il governo del paese. Tale circostanza rese precario il programma politico e più indefiniti gli accordi contratti con gli elettori. L’espressione della sovranità popolare risultò perciò indebolita dall’ambiguità, che iniziò a produrre i suoi effetti nefasti sin dalla fase di formazione dell’esecutivo, che – come molti di voi ricorderanno – non fu semplice.
Questa discrasia indebolì il passaggio ad una nuova forma di Governo, ed è certo che – con il rovesciamento del Governo Berlusconi a causa del cessato appoggio della Lega, e ancor più con la formazione di un Esecutivo sostenuto da una maggioranza differente da quella che, per quanto ambigua, era stata pur sempre indicata dagli elettori – si ufficializzò una contraddizione di fondo tra centralità parlamentare, sostenuta dalla lettera della Costituzione, e centralità della sovranità popolare, affermatasi attraverso quella prassi destinata a segnare, da allora in poi, la definizione della forma di Governo nel nostro paese.
Fu questa contraddizione che, di fatto, portò allo scioglimento anticipato del 1996. In questa occasione già è possibile, nella logica del Governo immediato, scelto direttamente dai cittadini, segnalare degli avanzamenti. In primo luogo, gli schieramenti furono ancora una volta tre. Ma, in questo caso, il terzo schieramento non era di carattere centrista. Coloro i quali erano dislocati al centro dovettero accettare la logica alternativa proposta dal nuovo sistema e schierarsi su due lati, alcuni a destra, altri a sinistra. Il terzo schieramento, quello della Lega, proponeva un bipolarismo di tipo diverso, ovvero, anziché basato sulla coppia destra-sinistra, fondato su quella federalismo-centralismo. Se ricordate, in quell’occasione, il partito di Bossi identificò i due schieramenti nell’unico fascio di forze centraliste indicato con lo slogan «Roma-Polo, Roma-Ulivo», nei confronti del quale, la Lega assumeva la funzione di competitore all’interno di una dimensione bipolare.
Passi avanti vennero compiuti anche nella definizione delle alleanze: a destra, dopo il divorzio con la Lega, si formava un’alleanza «perfetta»; a sinistra, il rapporto con Rifondazione veniva regolato dalla logica della «desistenza», che costituiva, in ogni caso, una progressione rispetto alle alleanze asimmetriche che avevano caratterizzato la vittoria della destra nel 1994.
Ovviamente, questo non bastò ad assicurare al Governo – frutto del nuovo responso elettorale – di durare per l’intera legislatura. Il Governo Prodi restò in carica per circa metà mandato. Dopodiché, fu sostituito dal nuovo Esecutivo presieduto da un uomo appartenente alla stessa coalizione del Presidente disarcionato. A differenza di quanto accaduto dopo la fine del Governo Berlusconi, il nuovo Governo non fu sostenuto da una maggioranza opposta ma soltanto da una maggioranza diversa. Inoltre, per garantire il prosieguo della legislatura, non vi fu bisogno di cooptare nella nuova maggioranza delle intere forze politiche, ma soltanto dei parlamentari transfughi dalle fila dell’opposizione. Insomma, non si poté parlare di «ribaltone» ma, al più, di «ribaltino»: ovvero, della sostituzione in corsa del leader e dell’integrazione della compagine parlamentare che ne avrebbe garantito l’azione di governo.
Questa coerenza del segno politico del Governo si conservò fino al termine della legislatura, nonostante un ulteriore cambio di Presidente del Consiglio. Ed è per questo che, nel 2001, si è assistito, per la prima volta nella storia d’Italia, dall’unità ad oggi, ad un mutamento di maggioranza avvenuto a seguito del responso degli elettori. Non era mai accaduto, neanche nella cosiddetta «rivoluzione parlamentare» che portò alla sostituzione tra destra storica e sinistra storica. Siamo arrivati ultimi nel mondo occidentale, persino dopo il Giappone; per quanto fin qui detto, è lecito interpretare tale esito come il coronamento di un lungo processo. Il fatto che il Governo uscito da questa competizione abbia poi stabilito un record di durata fra tutti gli esecutivi della storia repubblicana può essere considerato un ulteriore elemento per ritenere il mutamento della Costituzione materiale procedere in senso univoco, in una direzione differente da quella stabilita da una tradizione cinquantennale.
Si è così compiuta una trasformazione storica. Sin dai tempi della Costituente, l’inesistente connessione tra il governo e la sovranità popolare fu individuata come uno dei principali limiti della forma di governo prevista dalla nostra Carta costituzionale. Lo evidenziarono, dai banchi dell’opposizione a quella Costituzione, uomini come Vittorio Emanuele Orlando, ma gli fecero eco, dai banchi di quanti furono favorevoli all’approvazione della Carta, voci come quelle di Giuseppe Saragat o Meuccio Ruini. Allora, furono in tanti a notare che il venir meno del monarca avrebbe annullato uno dei pilastri tra i quali, nel corso del periodo liberale, l’azione governativa aveva descritto un arco di ponte, guadagnandosi così – grazie alla vicinanza ora all’uno ora all’altro pilastro (Re e Parlamento, a seconda delle circostanze) – il margine della propria autonomia.
