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di Vincenzo Zeno Zencovich

(Professore di Diritto Comparato – Università Roma Tre)

La forza – e allo stesso tempo la debolezza – del pensiero liberale è quella di essere intriso di dubbi, il che lo porta, in un perpetuo mobile, a mettere costantemente in discussione quelli che sembrano essere i suoi punti fermi.

Se non fosse una contraddizione intrinseca si potrebbe dire che il pensiero critico è naturalmente liberale, nel senso di libertà di pensiero. Contraddittorio perché una delle essenze del liberalismo è quella di non rivendicare un monopolio sulla verità, qualunque senso si desideri dare al termine.

Ciò non significa in alcun modo che il pensiero liberale sia una sorta di eclettismo indeterminato, sostanzialmente senza principi e che può essere adattato a qualsiasi circostanza.

Mentre le ideologie – nel corso dei secoli, e includendo fra loro, quindi, anche le religioni – fissano un modello attraverso il quale si deve inquadrare il mondo circostante con l’obiettivo di cambiarlo in modo coerente con i suoi principi, il liberalismo nasce dal dissenso nei confronti del dogmatismo, e quindi non può imporre una diversa forma di dogmatismo, inteso come una serie di conclusioni teoriche, che una volta raggiunte, non possono essere messe in discussione senza incorrere in eresia e di conseguenza in anatema.

Il “politicamente corretto” è precisamente una forma di dogmatismo, sempre più distruttivo del pensiero liberale perché cresce su un terreno liberale (o pretende di avere radici liberali), ma corrompe il suo senso e tradisce il suo significato intimo. Trasforma un metodo aperto in un credo chiuso. Vede coloro che pensano – ripeto, pensano – in modo diverso come i nemici con i quali bisogna ingaggiare un combattimento mortale. Usa i metodi illiberali più tipici: etichettare i suoi avversari, qualificarli come inadatti per una società civilizzata, meritevoli di essere banditi, evitati, esclusi da qualsiasi forma di rapporto. Si tratta esattamente dei metodi contro i quali il pensiero critico si ribellò, dando alla luce il liberalismo filosofico e politico.

Di seguito cercherò di presentare alcuni argomenti dominati dal “politicamente corretto” che li ha resi indiscutibili come se fossero dogmi teologici. Sono tabù e quindi a stento possono essere anche solo pronunciati. Queste pagine non hanno però un intento provocatorio, ma semplicemente quello di ricordare che il pensiero liberale mette in discussione nel corso dei secoli ciò che sembra essere una saggezza comune, sottolineando errori e banalizzazioni.

Nel fare questo è necessaria una avvertenza importante, che non è priva di conseguenze logiche: sto discutendo qui di taluni argomenti all’interno dei sistemi democratici occidentali, non solo perché il “politicamente corretto” è il prodotto delle società occidentali, ma perché ha senso solo in questo contesto, non in altri.

  1. RAZZISMO

Uno dei più grandi nemici – se non nemico pubblico n. 1 – del “politicamente corretto” è il razzismo. Qualsiasi riferimento a caratteristiche o discendenze razziali, etniche, linguistiche, anche se non espresso in un contesto negativo (o anche solo ipoteticamente negativo), è considerato una forma di razzismo perché, secondo l’accusa, si rendono esterni, visibili o apparenti, taluni aspetti dell’identità di un soggetto, col risultato di creare o rafforzare stereotipi discriminatori. 

Il razzismo si scontra chiaramente con i principi di uguaglianza di tutti gli esseri umani, indipendentemente da razza, sesso, credo. Un razzista è qualcuno che sta negando il principio di base di una società democratica e sta aprendo la strada alla discriminazione e alla persecuzione. “Razzismo” è un insulto persino peggiore di “fascista” o “criminale”.

