17 Agosto 2007  

Audizione di Vincenzo Lippolis

Redazione

 

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle tematiche riguardanti la modifica della parte II della Costituzione, l’audizione di Vincenzo Lippolis, professore straordinario di diritto pubblico comparato presso l’Università «Federico II» di Napoli.
Ringrazio il professore per avere voluto corrispondere all’invito della Commissione e gli do senz’altro la parola.

VINCENZO LIPPOLIS, Professore straordinario di diritto pubblico comparato presso l’Università «Federico II» di Napoli. Ringrazio il presidente e la Commissione per l’invito.
Il progetto di revisione della Costituzione si muove nella logica di portare a compimento le due principali innovazioni del sistema costituzionale che si sono avute nella fase di transizione iniziata nel 1993: il sistema maggioritario e l’ordinamento federale.
Il progetto ha quindi come finalità un adeguamento della forma di Governo al maggioritario, realizzando appieno l’idea di premierato, ed un completamento del federalismo. L’anello di congiunzione è costituito dal bicameralismo; infatti, senza un mutamento del sistema bicamerale non è possibile razionalizzare né la forma di Governo né il sistema delle autonomie territoriali.
In questa audizione affronterò i problemi concernenti il testo di riforma approvato dal Senato. Anche se, al fine di superare la fase di transizione costituzionale che stiamo attraversando, è possibile e assolutamente legittimo ipotizzare soluzioni diverse sia dal premierato, sia dal federalismo, in questo momento lo ritengo un esercizio inutile. Mi muovo, quindi, nell’orizzonte di quelle che sono le finalità del progetto in esame.
In riferimento alla forma di Governo si è parlato di rigidità del modello che sta emergendo. Tale rigidità tuttavia va analizzata rispetto al sistema maggioritario e all’alternanza bipolare o bipartitica che è in se stessa rigida perché esclude, in via di principio, combinazioni parlamentari nuove nel corso della legislatura, vale a dire maggioranze di governo diverse da quella elettorale. Quindi, se si accetta il sistema maggioritario dell’alternanza bipolare, si accoglie già una sorta di rigidità non presente nel sistema parlamentare con tendenza assembleare.
La difficoltà di fondo che abbiamo in Italia – ma non solo in Italia – è l’adattamento di un modello maggioritario con alternanza bipolare ad un sistema fortemente pluripartitico, soprattutto quando quest’ultimo dà vita a coalizioni di governo che non sono omogenee e coese; questo è un problema non nuovo e non solo italiano. Poc’anzi l’onorevole Boato citava il caso della Francia. A tal proposito, posso ricordare che già ad Algeri nel 1944 dalla resistenza francese fu elaborato un progetto di riforma che si riprometteva di dare un nuovo assetto costituzionale alla Francia dopo la liberazione. In esso vennero esaminati – essendo la Francia tradizionalmente un sistema pluripartitico – le stesse questioni che stiamo trattando oggi, cioè il problema del rapporto tra sfiducia e scioglimento e quello della stabilità governativa.
Questo tipo di problematiche non riguarda soltanto l’Italia, ma tutti i sistemi pluripartitici che per essere «forzati» a funzionare secondo il modello di tipo inglese devono essere irrigiditi; in altre parole l’effetto naturale del bipartitismo inglese deve essere perseguito attraverso la costrizione di norme costituzionali.
Per evitare inutili polemiche e fraintendimenti nell’elaborazione della riforma è necessario quindi chiarirsi su un punto: si vuole che il cambiamento di maggioranza o meglio di formula politica in corso di legislatura – che oggi è possibile ai sensi delle attuali norme costituzionali – rimanga possibile anche per il futuro, oppure si intende escludere tale eventualità? Infatti, se si ritiene che sia auspicabile mantenere l’attuale flessibilità, cioè che il Governo possa essere sostenuto da una maggioranza diversa da quella elettorale, allora direi che non c’è bisogno di cambiare niente. Sarebbe soltanto opportuno attribuire al Presidente del Consiglio qualche potere in più per la nomina e revoca dei ministri; per il resto si potrebbe lasciare le cose come stanno e affidare poi all’evoluzione delle convenzioni politiche l’assestamento del modello.