In età repubblicana, dei due pilastri è rimasto in piedi solo quello della Assemblea parlamentare. L’Esecutivo, di conseguenza, è apparso ancora meno autonomo e la necessità di un collegamento con la fonte prima della legittimazione, la sovranità popolare, ha assunto maggiore rilevanza. Il problema non fu risolto nel 1953, per il fallimento della riforma della legge elettorale e da allora in poi, non casualmente, per lungo tempo i partiti sarebbero divenuti il fulcro dell’equilibrio istituzionale. Non può considerarsi neppure un caso che il processo di materiale trasformazione della forma di Governo sia iniziato proprio quando i partiti hanno perso il loro ruolo di stabilizzatori istituzionali.
Tale processo ha avuto anche altre conseguenze. Come si è detto, con il trascorrere delle elezioni, le coalizioni sono meglio definite e le forze riluttanti ad accettare la dinamica bipolare si sono gradualmente ridotte. Il consolidamento, inoltre, si è legato all’emersione sempre più nitida del ruolo del Premier. Esso, da un canto, è stato l’effetto di una complessiva personalizzazione dello scontro politico, dovuto anche alle modalità di elezione dei sindaci, dei presidenti delle regioni, e ad un sistema elettorale per le elezioni politiche prevalentemente uninominale; dall’altro canto ha assunto un autonomo significato istituzionale, attraverso l’iscrizione del nome del candidato Premier nel simbolo delle coalizioni, avvenuto nel 2001. Attraverso questo espediente è indubbio che nelle dinamiche materiali della lotta politica una quota di legittimazione proveniente dal voto popolare ha investito direttamente non soltanto lo coalizione vincitrice delle elezioni, ma anche colui che è stato indicato come la sua guida. Si potrebbe per questo concludere che, senza bisogno di ricorrere a nessuna riforma istituzionale, la consuetudine sedimentatasi attraverso tre successive elezioni generali abbia accostato la nostra forma di Governo ai sistemi a democrazie immediate, e in particolare a quel modello Westminister che è stato, per tanto tempo, il sogno proibito di larga parte della classe politica continentale.
Ma se la consuetudine ha fatto già tutta quanta la sua parte, qual è il motivo del bisogno che la riforma delle istituzioni investa la forma di Governo? Si potrebbe rispondere che la ragione principale è quella di raccordare la naturale evoluzione del sistema alla sua definizione formale, eliminando le aporie, riducendo le contraddizioni, perfezionando specifici meccanismi istituzionali.
Si tratta certamente di questo, ma non solo. E comunque, non si può escludere affatto che questo svolgimento lineare della vicenda storico-politica possa, in futuro, essere contraddetto.
In realtà, per spiegare le trasformazioni del sistema politico italiano, può utilizzarsi la metafora racchiusa nel titolo che un famoso scienziato francese utilizzò per spiegare l’origine della vita: Il caso e la necessità. La fine dei partiti che avevano dominato la vita del primo cinquantennio repubblicano ha indotto la necessità di trovare un nuovo equilibrio politico istituzionale. Ma il fatto che tale equilibrio si sia consolidato nelle forme di un sostanziale bipolarismo, dapprima incerto e poi perfezionatosi con il trascorrere del tempo, è stato, per lo più, frutto del caso.
In particolare, non era affatto scontato che dalle tre consecutive elezioni legislative uscisse ogni volta l’indicazione di uno schieramento vincente ed il nome di un Premier designato a formare il Governo. Ciò è derivato, per l’essenziale, da una circostanza: dal fatto che le due forze «estreme» e riluttanti verso la necessità di ridurre il loro ruolo all’interno di un gioco di alternanza bipolare – la Lega, da una parte, e Rifondazione comunista, dall’altra – hanno compiuto scelte differenti in momenti diversi: nel 1996, seppure con la formula della desistenza, si è coalizzata Rifondazione e non la Lega; nel 2001 è accaduto l’inverso.
Nulla assicura che tale alternanza di atteggiamenti si prolunghi anche in futuro, al punto che si può persino immaginare il paradosso di un sistema bipolare che venga messo in crisi dalla sua affermazione più compiuta. Se Lega e Rifondazione dovessero accettare entrambe la logica del sistema, ad oggi, il risultato più probabile sarebbe quello di uno stallo: Casa delle libertà maggioritaria alla Camera dei deputati e Ulivo maggioritario in Senato. Qualsiasi proiezione dei risultati odierni produce tale verdetto.