Il problema della pervasività che il termine ha ornai raggiunto è che il suo abuso finisce per diluirne il significato: tutti sono razzisti, e dunque praticamente nessuno si salva (anche perché in famiglia sicuramente c’è stato un razzista: come dice Fedro “pater hercle tuus male dixit mihi”). Ma soprattutto trascura un aspetto antropologico di base. Tutte le comunità umane, ovunque nel mondo, sono state, sono e probabilmente continueranno ad essere xenofobe. Una comunità si protegge – o ritiene di proteggersi –   identificando i suoi membri e individuando coloro che non vi appartengono. Ma la xenofobia è cosa diversa dal razzismo, come mette bene in luce il recente libro di Raffaele Simone “L’ospite e il nemico”. Invece la propaganda “politicamente corretta” equipara coloro – e sono quasi ovunque la grande maggioranza della popolazione – che temono (a torto o a ragione) la “invasione” degli stranieri ai razzisti, cioè a coloro che, sostenendo la superiorità di una “razza” (quale che sia il significato che si attribuisca al termine) su un’altra promuovono e/o giustificano politiche di segregazione, di discriminazione, quando non addirittura di soppressione fisica. 

Questo significa che siccome (quasi) tutti sono xenofobi o agiscono come tali, dovremmo essere compiacenti? La risposta ovviamente è NO, ma i seguenti fattori dovrebbero essere presi in considerazione.

  1. Mentre la xenofobia (e la sua degenerazione in  razzismo) è ovunque nel mondo, solo il mondo occidentale ha sviluppato una profonda teoria filosofica, politica, psicologica della xenofobia e del razzismo e dei loro mali; solo il mondo occidentale ha cercato di attuare misure volte a combattere la xenofobia e il razzismo; solo nel mondo occidentale l’istigazione alla xenofobia e all’odio razziale è un crimine. Ciò ha ragioni storiche molto chiare: milioni di neri ridotti in schiavitù per oltre un secolo negli Stati Uniti, privati ​​di ogni diritto e dignità umana, con conseguenze che sono immediatamente percepibili da chiunque viaggi negli Stati Uniti. In Europa sei milioni di esseri umani sono stati sterminati per la loro presunta identità ebraica (fatto ancora più mostruoso del razzismo basato sul colore).
  2. Il fatto che le civiltà occidentali abbiano reagito alla schiavitù e all’olocausto in modo così forte non dovrebbe, tuttavia, essere interpretato nel senso che il razzismo sia una caratteristica esclusiva del mondo occidentale, e la sua vergogna. Sarebbe come se i Paesi che si preoccupano maggiormente di proteggere l’ambiente, combattere la corruzione, limitare la negligenza medica fossero etichettati come le società più inquinanti, corrotte e professionalmente inette. Questo non equivale a dire che poiché gli altri – tutti gli altri – sono razzisti, dovremmo chiudere un occhio o perdonare i nostri peccati e crimini. Ma ciò che è difficile da accettare, da una prospettiva critica, è che il razzismo sia una caratteristica tipica delle comunità “bianche” (qualunque cosa intendiamo con una nozione così ampia). Solo i “bianchi” sono razzisti. Gli altri gruppi etnici possono essere solo vittime del razzismo “bianco”. I “bianchi” non sono mai vittime di comportamenti razzisti, e quando questa càpita, in fondo – questo è il retropensiero – pagano per le colpe del presente e del passato.
  3. Ci sono ulteriori conseguenze: da un lato si promuovono società multiculturali/multietniche, ma dall’atro non si possono indicare preferenze perché questo è, esplicitamente o implicitamente, razzista; e non è possibile delineare – neppure su una rigorosa base sociologica – quali siano le caratteristiche di alcune comunità. Tutte le persone, ogni gruppo o comunità, sono uguali, non solo dal punto di vista giuridico, ma soprattutto considerando la loro identità sociale. Il “politicamente corretto” ritiene che le differenze vengano eliminate semplicemente perché non si può parlare di esse senza essere tacciati di “discorso razzista”. Ricordare che la “civiltà occidentale” (che certo non può ergersi a superiore di altre) è stata forgiata attorno a talune caratteristiche identitarie di cui l’etnia, la lingua e la religione costituiscono una offesa al “politicamente corretto” che si atteggia, in questa materia, come una notte hegeliana.
  4. In questa prospettiva, le minoranze (etniche, linguistiche, religiose) che sono orgogliose della propria identità e fanno del loro meglio per preservarla e promuoverla e per distinguersi dal resto della nazione, non possono essere criticate in alcuni aspetti, perché questo è “razzista”. In particolare, non è possibile criticare la loro mancata adesione a taluni valori che tutti riteniamo comuni alla nostra storia ed evoluzione sociale. La maggioranza, e solo la maggioranza, è “razzista” e deve essere vincolata da centinaia di minoranze lillipuziane. Solo le minoranze possono prendersi in giro; solo gli ebrei possono esprimere il loro witz (come fa magistralmente Woody Allen). Se lo fa un goy, è un oltraggio antisemita. Il che evidenzia da un lato la incomprensione dei diversi registri comunicativi: la ironia o il sarcasmo – che sono una cifra fondamentale nella costruzione della civiltà, non solo letteraria, occidentale, vengono sfigurate in “odio”. Mentre alle minoranze etniche – in quanto tali – è conferito il diritto di additare a disprezzo tutti gli altri. 