Se invece si sceglie la seconda opzione – il cosiddetto Governo di legislatura – negando la possibilità di modificare la formula politica che si è presentata agli elettori con un leader, una maggioranza, un programma, si può lavorare su diverse opzioni: ci si può orientare – come mi pare facesse il progetto iniziale – sul rafforzamento della figura del Premier, oppure puntare sulla coalizione.
Il testo del Senato recupera il valore della coalizione attraverso la discussa formula «antiribaltone» che pur con le sue rigidità, consente il cambio di premiership. Certo il requisito della maggioranza assoluta dei componenti la Camera, previsto dall’articolo 92, rende complesso il funzionamento del meccanismo e presenta delle controindicazioni sulle quali si deve riflettere. Comunque, in questo progetto, è affermata la possibilità di cambiare il Primo ministro e questo mi sembra estremamente importante, perché promuove l’affermazione del soggetto coalizione.
L’aspetto di rigidità che mi sembra necessario eliminare è quello della connessione automatica tra approvazione della mozione di sfiducia e scioglimento. Anche in questo caso è prudente ed opportuno dare qualche margine di flessibilità al sistema consentendo un cambio di Primo Ministro con la stessa maggioranza.
Sempre in materia di rapporto fiduciario, segnalo un problema tecnico di formulazione del testo presente nell’articolo 94, secondo comma, della Costituzione, del disegno di legge approvato dal Senato. Esso dice che in caso di questione di fiducia con esito negativo il Primo ministro rassegna le dimissioni e può chiedere lo scioglimento.
Se chiede lo scioglimento si applica l’articolo 88 e, se del caso, la clausola «antiribaltone». Se non chiede lo scioglimento, non vi è disciplina perché l’articolo 92, comma 4, disciplina solo l’ipotesi di dimissioni volontarie ed espressamente esclude quelle imposte dall’articolo 94. Sembrerebbe applicarsi quindi il comma 3 dell’articolo 92 e non la clausola «antiribaltone» di cui agli articoli 88, comma 2 e 92, comma 4, ritornerebbe cioè in mano al Presidente della Repubblica la possibilità di indicare il nuovo Primo ministro sulla base dei risultati elettorali.
Questa discrasia del testo deve essere sfuggita nel suo coordinamento finale perché precedentemente esso prevedeva che la reiezione della questione di fiducia avesse come conseguenza diretta lo scioglimento; quindi, modificando la norma non si è pensato a raccordarla con le altre ipotesi dicendo esplicitamente che anche in questo caso si applica la norma antiribaltone. Forse é sufficiente eliminare dal comma 4 dell’articolo 92 l’inciso «per cause diverse di quelle di cui all’articolo 94».
Per quanto riguarda il potere di scioglimento delle Camere, mi limito a ricordare che dal 1948 ad oggi l’unico vero scioglimento presidenziale è quello del 1994; prima, infatti, il Presidente non aveva concretamente tale potere perché il sistema partitico era di tipo diverso e allo scioglimento si arrivava quando c’era l’accordo tra i partiti. In sostanza, un pieno potere presidenziale di scioglimento si è avuto solo in un momento di crisi e profonda trasformazione dell’assetto costituzionale.
Un difetto del nostro federalismo è il suo carattere «legislativo» preponderante su quello «amministrativo» e «finanziario», poiché esso è basato principalmente sull’accrescimento dei poteri legislativi delle regioni. Un modello molto diverso da quello tedesco che è un federalismo amministrativo.
La ripartizione rigida delle materie e la distinzione tra principi fondamentali e normazione che li attua e li sviluppa è oggi fonte di contenzioso ed è inutile che richiami le recenti sentenze della Corte costituzionale in materia. Ciò è in buona parte dovuto ad un eccesso di materie incluse nella legislazione concorrente: alcune di esse avrebbero trovato una più adeguata collocazione nella legislazione esclusiva dello Stato. Mi riferisco, ad esempio, alle grandi reti di trasporto e di navigazione e alla produzione, trasporto e distribuzione dell’energia.