Questa eventualità è tanto estrema nella sua portata patologica, quanto possibile nei fatti. Non è comunque l’unica ragione che rende indifferibili alcune modifiche formali della nostra Costituzione in merito alla forma di Governo. Esistono infatti alcune incongruenze che rischiano, con il tempo, di massimizzare gli inconvenienti del sistema bipolare senza che se ne possano apprezzare i vantaggi. L’approdo all’attuale bipolarismo infatti vede certamente un Premier che, nei fatti, è chiamato alla guida di una coalizione e questo induce una responsabilità politica nei confronti della sensibilità immediata dell’elettorato. Egli è però formalmente privo di quelle prerogative, tra le quali soprattutto il potere di scioglimento, che servono in primo luogo a consolidare il giusto equilibrio tra potere e responsabilità ed in secondo luogo a stabilizzare e a rendere più armoniosi e trasparenti i rapporti tra i partiti della coalizione.
Il cementare questi rapporti, in un quadro che abbia nelle norme della Costituzione un indispensabile fondamento positivo, consentirebbe di evitare una anomalia molto dannosa e oggi del tutto evidente: lo sviluppo di un movimentismo permanente dei singoli partiti, determinato dall’esigenza di guadagnare ciascuno maggiore visibilità e maggiore peso. L’abbiamo visto nel 1996, nel corso della scorsa legislatura, con il Governo di centro-sinistra e lo stiamo osservando anche nella legislatura attuale, con la coalizione di centro destra.
Ciò comporta, conseguentemente, l’annullarsi di uno dei principi cardine sui quali si basa il sistema tendenzialmente bipolare: la convergenza verso il centro dell’orientamento politico di ciascuno dei due schieramenti, alla ricerca del voto moderato e non identitario, per questo fluttuante e in grado di volta in volta di determinare il successo dell’uno o dell’altro schieramento. È proprio questa dinamica che implica, d’altra parte, una più facile possibilità di intendersi sui principi di fondo del sistema e su valori condivisi. Ed è proprio questa possibilità, dunque, quella che induce i due schieramenti a legittimarsi reciprocamente.
In Italia questa situazione ad oggi non si riproduce, anche perché un Premier privo di strumenti istituzionali autonomi, per mantenere coesa la coalizione, controllando le spinte centrifughe, è portato spesso a privilegiare istanze radicali. Sicché il nostro paese presenta l’anomalia di un sistema di alternanza tendenzialmente polarizzato, nonostante la grande massa degli elettori si trovi ormai su posizioni prevalentemente centriste.
Da quanto detto, emerge che per consolidarsi un sistema a democrazia immediata nel quale siano gli elettori a decidere il Governo e che conceda all’azione dell’Esecutivo lo spazio di una legislatura ( nonchè agli elettori un arco di tempo sufficiente per sedimentare un giudizio sul suo operato) non possa fare a meno di ricorrere ad alcuni meccanismi istituzionali.
Ne metterò in evidenza i principali. Innanzitutto è necessario prevedere l’indicazione preventiva dei candidati Premier, per dare all’elettore, al momento di formulare la propria scelta, la possibilità di considerare insieme il nome del capo dell’Esecutivo, la coalizione a cui è collegato ed il relativo programma.
È poi indispensabile attribuire al Premier la possibilità di nominare e revocare i ministri, ma ciò risulterebbe ben poca cosa se non vi si associasse un altro potere fondamentale: il potere deterrente di provocare lo scioglimento anticipato delle Camere ( così come previsto dalla gran parte dei sistemi politici europei). Metterò in evidenza che questo potere è concesso al Premier affinché le legislature possano durare più a lungo e non per rendere più semplice il loro scioglimento, perché questo potere deve essere controbilanciato sia dalla possibilità dell’Assemblea di sfiduciare il premier, sia dalla possibilità di sostituirlo, attribuita solo alla sua stessa maggioranza, insomma, che sia possibile che si verifichi il caso di scuola, ossia la sostituzione di Margaret Thatcher con il suo sostituto, John Major.
Questi meccanismi istituzionali, d’altra parte, non risultano incompatibili con degli accorgimenti tesi a concedere al sistema l’elasticità interna necessaria a resistere, senza entrare in crisi, al cospetto di possibili mutamenti improvvisi degli scenari politici. Mi riferisco in particolare, alla necessità da un lato di eliminare l’automatismo tra sfiducia e scioglimento, dall’altro di consentire per periodi limitati o straordinari l’esistenza di governi di minoranza, così come previsto in molti paesi europei (si pensi alla Francia) e non escluso neppure oggi in Italia.
Infine, vorrei formulare una raccomandazione. Il mio intervento, così come mi è stato richiesto, ha considerato solo i problemi relativi alla forma di Governo. Si dovrà però in ogni modo evitare che i cambiamenti eventualmente introdotti in quest’ambito siano contraddetti da quelli che verranno previsti in merito al bicameralismo. Se il rapporto tra queste due parti della riforma si dovesse risolvere in una operazione a somma zero, ci troveremmo, nel migliore dei casi, a rinnovare la vecchia formula del Gattopardo: si cambia tutto per non cambiare niente.

