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L’indagine di Piero Craveri sul percorso biografico di Alcide De Gasperi si è prolungata per poco meno di un ventennio. Inauguratasi nel 1988 con la stesura della voce per il dizionario biografico degli italiani essa, come si vedrà, non può ritenersi estranea alle convinzioni che si trovano alla base del volume scritto nel 1995 per la storia d’Italia dell’Utet, consacrato alle vicende della repubblica dal 1958 al 1992. Ai primi anni del secolo appartengono, invece, due ulteriori scritti. Il primo consiste in un breve ma significativo articolo del 2002 per la rivista “Ricerche di Storia Politica”, che prende in esame l’atipicità della leadership degasperiana (3). L’altro un più ampio studio ricompreso nel volume di profili biografici edito, nello stesso anno, da Marsilio: a tutti gli effetti una prova generale della grande biografia nella quale infine, nel 2006, sarebbero sfociate vent’anni di ricerche e di riflessioni.

Vi è una costante che accomuna tutti questi studi: la convinzione della centralità che nella biografia di De Gasperi rivestono le esperienze familiari e gli anni della formazione. Per Craveri sarebbe stato proprio questo retroterra a consentire di ricondurre le evoluzioni della politica degasperiana all’interno di un iter logico e unitario. Quest’evoluzione si sarebbe compiuta attraverso quattro fasi. La prima – la più a contatto con le radici e, dunque, per molti versi decisiva – è quella del periodo vissuto tra Trento e Vienna, nella quale venne affinandosi il suo bagaglio politico dal punto di vista sia concettuale che esperienziale. La seconda fase dal punto di vista del pensiero, è invece contraddistinta dai primi contatti con il cattolicesimo italiano di Murri; mentre sul versante politico è segnata dall’impegno come deputato al Parlamento di Vienna e poi dall’avvento della prima guerra mondiale con tutte le sue conseguenze di ordine personale e politico. La terza coincide con gli anni tra le due guerre ed è forse il periodo nel quale vengono maggiormente alla luce i tratti caratterizzanti del percorso politico di De Gasperi attraverso l’esperienza vissuta nelle file del Partito Popolare. Infine l’ultimo periodo: quello che si apre con il secondo dopoguerra e che Craveri interpreta non solo come maturazione finale di una vicenda biografica ma anche come il momento in cui un’elaborazione originale, per la prima volta, trova attuazione nell’esercizio di una concreta, per quanto atipica, leadership politica.

Questa trama biografica sottende tutti gli scritti craveriani su De Gasperi. Ma nello scritto che analizza le peculiarità della leadership di colui il quale anche per Craveri – così come per Maria Romana De Gasperi -, resta pur sempre “un uomo solo”, si fa esplicita. Non fosse che per questa ragione, converrà anche a me assumerla e seguirla nel tentativo di cogliere il senso, le costanti e le evoluzioni di un ventennale percorso analitico.

L’indagine sul primo periodo è quella attraverso la quale le radici dell’esperienza di un cattolico in politica vengono ricondotte alla provenienza familiare e alla formazione personale. Craveri coglie sin dall’inizio dei suoi studi ciò che in tempi a noi più recenti Paolo Pombeni avrebbe sviluppato in una indagine autonoma: l’importanza che ebbe per De Gasperi l’essere stato cattolico nel Trentino imperiale, mediata dall’influenza di Vienna e in particolare di Karl Lueger – il borgomastro della città e leader del partito cattolico austriaco -, dal rapporto con Ernst Commer – il docente di dogmatica alla facoltà di Teologia che gli fu maestro – e, più generalmente, dall’influenza da quel cattolicesimo austriaco che ancora più di quello trentino va considerato differente dalla tradizione del cattolicesimo politico italiano.

De Gasperi rivendicò sempre e fermamente la propria italianità, per quanto questo dato sia stato messo in dubbio da odiose campagne di discredito: quelle che gli fecero più male. Non di meno, il suo essere cattolico nel Trentino dell’Impero, lo avrebbe portato a non identificarsi mai del tutto né con Murri né con Sturzo e, per quanto possa apparire paradossale, nemmeno con quella stessa Democrazia Cristiana della quale negli anni del dopoguerra fu fondatore e leader conclamato.

La vicinanza alla battaglia dai cristiano-sociali in Austria, la diffusione che qui ebbero i principi della Rerum Novarum, le lotte per l’affermazione del cattolicesimo in un Trentino in cui la dimensione imperiale sarebbe rimasta sempre dominate, lo avrebbero portato a sviluppare una concezione dell’impegno politico che può rinvenirsi in ambiti differenti.