Un intervento risolutivo in proposito sarebbe quello di introdurre una clausola di flessibilità del sistema, cioè adottare una legislazione concorrente simile a quella tedesca (articolo 72 della Costituzione della Repubblica federale tedesca); prevedere cioè che per esigenze di unità dell’ordinamento giuridico ed economico dello Stato e, nel contempo, per garantire un uguale godimento dei diritti costituzionali in tutto il territorio, lo Stato possa intervenire con una sua legge che prevale su quelle regionali.
Con un meccanismo di questo genere si potrebbero ottenne tre risultati: 1) rendere meno aspri i problemi di riparto di competenze tra Stato e regioni, in quanto non ci sarebbe ogni volta la necessità di definire il confine tra le materie o, all’interno della stessa materia, tra principi fondamentali e loro sviluppo; 2) risolvere il problema dell’interesse nazionale, perché lo Stato avrebbe la possibilità di intervenire con legge nazionale prevalente su quelle regionali, senza dover annullare ogni volta le singole leggi regionali lesive dell’interesse nazionale (più complicato è il meccanismo indicato nel disegno di legge riguardo alla tutela dell’interesse nazionale che inserisce il Presidente della Repubblica in un giudizio di merito politico non coerente con la sua figura di organo di garanzia); 3) risolvere, anche se solo in parte, il problema delle competenze eccessive del Senato nel campo della legislazione. Sarebbe sufficiente infatti stabilire che questo tipo di legislazione sia a competenza prevalente della Camera o che la Camera possa superare l’opposizione del Senato con particolari quorum.
Passo ad esaminare il problema del bicameralismo e del Senato federale. Molto al riguardo è già stato detto e scritto. In sintesi, le disposizioni del disegno di legge costituzionale configurano, più che un Senato federale o un organo di rappresentanza delle istituzioni e degli interessi delle autonomie, una «camera politica» che si occupa di questioni regionali.
La distribuzione delle competenze tra Camera dei deputati e Senato provoca un risultato paradossale, per cui la titolarità del rapporto fiduciario indebolisce la Camera dei deputati e rafforza il Senato. Non mi attardo sulle ragioni di ciò, credo che siano state in questa sede già ampiamente illustrate.
Per quanto attiene alla composizione del Senato, al di là delle varie ipotesi di composizione mista, ritengo opportuno richiamare due aspetti. La presenza dei senatori della circoscrizione estero appare difficilmente comprensibile in un’assemblea che dovrebbe rappresentare le autonomie territoriali. Sia pure in misura minore è per me poco comprensibile anche la stessa presenza dei senatori a vita. Se il Senato fosse federale non vi sarebbe ragione di prevedere queste due categorie di senatori. Anzi, queste presenze mi sembrano indizi di uno scarso tasso di federalismo del Senato.
Condivido pienamente un’osservazione del professor Vassallo fatta poc’anzi. Se il Senato non sarà sede di mediazione tra Stato e autonomie, ancora maggiore sarà la funzione che in tal senso svolgerà la Conferenza Stato-regioni; ma così si corre il rischio di costruire un sistema istituzionale barocco e bizzarro, una sorta di tricameralismo.
Passando all’esame delle funzioni del Senato, vorrei sottolineare un aspetto relativo a quelle di indirizzo.
Un’assemblea come il Senato (che nel disegno riformatore ha un rilevante ruolo politico) potrà ovviamente approvare atti di indirizzo. Ebbene, non vedo nel testo della riforma in esame alcuna disposizione che restringa tali atti di indirizzo alle materie per le quali il Senato ha competenze legislative. Ad esempio, potrebbe verificarsi che il Senato esamini mozioni o risoluzioni in tema di politica estera; non vedo disposizioni nel testo che lo impediscano. Ma se il Senato è eletto con un sistema diverso da quello della Camera e ha una maggioranza diversa, immaginate la situazione che si creerebbe nel caso di una mozione di politica estera approvata dal Senato contrastante con una sullo stesso tema approvata dalla Camera.