PRESIDENTE. Do la parola ai deputati che intendano intervenire.

MARCO BOATO. Ho trovato di grande interesse la relazione del professor Quagliarello – che saluto e ringrazio – anche se non condivido tutto. Ritengo che aver inserito nell’ambito di questa indagine conoscitiva anche un professore di storia contemporanea sia stata una scelta utile e opportuna.
Avrei una richiesta e una obiezione circa il profilo storico politico della sua ricostruzione. Condivido sostanzialmente quanto da lei detto dal punto di vista storico, ma con la prima applicazione della riforma del sistema maggioritario, con la legge Mattarella, non mi pare che fosse aver l’esistenza senza di due schieramenti contrapposti, sotto l’egida di un leader, che avrebbe permesso, la sera stessa dei risultati elettorali, di conoscere il candidato Premier. Semmai, fu proprio quello uno dei limiti principali dello schieramento della sinistra, mentre il centro-destra dell’epoca aveva già indicato il suo Premier nella persona di Silvio Berlusconi. Al contrario, lo schieramento dei progressisti non aveva un leader designato. Il segretario del partito politico di maggioranza dello schieramento di sinistra, ossia Occhetto, non aveva indicato colui che sarebbe poi stato scelto come Premier. Addirittura, nel corso dei dibattiti televisivi dell’epoca, si fece riferimento al nome di Ciampi come riserva della Repubblica, senza indicarlo esplicitamente come possibile Premier dello schieramento.
Il secondo aspetto che volevo rimarcare come possibile completamento della sua relazione, che ho trovato di grande interesse, riguarda la composizione a geometria variabile della coalizione di centro-destra, con la Lega a nord e non al sud. Inoltre, vorrei capire quale ruolo in tutta questa vicenda abbia avuto l’introduzione di una nuova forma di governo a livello comunale e provinciale e successivamente, sia pure nella forma impropria del cosiddetto «Tatarellum», a livello regionale. Credo che poco si capisce di quanto il corpo elettorale nel nostro paese si sia progressivamente, nell’arco di tre tornate elettorali e politiche, abituato ad un sostanziale bipolarismo, sia pure con le eccezioni da lei rilevate, se non si mette in luce cosa è accaduto dal 1993 ad oggi anche per quel che riguarda le elezioni a livello locale.
L’ultima osservazione riguarda la necessità da lei richiamata di una maggiore elasticità interna al sistema, pur con la formalizzazione di alcune norme di carattere costituzionale che consolidino ciò che già è accaduto nella costituzione materiale e anche per evitare un ritorno al passato; i risultati elettorali di domenica sera ci hanno ripiombato nella prima Repubblica, ma è inevitabile perché con quel sistema elettorale questo succede.
Vorrei capire quali sono, dal punto di vista normativo, questi momenti di maggiore elasticità interni al sistema, perché francamente le norme introdotte, che pure corrispondono alle esigenze da lei segnalate, sono formulate in maniera tale da prevedere delle rigidità assolute; mi riferisco all’articolo 88, secondo comma, e all’articolo 94 (l’unico aspetto di carattere giuridico a cui faccio richiamo). Non mi dilungo oltre sul richiamo da lei fatto sul Senato nel volumetto da lei scritto e intitolato Magna Charta, che trovo interessante.