In quello economico, la lotta “su due fronti” – al contempo contro il capitalismo e il socialismo -, non si traduce in lui nella ricerca di una terza via bensì nella convinzione che il mutamento sociale vada governato attraverso un sistema «misto», basato sia sul coinvolgimento dello Stato nell’ottica del “solidarismo” affermato dall’enciclica leonina, sia sull’affermazione del diritto alla libera iniziativa insito nella logica di mercato.

In ambito culturale e religioso, sempre in questo torno di tempo, matura il rifiuto dell’integralismo e dell’antimodernismo a favore del tomismo. Da questa opzione De Gasperi deriva tra l’altro uno degli aspetti salienti del suo pensiero politico: la distinzione tra Stato e nazione. Il primo inteso secondo un’accezione storica, la seconda in una dimensione «naturale» e quasi originaria. Proprio qui risiede uno dei motivi di maggiore distanza rispetto all’esperienza del cattolicesimo politico italiano. La dimensione sopranazionale rappresentata dall’Impero, avrebbe infatti posto ai suoi occhi in termini diversi il rapporto tra Stato e nazione. Mentre i cattolici italiani avrebbero originariamente lottato contro lo Stato, De Gasperi si è infatti trovato a vivere nello Stato ma a condizione di riconoscere la preesistenza di un concetto di nazione che lo prescinde e lo supera. Questo aiuta a capire, tra l’altro, il suo rifiuto per l’irredentismo nell’accezione battistiana di rivendicazione nazionalista a favore di una concezione più organica nella quale la società ha il primato su uno Stato che, però, per De Gasperi, resta pur sempre il garante della libertà e dell’autonomia della società stessa.

Trasferita quest’idea sul terreno più prettamente politico-istituzionale, se ne ricava che proprio nell’intercapedine che si viene a creare tra la concezione della nazione e quella dello Stato si crea lo spazio nel quale si sarebbe potuta sviluppare una democrazia pluralista: quella che per De Gasperi consente ai cattolici di non far aderire integralmente la loro azione politica alle ragioni della loro fede personale.

Da tutto ciò deriva che, secondo Craveri, l’atipicità del cattolicesimo politico di De Gasperi ha radici profonde. Proprio questa prima fase della sua biografia spiegherebbe, dunque, quella concezione dell’impegno politico che lo avrebbe distinto dalla classe politica della futura Democrazia Cristiana. Detto in altri termini, qui risiede la ragione prima della sua solitudine; qui si trovano quegli elementi che gli avrebbero poi consentito di giocare un ruolo decisivo nella politica italiana, in particolare nel secondo dopoguerra, rimanendo però una sorta di unicum nel panorama della dirigenza del partito cattolico.

La seconda fase della biografia degasperiana, come si è detto, è quella della deputazione di Vienna e della prima guerra mondiale. E a questi anni Craveri riconduce la maturazione di alcuni dei principi già elaborati nel periodo precedente.

Si precisa, innanzitutto, la differenziazione dal programma murriano sebbene De Gasperi giunga a condividerne i tratti politico-sociali, molto più moderni nelle loro aspirazioni riformistiche di quanto non fosse l’elaborazione del partito cristiano-sociale austriaco. Di esso, però, egli condanna l’aspirazione a investire la sfera ecclesiastica nonché il tentativo di fare della Democrazia Cristiana un soggetto al tempo stesso “pre-politico” e “troppo politico”: una sorta di agenzia per la riforma della filosofia, delle scienze e degli stessi ordinamenti ecclesiastici.

Questa presa di distanza dall’elaborazione propria del cattolicesimo italiano sul versante politico-culturale è però compensata, almeno in parte, da un suo distacco, sul terreno più propriamente politico, dalla dimensione imperiale. Sul piano interno essa si traduce in una più forte rivendicazione dell’autonomia della regione dall’Impero che vede De Gasperi impegnato più di prima nella difesa delle questioni trentine, dei diritti linguistici delle minoranze, del principio di nazionalità nella sua accezione originaria. Sul terreno della politica estera si compie, invece, il passaggio dalle posizioni triplicistiche a un neutralismo più in linea con il sentire cattolico, anche italiano.

Gli anni tra le due guerre che costituiscono la terza fase biografica, sono caratterizzati dall’esperienza vissuta nelle file del Partito Popolare. Di questa vicenda De Gasperi condivide i presupposti critici della polemica contro lo Stato liberale ma non ne partecipa fino in fondo le implicazioni di carattere istituzionale, finendo così per maturare un atteggiamento atipico rispetto a quello degli altri popolari nei confronti della nazione. Paradigmatico, a tal proposito la sua posizione sul partito politico. Non diversamente da Sturzo, anche per De Gasperi questo rappresenta la vera novità, portato della guerra. La sua riflessione, tuttavia, non si ferma tanto sul ruolo istituzionale dei partiti, quanto sulla tipologia di ideali dei quali essi si fanno portatori. De Gasperi, insomma, non si nasconde che il problema del partito in Italia coincide con quello del ruolo delle cosiddette “forze anti-sistema”. Anch’esso, per l’essenziale, è sospinto sul proscenio della storia dal vento proveniente dalla rivoluzione russa del 1917 e ciò avrebbe imposto di non sfuggire alla considerazione del rapporto tra rivoluzione e democrazia.