In conclusione, il razzismo è stato un flagello orrendo delle società occidentali. Ma ricordare le innumerevoli vittime della schiavitù e della persecuzione non può essere una maledizione che soffoca qualsiasi critica identitaria.

  1. COLONIALISMO

Spostarsi all’estero, stabilire sedi commerciali, occupare terre non abitate o già abitate e successivamente stabilire la sovranità della patria sui nuovi territori fa parte dell’evoluzione dell’umanità. Nel Mediterraneo, fenici e greci si trasferirono sia a ovest che a est. Ovviamente, l’impero romano allargò i suoi confini attraverso le sue colonie. Il termine è rivelatore: il colonus è un contadino che coltiva la terra. La città tedesca di Colonia porta ancora il segno della sua origine: Colonia Agrippina.

Questo fenomeno non è unico nel mondo occidentale. Altre civiltà e imperi, specialmente in Estremo Oriente, si sono espansi in modo simile. Con la scoperta del Nuovo Mondo, la colonizzazione prende una svolta drammatica: l’occupazione dei nuovi territori passa, nel continente americano, attraverso l’eradicazione delle culture precedenti e lo sterminio delle popolazioni indigene. Un processo che va dal sedicesimo al diciannovesimo secolo, e che in Nord America è glorificato attraverso centinaia di film che raffigurano la conquista del selvaggio West.

In Africa la colonizzazione ha una natura diversa: in origine si assiste alla creazione di basi navali e commerciali e solo nel XIX secolo, con la crescente concorrenza tra le nazioni europee, si vede un’occupazione politica di immensi territori da parte degli inglesi e dei francesi, e, in misura minore, da parte spagnola, portoghese, tedesca, belga, italiana.

Il controllo ha lo scopo di sfruttare le risorse naturali, garantire le vie di comunicazione, limitare l’espansione delle nazioni concorrenti. Non esiste una politica di sterminio, ma semplicemente la super-imposizione della società occidentale su quelle che sono considerate popolazioni incivili e selvagge.

Ancora una volta diversa è la storia della colonizzazione occidentale in Oriente e in Estremo Oriente. In Australia e in Nuova Zelanda si segue un percorso simile a quello delle Americhe. Ma in India, Indocina, Indonesia, Filippine le potenze occidentali devono tener conto del livello di sviluppo delle società esistenti. Soprattutto in India la storia della presenza portoghese, olandese, francese e inglese è una continua ricerca di un equilibrio tra società esistenti e stati sovrani e la necessità di controllare le risorse naturali, la produzione e il commercio. In altre aree – come la Cina – la penetrazione occidentale è puramente nominale e le “colonie” (come Hong Kong o Macao) sono semplicemente piccole sedi commerciali sotto il controllo occidentale.

Esistono quindi molte forme di colonialismo e il colonialismo è tutt’altro che morto, specialmente in un mondo globalizzato.

Nel vocabolario “politicamente corretto”, il “colonialismo” è un altro di quei crimini irredimibili, di cui solo le società occidentali sono responsabili. Solo i bianchi sono razzisti, solo i paesi occidentali, principalmente europei, hanno un atteggiamento coloniale. Ciò significa mettere da parte il pensiero critico, cioè ragionare su fatti ed eventi, guardare cosa sia successo, cosa potrebbe essere successo, cosa potrebbe accadere. E, soprattutto, distinguere. Quindi, mentre la storia della colonizzazione occidentale delle Americhe è imperdonabile, qualunque standard si applichi (aggiungendo allo sterminio delle popolazioni e culture indigene il flagello della schiavitù) in altre parti del mondo è, e dovrebbe essere, ampiamente discutibile che il saldo non possa che essere negativo. Già il fatto di paventare un simile dubbio, tuttavia, è considerato un crimine contro la correttezza politica. Ma questi dubbi devono essere mossi non per qualche dibattito teorico, ma perché sono necessari per comprendere il presente.