PRESIDENTE. Prego, professore.

GAETANO QUAGLIARIELLO, Professore ordinario di storia contemporanea presso la facoltà di scienze politiche dell’Università Luiss di Roma. Desidero anzitutto ringraziare l’onorevole Boato per gli apprezzamenti ed anche per le osservazioni; ovviamente, da storico, sono attento più agli aspetti materiali che non a quelli formali delle vicende. Quindi, ritengo che le sue precisazioni circa il periodo del 1994 siano in parte condivisibili; cionondimeno, bisogna precisare che, considerando dal punto di vista materiale lo svolgimento di quella campagna elettorale, risulta vero che l’emersione di una leadership di centrodestra introdusse alcune difficoltà all’interno dello schieramento del centrosinistra. Il nome di Ciampi fu evocato solo nel momento nel quale emerse la figura di Berlusconi come riferimento certo.

MARCO BOATO. Fu evocato, ma non fu proposto come candidato premier.

GAETANO QUAGLIARIELLO, Professore ordinario di storia contemporanea presso la facoltà di scienze politiche dell’Università Luiss di Roma. Non fu proposto. Al riguardo, ricordo – ma non vorrei che la memoria mi difettasse (mi riservo, perciò, di controllare i dati) – che il culmine di quella campagna elettorale fu comunque uno scontro bipolare (il che peraltro non era mai avvenuto) che si svolse, se non sbaglio, sulle reti Mediaset, moderato dal giornalista Mentana, tra Occhetto e Berlusconi. Ebbene, in quell’occasione, che si svolse alla fine della campagna elettorale (uno o due giorni prima), Occhetto si lasciò «sfuggire» l’affermazione secondo la quale, nel caso di vittoria, sarebbe stato lui il leader designato dallo schieramento.

MARCO BOATO. Le assicuro che la vicenda non si svolse così. Parlò di Ciampi evocandone il nome come riserva della Repubblica, e ciò fu la debolezza di quel confronto. Lei ha «toccato» un tema fondamentale; però, la vicenda si svolse in questi termini.

