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Cari colleghi storici,

proviamo, se è possibile, a metterci d’accordo su due o tre cose preliminari. Innanzi tutto: esiste una differenza abissale tra libertà d’espressione e libertà di menzogna. La prima s’arresta laddove l’altra ha inizio. E la bugia pubblica deve essere sanzionata in modo proporzionato al danno che produce, al singolo o alla comunità. Se si prescinde da questo principio elementare, si corre il rischio d’introdurre il relativismo nella cittadella della storia. E, in questo modo, di trasformarla in null’altro che una collazione di opinioni più o meno autorevoli. Le verità della storia sono sempre provvisorie, perché possono essere smentite da studi più documentati e da ricostruzioni più convincenti. Ma sono, pur sempre, verità. Non possono essere degradate a opinioni e tanto meno ad affermazioni ideologiche quando riguardano gli individui e, ancor più, quando concernono drammi collettivi dell’umanità che hanno causato morti innocenti, distruzioni, sofferenze mai prima immaginate. Nessuna legge potrà, dunque, punire un lavoro serio che, sulla base di documenti, giunga a nuove acquisizioni. Ma tale circostanza è completamente differente da quella per la quale, fregiandosi dell’autorità di storico, si spaccino per vere farneticazioni che disorientano e creano le premesse per lo sviluppo dell’anti-semitismo. In questo caso la libertà d’espressione non c’entra niente e neppure la libertà di ricerca. Ci si trova al cospetto di un comportamento che può causare un danno alla società e che, come tale, può essere perseguito. Abbiamo applicato questo criterio per fatti storici per noi italiani essenziali, come il fascismo e l’unità nazionale ma che, si converrà, hanno una portata storica nemmeno comparabile all’Olocausto.

Si pone, allora, un solo un problema d’opportunità: è conveniente o meno stabilire una sanzione? Al proposito, scrive Timothy Garton Ash sulla Repubblica di ieri: “in una società libera ogni restrizione della libertà di parola necessita di una giustificazione convincente che in questo caso non si trova”. La premessa è condivisibile; la conclusione lascia francamente basiti. Così come, cari colleghi sottoscrittori dell’appello contro la punizione del negazionismo, lasciano basite alcune affermazioni del vostro documento, tanto da suggerire di non lasciarlo passare senza una replica. Scrivete, con stizza, che negli ultimi tempi il negazionismo è stato troppo spesso al centro dell’attenzione dei media. Vi faccio sommessamente notare che non si è trattato di un caso. Se ciò è accaduto è perché mai prima di oggi esso è divenuto obiettivo politico perseguibile. Vi siete accorti o meno che Mahmud Ahmadinejad, Presidente della Repubblica di uno Stato che potrebbe presto avere la bomba atomica, ha trasformato il più grande orrore della storia dell’umanità in programma politico attuale? Vi siete accorti o meno che in Europa c’è una ripresa d’antisemitismo come mai s’era vista dal termine della Seconda Guerra Mondiale, che ha portato all’incendio di Sinagoghe e a violenze fino a qualche anno fa inimmaginabili nei confronti d’inermi cittadini? E, per restare anche solo nell’ambito degli storici, vi siete accorti o meno che quelle che erano farneticazioni di pochi isolati si sono trasformate in programma per convegni celebrati in pompa magna a Teheran?

Nell’appello, poi, aggiungete che attraverso il reato di negazionismo, si accentuerebbe la discutibile idea dell’unicità della Shoah. Create, in tal modo, un’ulteriore confusione: quella tra una menzogna storica e una tesi storica. Io l’unicità della Shoah la difendo, in quanto ritengo che nessun programma di sterminio del genere umano – neppure quello perseguito nei Gulag – sia mai giunto a tanta perfezione e sia mai stato più assoluto. Ma mentre su questa tesi sono pronto a confrontarmi, non sono disposto neppure a prendere in considerazione la negazione dell’Olocausto suffragata soltanto da aberranti opinioni ideologiche. Quel cortocircuito fa sorgere il sospetto che, in realtà, vi sia in giro un’inconfessata voglia di diminuire la rivelanza storica di un evento, mettendolo sullo stesso piano dei crimini coloniali italiani o, come scrive Ash, delle vignette contro Maometto che offendono i mussulmani.

E così, dopo aver coltivato l’antifascismo storico militante negli Istituti Storici della Resistenza; non aver mosso un sopracciglio quando Renzo De Felice era oggetto di scherno e di minacce per le sue ricostruzioni del fascismo; sopportato in silenzio il tentativo di tacitare la professoressa Pellicciari per difendere il diritto di esprimere le proprie opinioni sul risorgimento – da me personalmente in gran parte non condivise -, ci si mobilita in massa contro una legge che punisce il negazionismo, nel momento storico nel quale esso diventa una minaccia effettiva. Si raggiunge in tal modo il bel risultato di trasformare un principio quale la libertà d’opinione, da trattare con empiria e buon senso, in principio teologico al fine di rendere nella notte, in nome della storia, tutte le vacche egualmente nere.