Soprattutto quando si tratta di Paesi africani, la maggior parte dei quali è diventata indipendente negli anni ’60 del secolo scorso, ci si dovrebbe porre quesiti sull’uso che la maggior parte di queste nazioni ha fatto della propria sovranità. Qui non si discute della assai dubbia attuazione di un sistema democratico – discuteremo di questo punto in un ulteriore paragrafo – ma delle condizioni di base per una vita dignitosa: salute, istruzione, infrastrutture. Si può ragionevolmente continuare ad affermare che la deplorevole situazione in cui si trovano ancora molti di questi Paesi sia l’amara eredità di un passato coloniale di cui i Paesi europei devono essere ritenuti responsabili? Si può confrontare lo sfruttamento delle risorse naturali da parte delle potenze e delle compagnie coloniali con quello messo in atto dalle classi dominanti “indipendenti”? In altri termini, il fatto che, almeno in Africa, i Paesi occidentali abbiano colonizzato, per almeno un secolo e mezzo, il continente, non può diventare un bavaglio nei confronti della critica su forme di amministrazione domestica ben al di sotto di qualsiasi livello di decenza (rispetto a standard occidentali), e senza dubbio responsabili dell’emigrazione di massa di milioni di persone. Il paradosso è che il dominio coloniale debba essere giudicato – e condannato – secondo i principi di indipendenza e autodeterminazione, qualunque siano gli eventuali meriti della sua azione. E ogni tentativo di sottolineare che ciò che sta accadendo in quei Paesi – guerre continue, interne ed esterne; massacri; stermini etnici; criminalità scatenata; depredazione sistematica da parte delle classi dirigenti – che nessuna potenza occidentale ha mai posto in essere è messo a tacere come neo-colonialismo.

Lo stigma ideologico che il “politicamente corretto” appone al termine colonialismo impedisce qualsiasi dibattito ragionato e documentato sugli eventi storici e impedisce persino di chiedersi, non in modo provocatorio, ma per provare ad imparare dagli errori del passato, cosa sia andato storto nel processo chiamato de-colonizzazione.

Ma quel che è peggio è che non si consenta una seria discussione su come il colonialismo – che è una caratteristica immanente delle società avanzate – si modelli nel XXI secolo. In particolare, chiude forzatamente gli occhi dell’Occidente sulla contemporanea colonizzazione cinese dell’Africa, sia a nord che a sud del Sahara. Il “politicamente corretto” non considera che nell’ordine mondiale – che ci si trovi un millennio a.C. o due millenni d.C. – ogni qualvolta vi sia un vuoto di potere (in questo caso lasciato dai paesi colonizzatori occidentali) questo venga riempito da qualche altro potere.

Da questo punto di vista il “politicamente corretto” è molto simile al populismo. Suppone che le relazioni internazionali debbano essere governate come relazioni personali e non sulla base di analisi complesse e diversificate, che guardano ad aspetti che hanno poco a che fare con il giudizio naïf (cioè inesperto). L’interesse nazionale è visto come un insulto, l’equilibrio geo-politico e le alleanze internazionali come crimini. Gran parte degli argomenti del “politicamente corretto” sul colonialismo assomigliano, drammaticamente, a quelli nei nemici delle vaccinazioni.

  1. DIRITTI UMANI

Il sistema eliocentrico del “politicamente corretto” ruota attorno al sole dei diritti umani visti non come una nozione in continua evoluzione, ma in una dimensione simil-teologica. I diritti umani sono un assoluto: non solo non possono essere ridotti e possono solo espandersi, ma sono anche usati come metro per giudicare il passato.

Di conseguenza, usando tale metodo di giudizio l’Impero romano deve essere considerato spregevole e classificato come uno dei chiari esempi di violazione dei diritti umani, perché ha ammesso e fatto ampio uso della schiavitù. Il Rinascimento fu il prodotto di un’élite sessista in cui venivano rappresentate le donne – a partire dalle Madonne e finendo con tutti i dipinti di Leda e il Cigno – solo per le loro caratteristiche fisiche legate alla sessualità e secondo stereotipi maschili. La rivoluzione industriale non è la – seppur dolorosa – evoluzione della società verso la prosperità diffusa, ma una storia di costante violazione dei diritti fondamentali della classe lavoratrice.