GAETANO QUAGLIARIELLO, Professore ordinario di storia contemporanea presso la facoltà di scienze politiche dell’Università Luiss di Roma. Non insisto.
Sono d’accordo anche sul secondo rilievo, argomento al quale io ho già fatto un accenno; ritengo che il mutamento della forma di Governo a livello nazionale non possa essere compreso senza considerare quanto avvenuto soprattutto per quanto concerne l’elezione dei sindaci e, in secondo luogo, anche per quanto concerne l’elezione dei presidenti delle regioni. Ho l’impressione che le due vicende siano in parte coincidenti ed in parte, invece, procedano in direzioni differenti.Sono coincidenti nel determinare una fondamentale personalizzazione della lotta politica, nel senso che, appunto, da una parte, abbiamo l’indicazione del sindaco, dall’altra, invece, abbiamo l’indicazione del presidente della regione. Tutto ciò si accorda con il peso che comunque il candidato ha nel determinare il successo o l’insuccesso in quei collegi elettorali, per così dire, di frontiera, laddove la differenza tra i poli sia inferiore al 2 per cento. Ho l’impressione che anche in tal caso ci si orienti verso un consolidamento della tradizione; si comprende anche quale sia il peso che un candidato può avere in un collegio, tranne casi assolutamente straordinari. Un peso relativo ma, in alcune situazioni per così dire di frontiera, assolutamente del determinante. Dunque, è importante il ruolo delle elezioni locali sia per quanto riguarda la personalizzazione, sia per quanto riguarda l’abitudine alla forma di Governo. Il fatto che il sindaco scelto sia l’elemento portante del sistema amministrativo a livello comunale, credo abbia un riverbero sulle abitudini e vada considerato come un elemento di questo progressivo consolidamento del quale ho parlato.
Per quanto riguarda, invece, il terzo rilievo mosso dall’onorevole Boato – ovvero, in quale modo, nonostante alcuni meccanismi istituzionali da introdurre, poter assicurare una maggiore flessibilità complessiva al sistema – nel testo mi sono soffermato su tre aspetti che considero i più importanti. Uno è stato da lei rimarcato; si tratta della possibilità di dare alla maggioranza l’opportunità di cambiare il premier durante la legislatura in corso. Ciò, laddove in tal senso si orienti effettivamente la decisione della maggioranza; ritengo, peraltro, che non si debba andare oltre questo limite. Infatti, purtroppo, la categoria del «ribaltone» è entrata nella nostra storia istituzionale. Credo sia una categoria rozza, se consideriamo i meccanismi della democrazia rappresentativa; ma ritengo anche che i meccanismi formali debbano concedere qualcosa alla vicenda storico-politica effettiva ed oggettivamente, nella vicenda storico-politica effettiva di questi dieci anni, oltre quanto abbiamo già chiarito, vi è anche una sorta di sensibilità dell’elettorato nei confronti di mutamenti delle maggioranze successive al momento della scelta dei governi. Ciò, sia nel caso in cui queste maggioranze sono cambiate per cooptazione di intere forze, sia nel caso in cui le maggioranze sono cambiate per la cooptazione di singoli parlamentari. È un fatto scritto nella storia del nostro paese; possiamo considerarlo di segno negativo, ma dobbiamo riconoscerlo .

MARCO BOATO. Lei sa che ciò avvenne anche per il primo Governo Berlusconi al Senato; se vogliamo avere la situazione complessiva di ciò che avvenne, dobbiamo tenerlo presente.

GAETANO QUAGLIARIELLO, Professore ordinario di storia contemporanea presso la facoltà di scienze politiche dell’Università Luiss di Roma. Non vi è dubbio; però, anche in tal caso, dobbiamo essere attenti ad un dato che viene dalla storia delle istituzioni; il caso di singoli parlamentari che integrano maggioranze fondamentalmente scelte dagli elettori è un caso, in specie, sicuramente differente – sul quale, però, si può esprimere comunque un giudizio negativo – da quello nel quale il passaggio di deputati da una parte all’altra serve a cambiare il segno politico di una maggioranza.
Oltre tale vicenda, per la cui correzione sarebbe forse possibile trovare meccanismi meno rigidi di quelli indicati, la sottoscrizione sic et simpliciter priva di voto parlamentare. L’ipotesi secondo la quale la sfiducia del premier porti automaticamente allo scioglimento mi sembra eccessivamente rigida; è possibile immaginare ipotesi intermedie. All’interno di questo ambito, come ipotesi specifica, ritengo non si debba escludere, proprio nel segno della maggiore elasticità, la possibilità di prevedere che, in casi eccezionali e per periodi limitati, Governi di minoranza possano rimanere, per così dire, «in sella» senza che ciò comporti l’automatico scioglimento ed il ricorso alle urne. Tradurre tutto ciò in norme costituzionali è abbastanza semplice; abbiamo molti esempi che vengono offerti dalla comparazione con gli altri sistemi politici europei. A mio avviso, queste potrebbero essere sicuramente integrazioni atte a migliorare e rendere più elastico il testo.

PRESIDENTE. La ringrazio, professore Gaetano Quagliariello e le auguro buon lavoro. Dichiaro conclusa l’audizione.
Sospendo brevemente la seduta.