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Articolo apparso sul quotidiano online L’Occidentale

La democrazia italiana ha anticorpi deboli. Non perché nella sua storia c’è stato il Ventennio. E nemmeno perché, più recentemente, abbiamo avuto il Partito Comunista più forte dell’Occidente. Oggi pesa maggiormente il fatto che la tradizione di pensiero liberale nostrana sia assai precaria (Guido Ruggiero, nella sua summa sul liberalismo europeo, descrive quello italiano come un liberalismo minore tendente all’assenza), a dispetto del fatto che sia stata proprio la classe politica liberale a condurre in porto l’unità d’Italia.

Nel periodo repubblicano, poi, l’attenzione per la libertà ha influenzato assai marginalmente le grandi correnti politiche del Paese. A sinistra sono prevalse le tendenze più autoritarie, la destra è stata innanzi tutto quella erede del fascismo e nel variegato mondo cattolico i continuatori della tradizione di Rosmini, Manzoni e Sturzo si contano sulle dita di una mano. Lo stesso De Gasperi non può dirsi un cattolico liberale in senso classico. Il suo pensiero è differente e più complesso. Anche se a lui va il merito di aver assicurato, nella fase di rifondazione del Paese, una leadership che coscientemente si proiettava oltre i confini del suo partito, utilizzando uomini come Croce, Einaudi, Grassi, Meuccio Ruini e non rompendo i ponti con gli alleati minori, anche se i numeri glielo avrebbero consentito. Questa genesi, più di ogni altra cosa, ha inoculato germi liberali importanti nella nostra vita politica. Lungo il cammino tuttavia, nei momenti dei cambiamenti epocali, le correnti liberali e quelle libertarie hanno dovuto soccombere. Si pensi al Sessantotto: da noi quelli che hanno provato a importare il vento che spirava nei campus americani – e che Pasolini avrebbe voluto restassero minoranze coraggiose e “irriconoscibili”, per paura di un nuovo conformismo radicale e di massa – sono stati drammaticamente sopravanzati dagli “ideologizzati” e dai “rivoluzionari”.

In virtù di tutte queste ragioni, per molti adepti del liberalismo – tradizione fino ad allora minoritaria e in fondo anche minore – il 1994 è stato una “divina sorpresa”. Quell’improvvisa epifania di un liberalismo di governo in parte era il portato di fenomeni epocali come il tatcherismo e il reaganismo, che in Italia giungevano in ritardo imbrigliati dalle logiche partitiche ancora in voga nella penisola; in parte rappresentava la traduzione politica di forze sociali ed economiche (di provenienza innanzitutto settentrionale) che non sopportavano più le intermediazioni che il sistema partitico pretendeva di imporre loro e che avevano individuato nella coraggiosa discesa in campo di un imprenditore atipico l’occasione per liberarsi di gioghi sopportati troppo a lungo. Il nuovo contesto mondiale lo consentiva.

Non è questa la sede per un bilancio della stagione che allora s’inaugurò. Per l’essenziale, diciamo che essa ha assicurato una fase nella quale atlantismo, europeismo e multilateralismo sono stati declinati in senso più prossimo a quello che queste categorie portanti della storia repubblicana avevano avuto agli esordi, quando al governo c’era Alcide De Gasperi. Aggiungiamo che, come si leggeva una volta nelle “analisi corette” dei marxisti, “la spinta propulsiva” di quel periodo si è da tempo esaurita. E poiché i partiti, i riti, i simboli muoiono ma le mentalità restano, il suo esaurimento già da qualche lustro ha ridato fiato e forza alle correnti di pensiero più autoritarie, le quali hanno nel frattempo cambiato la loro confezione esteriore. E’ perciò lecito domandarsi se la pandemia – in senso lato, comprendente quel che è stato necessario per sconfiggerla e quel che ci sta lasciando come “residuo” – possa rappresentare un’occasione storica dalla quale le tendenze autoritarie possano trarre ulteriore forza. Per provare a formulare una risposta, l’indagine va compiuta a diversi livelli.

In ambito politico, tra le forze di governo si è accentuata una pericolosa subordinazione del Pd – partito nel quale, seppur a fatica, qualche preoccupazione “liberale” si è infine insinuata – nei confronti degli alleati del Movimento 5 Stelle. Si tratta di una condizione mal sopportata, alla quale ci si vorrebbe ribellare ed è per questo che, velleitariamente, nei paraggi di largo del Nazareno si pensa persino a elezioni anticipate che possano modificare i rapporti di forza. Restano i fatti: ogni volta che c’è da affrontare qualche scelta legislativa in ambiti che riguardano le libertà e le garanzie (per tutti, pensiamo alla giustizia), prevalgono sempre le soluzioni più autoritarie.