Questi esempi sono semplicemente fatti per evidenziare la totale mancanza di prospettiva storica dell’ideologia “politicamente corretto”, che adora principi non discutibili i quali devono essere osservati per essere ammessi nel paradiso dei veri credenti.

L’anacronismo del “politicamente corretto” (nel senso che ignora la dimensione della evoluzione temporale) è altrettanto ridicolo di chi sostenesse che Napoleone era un generale incapace perché a Waterloo non aveva richiamato le truppe di Grouchy con una semplice telefonata sul suo portatile…

Tentare di sottolineare che la nozione di diritti umani è tipicamente occidentale, una nozione che non esiste e non può esistere in altre culture che non si fondano come la nostra sull’individuo e sull’individualismo, che i diritti siano il risultato di un processo faticosissimo costellato di innumerevoli sconfitte e poche vittorie, che essi siano relativi secondo il tempo, lo spazio e la società, che debbano essere costantemente equilibrati, sono punti di vista inaccettabili per i veri adoratori del “politicamente corretto”.

Occorre sottolinearne la somiglianza con una fede religiosa, con la quale il credo dei diritti umani ha in comune l’universalità autoproclamata. Proprio come la divinità non può cambiare nel tempo e sotto diversi cieli, nemmeno i diritti umani possono farlo.

La religione dei diritti umani richiede missionari il cui scopo è convertire gli infedeli ai propri comandamenti: democrazia, uguaglianza, non discriminazione, libertà di parola, ecc.

Questa novella crociata è basata sulla credenza irremovibile secondo la quale se i pagani abbracciano la religione dei diritti umani, lasceranno dietro di sé l’ingiustizia, la povertà e la paura. In ogni caso, quale che sia l’esito, i missionari salveranno la loro anima politica. Coloro che dubitano che questo sia il modo corretto di gestire enormi problemi radicati in secoli e millenni di storia, in contesti completamente diversi da quello occidentale, sono etichettati come avversari eretici e blasfemi.

Una caratteristica del “politicamente corretto” è castigare coloro che vengono percepiti come nemici, ma quasi mai porsi domande in merito alle conseguenze e ai risultati della propria ideologia. Ci si potrebbe chiedere se a un livello inferiore, al di sotto dei crimini contro l’umanità (che giustamente siamo moralmente e giuridicamente impegnati a contrastare) esista un’altra categoria: quella dei crimini umanitari. Quelle catastrofi favorite da una totale mancanza di comprensione della complessità del mondo e, soprattutto, delle differenze esistenti – e si dovrebbe essere grati che esistano – che non garantiscono un approccio e una soluzione uguale per tutti. Se si volesse dare ai missionari del “politicamente corretto” un assaggio della propria medicina, si potrebbe dire che l’affermazione secondo cui i diritti umani devono essere fatti valere – con mezzi pacifici o con la forza (i cosiddetti “interventi umanitari”) – in tutto il mondo è una versione moderna del colonialismo politico.

C’è un altro lato della medaglia che l’ideologia assolutista e universalista dei diritti umani ignora. Come detto, i diritti umani sono il risultato di oltre tre millenni di evoluzione della civiltà occidentale. Sono costruiti sui principi etici e religiosi giudaico-cristiani e sulla filosofia greca e romana (e su tutto il pensiero che ne deriva). Queste idee sono state costantemente oggetto di sfida nel mondo occidentale e solo molto, ma molto, lentamente sono emerse. Gli orrori della seconda guerra mondiale e delle dittature che l’hanno provocata sono del tutto occidentali, come occidentale è la risposta che il mondo occidentale ha tentato di dare per evitare che quegli orrori si ripetessero.

Ma una volta che si è al di fuori del mondo occidentale come ci si può aspettare – se non attraverso l’imperialismo intellettuale tipico del “politicamente corretto” – che altre culture, civiltà e nazioni sposino gli stessi principi? Invertendo le parti, come ci sentiremmo noi occidentali se abbandonassimo il nostro sistema basato sull’individualismo (i diritti umani appartengono all’individuo) e sposassimo un approccio comunitario, tipico dell’Estremo Oriente e con profonde radici religiose e filosofiche, che pone l’interesse collettivo e la salvaguardia al di sopra e al di là dei gusti, delle antipatie, dei bisogni e delle richieste individuali?