Quanto alla funzione legislativa, la strada maestra per eliminare gli squilibri presenti nella riforma è quella di seguire un modello di legislazione concorrente come quello tedesco ed attribuirne la competenza alla Camera. In alternativa, si può ricorrere ad interventi ridotti, come ad esempio prevedere che, nel caso in cui il Primo ministro dichiari essenziale per l’attuazione del programma di Governo un certo disegno di legge, questo divenga di competenza prevalente della Camera. Oppure si potrebbe ipotizzare di eliminare la competenza prevalente del Senato, che non mi pare esista in altri sistemi. In effetti, in altri modelli federali le due categorie tipiche sono la legge a prevalenza della Camera politica e la legge paritaria, non vi è una legge a prevalenza dell’assemblea di rappresentanza federale.
Alcune competenze del Senato devono comunque essere circoscritte. Mi riferisco a quelle in materia finanziaria; incomprensibile è poi l’attribuzione al Senato della competenza in materia di tutela della concorrenza. Per la legislazione relativa ai diritti fondamentali sarebbe opportuno precisare che il Senato è competente per le leggi che disciplinano non genericamente l’esercizio quanto piuttosto il contenuto essenziale dei diritti fondamentali.
Altro aspetto delicato è quello della disciplina riguardante la risoluzione delle questioni di competenza legislativa tra Camera e Senato. L’attuale testo, modificato rispetto alle previsioni iniziali, specifica che le questioni di competenza sono risolte dai Presidenti delle due Camere o da un apposito comitato di conciliazione, ma non sono sollevabili in sede legislativa. Tuttavia, se ben comprendo, in base a tale disposto le suddette questioni sarebbero sollevabili dinanzi alla Corte costituzionale. Temo allora che ciò potrebbe comportare una valanga di ricorsi di fronte alla Corte – ben superiore a quella attuale – per vizi formali del procedimento. Potrebbero non solo esserci conflitti di attribuzione tra le Camere, ma anche questioni di costituzionalità sollevate nel corso dei processi. Potrà apparire poco garantista, ma ritengo utile l’introduzione di una barriera al riguardo; in altri termini, se la questione è risolta internamente alle Camere, questa non dovrebbe essere sollevabile di fronte alla Corte costituzionale.
Vi è poi il tema delle funzioni elettive. Anche qui non vedo ragioni di carattere sistematico per cui i membri della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura debbano essere tutti eletti dal Senato, oltretutto integrato dai presidenti delle regioni. Se la presenza dei presidenti delle regioni può essere in qualche modo giustificabile per l’elezione dei membri della Corte costituzionale, altrettanto non ritengo sia per l’elezione dei membri del Consiglio superiore della magistratura. Per entrambi gli organi, è opportuno che l’elezione dei membri sia ripartita tra Camera e Senato o che si mantenga l’attuale sistema dell’elezione da parte del Parlamento in seduta comune.
Un altro aspetto del rapporto tra Camera e Senato riguarda le Commissioni di inchiesta, argomento che non mi sembra sia già stato sollevato. Vorrei richiamare l’attenzione sul fatto che, in base all’attuale testo, la Camera perde il potere di istituire autonomamente delle Commissioni d’inchiesta che operino con i poteri dell’autorità giudiziaria. Per istituire tali Commissioni è infatti necessaria una legge bicamerale, è necessario cioè l’assenso del Senato. Anche questa è una norma che suscita perplessità. Anzitutto perché le Commissioni d’inchiesta senza i poteri della autorità giudiziaria svolgerebbero un’attività attualmente già possibile con delle semplici indagini conoscitive. In secondo luogo, il tipo di funzione connesso alla Commissione di inchiesta è a mio avviso in qualche modo più legato alla Camera politica che non alla Camera di rappresentanza delle autonomie territoriali. In effetti in Germania il potere di inchiesta è del Bundestag, non del Bundesrat. Riterrei quindi opportuno apportare delle modifiche a questo articolo del testo della riforma.
