Canada, un modo liberale per vivere la multiculturalità
Ci sono due motivi per cui forse potreste aver sentito parlar di Hérouxville, un villaggio di 196 anime sepolto dalla neve sei mesi all’anno, a circa 200 km a nord di Montréal, nella provincia canadese del Québec. Uno è che voi facciate parte di quelle comitive di europei (italiani in testa) attratti dall’esotico invernale rappresentato dal Canada, e che dunque amiate traversare in motoslitta (motoneige) o su slitte trainate da huskies le foreste quebecchesi.
L’altro motivo è che sia arrivata anche a voi notizia della mozione passata in consiglio comunale il 25 gennaio scorso, una sorta di manifesto da distribuire a coloro che eventualmente avessero in mente di andare a vivere proprio a Hérouxville senza essere pure-laine (del posto): in parole povere, ai nuovi immigrati. Il messaggio è fin troppo scoperto, nella sua ingenuità. Vi si ricorda che qui nessuno è obbligato a mettersi in maschera, anche se a Hallowe’en ciò è consentito. Che qui nessuno è obbligato a portare un’arma a scuola, anzi, che la cosa è proprio proibita, anche se si trattasse di un pugnale cerimoniale (altro che Bowling a Columbine). Che qui nessuna palestra è obbligata a tappare le finestre per non consentire la visione di donne discinte che fanno ginnastica. E che qui a scuola si può anche insegnare biologia ed evoluzione. Inoltre, che qui a Hérouxville una donna può guidare l’auto, firmare assegni, votare, ballare, decidere, parlare e vestirsi come vuole. Insomma, cari fondamentalisti, siate voi musulmani, sikh, ebrei o cristiani, se venite a stare a Hérouxville, sappiate che questo è un paese in cui vigono le libertà di espressione e di comportamento del mondo occidentale.
Francamente, come dare torto alla gente di Hérouxville? Con quote di 250.000 nuovi immigrati che entrano in Canada ogni anno, più una quota illimitata di rifugiati politici, quasi tutti provenienti da luoghi in cui il fondamentalismo religioso è all’ordine del giorno, come può anche il paese più piccolo e sperduto ritenersi immune da quello che sembra essere il vero problema del mondo occidentale: la ricerca (o il rifiuto) della convivenza tollerante tra gli individui? Sarebbe però sbagliato trattare il caso di Hérouxville come una curiosità folkloristica. Il Québec non è l’Alabama degli anni sessanta, e i francofoni della Mauricie non hanno niente a che spartire con i razzisti del Ku Klux Clan. Hérouxville non è un ritorno al passato, ma, purtroppo, una finestra sul futuro.
Il manifesto di Hérouxville è tanto più interessante in quanto nasce in un paese che credeva di avere anticipato di una generazione i nuovi problemi delle società multiculturali in cui oggi si dibatte il mondo occidentale, un paese che aveva proposto e applicato soluzioni apparentemente moderne, illuminate e, soprattutto, funzionanti. Trent’anni fa (e fin dal 1760), il vero e unico problema del Canada sembrava essere quello della secolare rivalità tra maggioranza anglofona e minoranza francofona (quest’ultima però maggioranza nella propria provincia di origine, il Québec).
Ad alcuni, tra cui il primo ministto Pierre Elliot Trudeau (1968-1979, 1980-1984) parve che l’unica soluzione fosse quella di stemperare tale rivalità facendo del Canada (per legge, si badi bene) un paese multiculturale in cui fossero garantiti i diritti non soltanto degli individui (il che già avviene da tempo tramite la legge e la sua applicazione), ma anche delle comunità di appartenenza, il che significava soprattutto la propria comunità etnica (francofoni, indiani, meticci, inuit, italiani, vietnamiti) e religiosa (sikh, musulmani, ebrei, cattolici, protestanti).
Ad altri, tra cui gli indipendentisti del Québec e il loro primo ministro provinciale, Pierre Lévesque (1976-1985), parve invece che non ci potesse essere altra soluzione che la secessione della provincia, sola garanzia di essere maîtres chez nous (padroni a casa nostra) di contro al predominio anglofono. Pur perdendo i due referendum secessionisti (1980, 1995), gli indipendentisti sono riusciti comunque a rafforzare enormemente la loro provincia nell’ambito della Confederazione, a garantire il rifiorire della cultura francofona, e anche a ottenere una decisione della Corte Suprema federale che riconosce il diritto di una provincia di staccarsi dal resto del paese, a certe condizioni (1998).
Fino a un certo punto, la ricetta canadese ha funzionato. Chiunque sia salito sull’efficientissima metropolitana di Toronto, capitale dell’Ontario ma soprattutto capitale economica del Canada, non può non avere visto che il 43 per cento dei passeggeri fa parte di una visible minority (è cioè di origine asiatica, africana o sudamericana), e che il 49 per cento di loro non è nemmeno nato in Canada. E chiunque abbia passeggiato lungo Côte-des-Neiges, una delle arterie di Montréal, non può non avere ascoltato che in quella strada si parlano più lingue che in qualsiasi altra strada al mondo (svariate centinaia). Finora, ripeto, è andata bene. Una tale mescolanza di lingue ed etnie in qualsiasi altro paese del mondo avrebbe provocato un’esplosione (vedi Parigi o Londra). Invece il Canada è ancora il luogo in cui la qualità della vita è la più alta al mondo e la destinazione sognata da tutti i diseredati e i derelitti dei terzi mondi del globo.
Ma sotto le spinte intolleranti dei fondamentalismi da una parte, e dei sensi di colpa del mondo occidentale dall’altra, l’architettura del multiculturalismo sta cominciando a scricchiolare. Ai diritti dell’individuo, il Canada sta sostituendo, o ha già sostituito (per esempio nella sua Costituzione e nella sua Carta dei Diritti del 1980, ma soprattutto nell’intepretazione che ne hanno dato i tribunali federali) i diritti delle comunità. L’Ontario è andato a un passo dall’approvare la sharia come legge regolatoria del diritto nella comunità musulmana della provincia stessa. L’autogestione delle riserve indiane (che hanno proprie consuetudini e proprie polizie) ne ha fatto delle vere e proprie isole di criminalità all’interno della Confederazione a scapito degli stessi indiani onesti.
Non so se gli abitanti di Hérouxville abbiano a suo tempo votato per l’indipendenza del Québec dal resto del Canada, ma il loro recentissimo manifesto mostra molto chiaramente che oggi il loro risentimento nei confronti delle tradizionali soperchierie degli anglofoni è passato nettamente in secondo piano rispetto alle minacce rappresentate dai nuovi fondamentalismi, la cui stessa esistenza, secondo la loro evidente opinione, mina alla base i principi democratici e liberali su cui si basa la società occidentale, nonché la vita di tutti i giorni del loro villaggio.