Da un lato, riconoscere i limiti storici e geografici della dottrina dei diritti umani dovrebbe contribuire a rafforzare la sua applicazione nel mondo occidentale, come parte essenziale della “legge del territorio”, che non può essere elusa dalle minoranze etniche e religiose. D’altra parte, dovrebbe consentire un approccio più pragmatico alla circolazione di tali valori in aree che sono piuttosto estranee ad essi e che possono assorbirli solo molto lentamente e, si spera, senza passare attraverso il calvario attraverso il quale sono state forgiate nel mondo occidentale.

  1. RELIGIONE

L’Illuminismo – che diede alla luce anche il liberalismo – combatté una potente guerra contro la superstizione e la sua istituzionalizzazione, rappresentata dalle religioni e le chiese dominanti.

Come tutte le guerre, anche questa ha avuto i suoi eccessi e i suoi danni collaterali, ma senza di essa la strada per le straordinarie scoperte scientifiche (scienze naturali, fisica, medicina) non sarebbe stata aperta e lo stendardo dell’istruzione libera e laica per tutti, senza distinzione di età, sesso o classe sociale, non sarebbe stata innalzato.

Il liberalismo ha tentato di mettere in pratica il principio evangelico “Rendete ciò che è di Cesare a Cesare, e ciò che è di Dio a Dio”. Esistono molte versioni di questo approccio a seconda del Paese e dello sviluppo storico, dalla completa separazione tra religione e Stato (come in Francia e negli Stati Uniti), a una religione di Stato temperata da una grande libertà religiosa per altri credi (come in Inghilterra), agli accordi tra lo Stato e la Chiesa (concordati in Italia, Germania, Spagna e altri paesi).

Tuttavia, questo risultato può essere compreso solo alla luce dello sviluppo della civiltà occidentale. Persino un ateo convinto – come l’autore di queste pagine – sa che la religione giudaico-cristiana è alla base della sua stessa evoluzione e che uno dei caratteri comuni della civiltà occidentale è proprio il ruolo che il cristianesimo, nelle sue molteplici sfaccettature, ha giocato, nel bene e nel male, nel modellarla. Il liberalismo ha combattuto il bigottismo, ma ha sempre riconosciuto l’importanza della libertà di religione. Questo approccio equilibrato è tuttavia deformato dalla “politicamente corretto” che, essendo intellettualmente debole e senza alcuna prospettiva storica, è incapace di distinguere tra la religione e altre espressioni sociali: moda, cibo, stile di vita, modo di pensare.

Questo approccio piuttosto primitivo si esprime molto chiaramente nell’atteggiamento “politicamente corretto” nei confronti della crescente presenza – che non è mai esistita in passato – dell’Islam in Europa. L’Islam è una religione estremamente forte, non solo in senso teologico, ma anche perché molto resistente alle influenze esterne, come forte è la fede di coloro che appartengono.

Questa caratteristica era comune anche alle altre due religioni monoteiste, l’ebraica e la cristiana, la cui rigidità e assolutezza sono state però attenuate dagli sviluppi politici e intellettuali che abbiamo vissuto in Europa e attraverso l’Atlantico oltre che, necessario sottolinearlo, dai governi liberali.

Ciò che il “politicamente corretto” fa è reintrodurre dalla finestra il bigottismo, la superstizione, il fanatismo che erano stati espulsi dalla porta a partire dal XVIII secolo.

Ciò che il “politicamente corretto” non capisce è che le religioni, e in particolare l’Islam, non sono uguali al veganesimo, all’astrologia, al tifo per una squadra sportiva. La religione è all’origine dell’umanità e soddisfa i bisogni trascendenti di moltissimi esseri umani, la ricerca di risposte che non sono razionali (da un punto di vista strettamente filosofico), qualcosa di incommensurabile nella sua potenza e dimensione in cui essere – o sentirsi – persi.

Ciò a cui le nostre società secolari e tolleranti non possono resistere sono le enclaves organizzate in cui i propri valori non sono accettati o sono disprezzati. Ancora una volta, il “politicamente corretto” porta ad un paradosso: essere cristiani ed esprimere la propria la credenza nei modi tradizionali, ma rispettosi degli altri, è un comportamento da evitare ed è oggetto di disprezzo perché offende gli altri, mentre ogni tentativo di controllare comportamenti simili – ma generalmente molto più radicali – da parte di altre religioni, che sono minoritarie, è visto come una forma di repressione e discriminazione.