Lo statuto dell’opposizione è un argomento sul quale è, secondo me, difficile avanzare proposte precise e concrete: bisogna fare molta attenzione alla cattiva comparazione ed al trapianto degli istituti in contesti politici ed istituzionali diversi.
Faccio un esempio. Un istituto che viene comunemente inscritto nello statuto dell’ opposizione è quello delle inchieste parlamentari di minoranza. Eppure il trapianto sic et simpliciter nella nostra Costituzione dell’articolo 44 di quella tedesca, che prevede l’istituzione di commissioni d’inchiesta su richiesta di un quarto del Bundestag, avrebbe aspetti quasi paradossali. L’estate scorsa vi è stata una vivace polemica provocata dalla richiesta dell’onorevole Bondi di istituire una commissione di inchiesta sull’operato della magistratura in relazione alla vicenda Tangentopoli. Si è molto discusso sulla legittimità di un’ inchiesta del genere e sul fatto che la maggioranza utilizzi lo strumento dell’inchiesta contro l’opposizione alterando così la ratio dell’istituto. Faccio notare che se fosse stata in vigore in Italia una norma uguale a quelle della costituzione tedesca, l’inchiesta sulla magistratura l’avrebbe potuta decidere da sola Forza Italia che in entrambe le camere ha gruppi parlamentari superiori ad un quarto dei componenti le assemblee. Non vi sarebbe stata nemmeno la difficoltà di mettere d’accordo le diverse componenti della maggioranza.
Le inchieste di minoranza funzionano correttamente in Germania, mentre in Italia potrebbero funzionare a danno dell’opposizione se non accompagnate da necessari temperamenti e cautele. È per questo motivo che si è fatta strada l’idea opposta di elevare il quorum per la loro costituzione in modo che la decisione non sia solo di maggioranza, ma condivisa con l’opposizione.
Esprimo qualche dubbio anche in relazione al ricorso diretto di costituzionalità delle leggi da parte dell’opposizione.
Non condivido assolutamente la tendenza a cercare di risolvere i problemi politici chiamando in causa la Corte costituzionale; in questo modo, essa verrebbe sovraccaricata di funzioni e trascinata nel gioco politico; si correrebbe il rischio di sbilanciare un organo che, fin dalla sua istituzione, ha dimostrato di funzionare bene. Non vedo quindi con favore un’apertura al controllo della Corte per l’attività interna delle Camere, i c. d. interna corporis. È un campo in cui sono più utili convenzioni di reciproco rispetto tra maggioranza e opposizione che un intervento esterno di tipo giurisdizionale.
Ritengo invece necessario estendere le competenze della Corte alla verifica delle elezioni, prevedendo la possibilità di un’impugnazione di fronte ad essa delle decisioni della camera di appartenenza del parlamentare. Una verifica dei poteri interamente di competenza di ciascuna camera in un sistema maggioritario corre, infatti, un rischio di abusi ben maggiore rispetto alla precedente situazione di un Parlamento eletto su basi proporzionali.
Per quanto riguarda le proposte relative al Capo dell’opposizione, ritengo che vi sia un problema di costume politico più che di norme scritte e ribadisco che è difficile trapiantare il modello inglese in una realtà pluripartitica. Ricordo che, all’inizio di questa legislatura, ci fu un tentativo da parte dell’onorevole Rutelli di vedersi riconosciuto un tale ruolo. La richiesta venne discussa nella Giunta per il regolamento della Camera, ma non ebbe alcun seguito. Ugualmente, nessun seguito concreto ed efficace sembra aver avuto lo «statuto della coalizione parlamentare dell’Ulivo», approvato il 23 dicembre 2002. Il problema è la coesione politica dello schieramento di opposizione.