La situazione non è più rosea se si guarda dalla parte dell’opposizione. I due partiti “nazionali e nazionalisti” – Lega e Fratelli d’Italia – non hanno colto l’occasione di un evento eccezionale per aprirsi e trasformarsi in qualcosa di simile al Popolo della Libertà del tempo che fu, accettando di far contaminare il proprio dna originario con una immissione dall’esterno di un pensiero liberal-conservatore. E Forza Italia ha smarrito la memoria. Un solo esempio sarà sufficiente a spiegare cosa s’intende dire. Per oltre vent’anni “il giustizialismo” è stato il nemico acerrimo – persino più delle insufficienze di questa parte politica – che ha bloccato una compiuta svolta liberale nel Paese. In questi ultimi giorni si è manifestata in tutta la sua nefandezza la natura di potere e la forza di condizionamento di questo fenomeno, anche oltre ciò che si sarebbe potuto immaginare. Persino Lilli Gruber se ne è accorta, chiedendosi se, in fondo, Berlusconi non avesse avuto ragione. Il partito del Cavaliere, invece, ha preferito dar credito a Nino Di Matteo e Luigi De Magistris, i quali, al di là di ogni giudizio, sono stati dei “campioni” di quel modo di concepire la giustizia che ha provato con tutti i mezzi a “contenere” gli effetti liberali di una stagione politica.

Se dal livello politico ci si sposta verso quello istituzionale, le cose non si mettono meglio. La pandemia ha tra le sue vittime il Parlamento: sia a livello simbolico, sia a livello sostanziale. E’ inutile che qualcuno continui a sbracciarsi per dimostrare che il Parlamento è rimasto aperto. Nella sostanza delle cose, il trionfo dei dpcm ha annullato il suo ruolo di controllo e l’ignoranza istituzionale ha fatto il resto. Non si può impunemente affermare che su scelte fondamentali il “Parlamento verrà reso edotto” e far finta di non capire come esso venga così degradato poco più che a un ruolo di passacarte; non si possono nominare task force “a go-go” non ponendosi il problema del loro rapporto con il potere legislativo.

In queste settimane il vero contrappeso all’esecutivo – dalle scelte sulle riaperture fino alla fissazione delle date delle elezioni – sono state le Regioni. Il confronto, quello vero, è avvenuto in sede di Conferenza Stato-Regioni. E in fondo, prescindendo da ogni valutazione politica, l’unico momento di protagonismo che il Parlamento ha avuto è stata la discussione della mozione di sfiducia al ministro Bonafede: troppo poco. Risalire la china, ora, non sarà né facile né scontato.

C’è poi “il terzo livello”, quello più sensibile perché più degli altri sfugge alle conseguenze intenzionali: il livello delle tendenze, dei comportamenti, delle abitudini che s’insinuano – o che si prova a inoculare – nel corpo sociale. Il fatto è che, già di per sé, il prolungato confinamento e il distanziamento rischiano di generare un pericoloso riflesso di alienazione sociale. In tanti, soprattutto tra i garantiti, hanno scoperto quanto sia confortevole restare “ritirati” sotto lo sguardo vigile ma paterno di uno Stato che, in ogni caso, ti assicura la sussistenza. Le condizioni di sicurezza imposte dalla pandemia, inoltre, hanno messo una carica di dinamite sotto il potenziale di vitalità del Paese e la voglia d’intraprendere. E non ci riferiamo alla movida o agli aperi-Spritz dei quali, forse, ci si è anche troppo preoccupati. Ci riferiamo a quel tessuto che in questi anni è stata la vera forza dell’Italia e che ha consentito a un Paese gravato da un debito pubblico sproporzionato e governato da una classe dirigente insufficiente di restare, comunque, una grande e ricca potenza economica di rango mondiale.

Queste tendenze andrebbero contrastate con politiche “anti-cicliche”. E invece, dalla gestione a dir poco irriflessiva dei dati del Covid nella fase 2 agli scellerati progetti di “milizie volontarie” che garantiscano il distaccamento (roba che manco Piero Chiara o Andrea Vitali avrebbero mai immaginato possibile nei loro pur fantasiosi romanzi sulle perversioni della provincia italiana), sembra si faccia di tutto per alimentare quell’anemia sociale della quale parlava Tocqueville riferendosi ai pericoli di democrazie non irrorate dal soffio vivificante delle libertà.

Non vorremmo, insomma, che se il bacio all’hotel de Ville che Robert Doisneau fotografò nel 1950 è diventato l’emblema di una società che trae forza dalla libertà dei propri sentimenti per proiettarsi verso il boom economico, la multa di quattrocento euro a due fidanzati che si baciano a Milano nel 2020 si trasformi nel simbolo di una società che si rattrappisce e si rinchiude in sé stessa.

Ora siamo pronti per rispondere alla domanda contenuta nel titolo: in Italia c’è il pericolo di una svolta autoritaria? Se per autoritarismo intendiamo un progetto politico e sociale perseguito con coscienza e attraverso una legislazione adeguata a sostenerlo, non scherziamo nemmeno! E, soprattutto, non sopravvalutiamo una classe politica da avanspettacolo. Per quelle intraprese servono menti sopraffine come quella di Alfredo Rocco, non controfigure minori di Alberto Sordi in una delle sue magistrali rappresentazioni dei vizi degli italiani.

Se invece ci si riferisce a una tendenza sociale innescata da contingenze storiche particolari e non contrastata da una consapevole politica “anti-ciclica” – e anzi incoraggiata da convenienze politiche di infimo livello e da leggi superficiali e pasticciate su cui vigila una casta di occhiuti consiglieri senza alcun rapporto con la sovranità del popolo – beh, questo pericolo esiste. E, se non identificato e battuto in breccia, col tempo, casamatta dopo casamatta, potrebbe farsi strada fin quando gli italiani non si scopriranno meno liberi.