Ciò che il “politicamente corretto” non riesce a comprendere è che la democrazia sia il risultato di un bilanciamento estremamente complesso di valori concorrenti, che accettano di essere limitati affinché tutti possano vivere e prosperare. La reciprocità è fondamentale: ma se questa viene respinta, chiaramente l’intolleranza prevarrà sulla tolleranza; e l’intolleranza richiamerà maggiore intolleranza da parte di altri gruppi.

  1. SESSISMO

Da quando esiste una storia in qualche modo registrata delle comunità umane, siamo costretti a registrare una costante e diffusa prevaricazione e violenza degli uomini contro le donne. E ciò che più colpisce è che si tratta di una situazione che difficilmente troviamo fra gli esseri che reputiamo a noi inferiori, gli animali. Nelle società occidentali ciò ha provocato una lenta ribellione, che inizia nel XVIII secolo con la rivendicazione della parità di diritti e si sposta progressivamente (specialmente nell’ultimo quarto del XX secolo) verso una richiesta di riconoscimento della diversità dello status. Le donne non sono uguali agli uomini e i loro diritti non sono rivendicati semplicemente estendendo alle prime i diritti legali e le opportunità sociali ed economiche che sono comuni ai primi.

In questo contesto molto complesso – in cui non è facile stabilire quando l’uguaglianza è essenziale e quando invece le differenze dovrebbero essere evidenziate e garantite – l’approccio “politicamente corretto” è drammaticamente semplicistico e principalmente basato su slogan ideologici.

L’anatema è che ciò a cui ci si oppone (da una legge a un cartello, da una parola a un film, da una caratteristica architettonica all’abbigliamento) è “sessista” o espressione di “sessismo”.

Dietro l’accusa risiede l’idea che ciò che viene perpetuato è un’immagine/idea stereotipata di donna, che si basa sul loro sesso, evidenzia un punto di vista specificamente sessuale destinato a soddisfare il piacere degli uomini, da cui poi discende un ruolo sociale subordinato. Tale rappresentazione offende la dignità delle donne e rafforza i pregiudizi individuali e sociali nei loro confronti.

Ciò che il “politicamente corretto” in questo campo trascura è che il ruolo a cui ci si oppone in modo così veemente è, nella stragrande maggioranza dei casi, scelto liberamente dalle donne, specialmente per ciò che riguarda le apparenze esterne.

La battaglia anti-sessista finisce per essere la battaglia di una piccola minoranza, che desidera imporre il suo punto di vista su tutte le donne che pretende di rappresentare. È estremamente dubbio che, se interrogate direttamente (ad esempio in un ipotetico referendum aperto solo alle donne) le opinioni anti-sessiste riceverebbero un sostegno significativo. Inoltre, il suo risultato finale sarebbe, nel campo dell’abbigliamento, un ritorno ai tempi vittoriani in cui anche una caviglia nuda era considerata una forma di esibizione sessuale. L’anti-sessismo finisce per essere una forma di sessuofobia, in cui il sesso è concepito come lussuria e perversione diabolica.

E il paradosso si trasforma in parodia involontaria quando si pretende di cambiare gran parte del vocabolario per renderlo “neutro” dal punto di vista del genere.

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L’obiezione principale al “politicamente corretto” da un punto di vista liberale è che limita una libertà faticosamente e dolorosamente conquistata dopo secoli di oppressione e repressione: quella dell’espressione. Se si va al cuore del “politicamente corretto”, il suo primo obiettivo è mettere a tacere il modo in cui le idee vengono espresse, presentate, rappresentate, narrate. E deve essere ben chiaro che non vi è alcuna pretesa, in chi scrive, di rappresentare una “Verità” sulle problematiche sopra evidenziate. Si tratta invece di una reazione alla rinascita di una sorta di censura religiosa che si pensava fosse stata eliminata con l’Illuminismo, e alla creazione di nuovi tabù. 