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Lippolis per la relazione testé svolta e do la parola ai deputati che intendono intervenire.

CARLO LEONI. Mi associo al ringraziamento per la relazione del professore che ho trovato molto estesa e suggestiva nelle sue indicazioni. Mi interessa conoscere la sua opinione in relazione alla previsione che alcuni atti del Presidente della Repubblica non necessitano di controfirma.

MICHELE SAPONARA. A proposito delle Commissioni d’inchiesta, non ho capito quale sia la preoccupazione del professor Lippolis, atteso che esse, nominate dalle due Assemblee, procedono alle indagini con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria. A mio avviso sarebbe opportuno un filtro delle due Camere proprio per evitare che si abusi delle stesse.
Vorrei poi sapere quale sia la sua opinione in relazione ad un eventuale aumento del numero dei giudici della Corte costituzionale, dato il pericolo atteso che ci sia un ingorgo di ricorsi.
Infine, le chiederei un chiarimento su quanto ha detto circa le norme «antiribaltone», di cui agli articolo 88 e 94 del testo approvato dal Senato.

VALTER BIELLI. In un grande paese come gli Stati Uniti, i giudici della Corte costituzionale, oltre ad essere di un numero inferiore rispetto al nostro, hanno un metodo di elezione completamente diverso rispetto a quello ipotizzato: sono infatti nominati a vita dai presidenti in carica. Da questo punto di vista, come si concilia l’esigenza di garanzia propria di un tale organo con il fatto che sette giudici su quindici vengano eletti dal Senato?

PRESIDENTE. Do la parola al professor Lippolis per la replica.

VINCENZO LIPPOLIS, Professore straordinario di diritto pubblico comparato presso l’Università «Federico II» di Napoli. Mi soffermerò, in primo luogo, sulle Commissioni di inchiesta. Nella disposizione del progetto di riforma si intravede, con riferimento a questo aspetto, un indizio ulteriore del fatto che il Senato non sia effettivamente federale. Mi domando per quali ragioni il Senato dovrebbe condizionare la Camera con il suo assenso allo svolgimento di un’inchiesta di tipo politico, un potere che la Camera oggi possiede in base al vigente articolo 82 della Costituzione.
Si è giustamente accennato al fenomeno della proliferazione delle commissioni di inchiesta. Per risolvere questo problema o si prevedono quorum speciali per la deliberazione, in modo da imporre un consenso di maggioranza e opposizione, oppure si deve tentare di delimitare il concetto di «materie di pubblico interesse» riguardo alle quali si possono svolgere inchieste.

CARLO LEONI. Basterebbe decidere di non istituirle…

VINCENZO LIPPOLIS, Professore straordinario di diritto pubblico comparato presso l’Università «Federico II» di Napoli. Mi permetto di invitarvi a prestare attenzione nell’introduzione di istituti di ordinamenti stranieri senza valutare attentamente il loro funzionamento nella realtà politico-istituzionale italiana. Come ho già detto, nella situazione attuale, ad esempio, sarebbe solo il gruppo di Forza Italia a decidere, senza neppure la necessità del consenso di altri partner della coalizione.

CARLO LEONI. Lei ha citato l’articolo 44 della Costituzione tedesca, nel quale viene usata l’espressione «su richiesta di… ». Ma questa formulazione non vuol dire «istituito da».

VINCENZO LIPPOLIS, Professore straordinario di diritto pubblico comparato presso l’Università «Federico II» di Napoli. È necessario fare attenzione: la norma prevede che il Bundestag abbia il diritto e, su richiesta di un quarto dei suoi membri, l’obbligo di costituire una Commissione di inchiesta.

VALTER BIELLI. Obbligo?

VINCENZO LIPPOLIS, Professore straordinario di diritto pubblico comparato presso l’Università «Federico II» di Napoli. Esattamente.

PRESIDENTE. Lo si sarebbe dovuto fare all’inizio di questa legislatura, ma quel treno lo abbiamo perso…

VINCENZO LIPPOLIS, Professore straordinario di diritto pubblico comparato presso l’Università «Federico II» di Napoli. Quanto ai giudici della Corte costituzionale, nutro alcune perplessità sull’ipotesi di alterare l’equilibrio di un organo che ha funzionato e sta funzionando bene. È vero, ci sono corti costituzionali divise in sezioni, ma il problema della sua articolazione compete all’autorganizzazione della Corte stessa. Non lo considererei, dunque, uno dei nodi essenziali rispetto ai quali intervenire nel momento attuale.
Quanto al rapporto di fiducia e alla clausola antiribaltone, ribadisco che sarebbe opportuno eliminare il collegamento automatico tra approvazione di una mozione di sfiducia e scioglimento della Camera dei Deputati. Se la clausola antiribaltone sarà mantenuta, la richiamerei, così, anche nel caso di mozione di sfiducia, per la maggioranza sarebbe possibile nominare un nuovo primo ministro.

MICHELE SAPONARA. Sì, ma con maggioranza diversa?

VINCENZO LIPPOLIS, Professore straordinario di diritto pubblico comparato presso l’Università «Federico II» di Napoli. No, è chiaro che mi riferisco sempre alla stessa maggioranza.
Manca, invece, a mio avviso, una disciplina esplicita rispetto all’ipotesi della questione di fiducia. L’articolo 94 stabilisce che, nel caso in cui la questione di fiducia sia respinta, il primo ministro ha l’obbligo di presentare le proprie dimissioni potendo chiedere lo scioglimento; se chiede lo scioglimento, scatta la clausola antiribaltone. Ma se il primo ministro non chiede lo scioglimento, allora il testo non precisa quale procedura debba essere seguita. Infatti, mentre l’articolo 92 stabilisce che anche in caso di dimissioni per casi diversi da quelli dell’articolo 94 si applica la clausola antiribaltone, nulla è detto in ordine all’ipotesi di un primo ministro al quale sia stata revocata la fiducia e che non chieda lo scioglimento. Quindi, bisognerebbe ricorrere in via interpretativa alla clausola generale, secondo la quale il Capo dello Stato può procedere alla nomina del primo ministro sulla base dei risultati elettorali. Secondo me questa ipotesi non è stata disciplinata compiutamente dal disegno di legge.
Il tema della controfirma di alcuni atti del Presidente della Repubblica è stato affrontato – tra gli altri – dal professor Caravita di Torritto, che è stato uno dei primi ad occuparsi di questo problema. Mi trovo concorde con la sua posizione. Poiché il Presidente è responsabile solo in base all’articolo 90 per i casi di alto tradimento e attentato alla Costituzione, al di fuori di quelle due ipotesi sembrerebbe non esistere un responsabile. Di conseguenza forse non sarebbe sbagliato prevedere una controfirma governativa, sia pure in funzione di mero controllo di legittimità, affinché non vi siano deviazioni particolari nell’esercizio di quei poteri (benché il contenuto dell’atto debba essere determinato dal Presidente della Repubblica).
Esprimo, infine, qualche perplessità sulla configurazione del potere di grazia come di esclusiva pertinenza presidenziale. Se, infatti, la grazia non è soltanto un gesto di clemenza nei confronti del detenuto modello, ma ad essa è collegato un significato politico, l’atto può influire o può avere risvolti sull’indirizzo politico in materia di giustizia.

PRESIDENTE. Nel ringraziare il professor Vincenzo Lippolis per il suo intervento, dichiaro conclusa l’audizione.