Ma almeno in passato questi avevano una giustificazione trascendentale, che chiaramente non poteva essere sfidata senza cadere nell’eresia o nell’apostasia. Ma il “politicamente corretto” non possiede la dignità e la profondità di una religione, bensì è una postura intellettuale teoricamente fragile che chiunque può interpretare a modo suo, secondo il tempo, il luogo, le circostanze. Si può aggiungere che è tipico dell’arena politica e sociale anglo-americana. È paradossale che proprio i luoghi di nascita del liberalismo e della democrazia abbiano generato idee illiberali e anti-democratiche.

Perché è accaduto? Mancanza di sensibilità di alcune comunità europee verso argomenti profondamente sentiti altrove? Il punto è che ci sono almeno due “Occidenti” che condividono molti valori comuni, ma che sono divisi su altri. Questo è un ulteriore colpo alla presunta universalità, mot-d’ordre della correttezza politica, che ne impedisce l’esportazione in Paesi diversi da quelli in cui furono coniati per la prima volta.

Da una prospettiva sociale, il “politicamente corretto” nel mondo anglosassone potrebbe essere visto come un’espressione profana del radicalismo morale, che si è espresso nelle dozzine di confessioni cristiane sorte dopo la riforma protestante, molte delle quali emigrate negli Stati Uniti, terra promessa per il dissenso religioso, le cui istituzioni sono state profondamente influenzate da questo imprinting. A cercare dei precedenti fra Ottocento e Novecento, si potrebbe paragonare il movimento del “politicamente corretto” al quaccherismo, al sabbatarianismo (il potente movimento che imponeva ai cristiani il riposo assoluto la domenica) o al movimento proibizionista.

Si potrebbe anche avanzare un’ulteriore ipotesi: il “politicamente corretto” nelle scienze politiche potrebbe essere qualificato da un ossimoro: un maccartismo liberale. Pone in cima alla sua agenda alcuni temi senza preoccuparsi se sono – o no – condivisi da altri cittadini e in che misura.

Chiaramente la politica è intrisa di idealismo e non c’è motivo per cui il liberalismo dovrebbe essere diverso. Il problema è quando l’idealismo diventa una posizione morale: coloro che non condividono quell’idea si pongono nell’immoralità, che è una versione politicamente corretta del peccato. Il liberalismo, invece, è, e deve essere, tollerante: deve subire visioni, abitudini e approcci diversi e deve costantemente cercare di bilanciare le istanze individuali in concorrenza fra di loro con il bene pubblico.

Ciò costringe a suggerire un’interpretazione alternativa degli attuali sviluppi del discorso pubblico e delle tendenze politiche.

Il “politicamente corretto” non è una reazione estrema, ma in qualche modo giustificata, a un estremismo opposto. Sembra piuttosto essere l’irritante che ha incoraggiato l’impennata del razzismo, del suprematismo occidentale, delle comunicazioni sessiste. Come è abbastanza comune con tutti coloro che hanno pochi dubbi sul fatto di avere la giusta – l’unica giusta – convinzione, gli individui politicamente corretti tendono a considerare abbastanza irrilevanti quali possano essere le conseguenze delle loro azioni – e delle loro parole. La libertà di espressione vale per loro, non per i loro oppositori.

In particolare, i gruppi minoritari non tengono conto del fatto che un numero considerevole – se non la maggioranza – di cittadini può essere contrario alle loro opinioni ed esprimerà tali opinioni in modo democratico: votando per coloro che sostengono posizioni anche estreme nella direzione opposta. L’estremismo richiama l’estremismo.

Questa tendenza finisce per condannare inevitabilmente il liberalismo ad un destino minoritario – se non anche settario – in cui solo pochi – i giusti – possono identificarsi. Salveranno la loro anima politica in un mondo di infedeli e rinnegati. In questa tendenza c’è un’inclinazione elitaria che è facilmente e demagogicamente contrastata dall’attuale ondata di populismo.

Il liberalismo invece di essere una teoria politica maggioritaria, in grado di abbracciare sempre più persone che credono che la loro libertà ed il loro benessere possano crescere con quella del resto della comunità raggiungendo costantemente compromessi e accomodamenti, diventa un movimento d’avanguardia facilmente disprezzato.

A lungo termine i sostenitori del “politicamente corretto” potrebbero anche avere ragione, ma si dovrebbe ricordare ciò che John Maynard Keynes disse: “Nel lungo termine saremo tutti morti” (e il liberalismo lo sarà con noi).