Per De Gasperi si tratta di concetti ontologicamente opposti. E questa convinzione – affatto scontata allora, persino nelle file popolari – lo porta, infine, ad approcciare una concezione liberal-democratica dello Stato nazionale. La sua concezione di democrazia, infatti, è lontana dai miti di matrice giacobino-marxista della mobilitazione rivoluzionaria e della partecipazione diretta. Ne deriva una presa di distanza, sul terreno istituzionale, dalla critica al sistema parlamentare; su quello economico-sociale da ogni concezione collettivista che nega valore alla libertà e alla libera iniziativa economica. E’ lungo questo percorso che, infine, matura la componente liberale del pensiero degasperiano, di matrice più tocquevilliano-americana che francese, anche perché imperniata sul nesso profondo tra religione e libertà, nella difesa di una democrazia che è «antirivoluzione» proprio in quanto la sua essenza consiste nella possibilità da parte di un popolo di autogovernarsi nella libertà, senza ricorrere alla violenza.

La quarta fase, quella del secondo dopoguerra, Craveri la legge come quella in cui la maturazione finale di un lungo percorso di riflessione si avvera attraverso la concreta attuazione del patrimonio ideale e teorico accumulato nelle stagioni precedenti.

Sul versante istituzionale, come su quello economico e partitico, ritorna a proporsi la centralità del tema del rapporto tra la dimensione personale dell’essere cristiano e quella pubblica, che si declina “in alto” nella necessità di indicare le modalità di costruzione di una nuova forma di Stato che non si ponga però in rottura con il passato liberale; “in basso” nel disegnare una nuova politica delle alleanze con le altre forze partitiche e sociali. Provo, di seguito, a evidenziare sinteticamente quali sono le voci principali che, provenienti da queste premesse, finiscono per costituire il paradigma degasperiano.

In De Gasperi la consapevolezza di una nuova stagione istituzionale convive con la convinzione di preservare la continuità dello Stato e, per il possibile, di recuperare quanto c’è di buono nella stagione liberale prefascista. Anche perché la sua concezione di una democrazia pluralista finisce per collocarsi distante dalle teorizzazioni più radicali (e per questo più esposte al rischio dell’integralismo) di Mounier e di Maritain, che tanto fascino esercitavano invece sulla nuova generazione di politici cattolici. Da qui la non celata polemica di Craveri con la lettura di Pietro Scoppola che, mettendo l’accento con enfasi sulla novità e della costruzione di equilibri nuovi, avrebbe offuscato il recupero del tempo precedente che vi fu nella concreta politica del leader trentino.

Questo impianto teorico, fatto interagire con le obbligazioni di carattere internazionale e interno del secondo dopoguerra, spiegano come sia possibile che De Gasperi miri alla costruzione di uno Stato forte e di una democrazia protetta che sappia tutelarsi contro le insidie dei suoi nemici interni ed esterni. Sul piano della politica delle alleanze, proprio da qui deriva innanzitutto la concezione del centrismo come “strategia”, piuttosto che come “tattica” politica, finalizzata ad assicurare stabilità al sistema contro le derive autoritarie di destra e di sinistra.

In questa stessa cornice si colloca, sul terreno economico-sociale, il programma di «protezionismo liberista». Esso approfitta di antiche elaborazioni che, come si è visto, risalgono al tempo tra le due guerre e che occhieggiano al concetto di sussidiarietà. Ancor più, si avvantaggia della convinzione che il liberalismo non sia un dogma né una teoria elittaria. Esso può e deve essere anche prassi popolare, che trova la sua massima forza proprio nella capacità d’adattamento a contingenze differenti. Sul piano della politica concreta, da qui deriva la capacità di parlare all’anti-comunismo esistenziale presente nella società italiana e sempre da qui matura l’apertura al c.d. “quarto partito”, alla rappresentanza di quegli interessi rimasti esclusi dalla dinamica politica della transizione che, se non coinvolti, avrebbero reso ancora più acuta la debolezza dell’impianto del nuovo Stato.

Tutto ciò deve essere tenuto presente per comprendere la concezione degasperiana del partito. Come sostiene Craveri, per lui la Democrazia Cristiana è partito dei cattolici e non “fra” cattolici, come nell’esperienza di Sturzo. A questa convinzione si lega l’idea di un partito legato a saldissimi principi “previi” ma, in fondo, più pragmatico che ideologico. E, soprattutto, la rivendicazione di uno spazio di autonomia tra società e Stato nel quale, semmai, anziché nel partito, si sarebbe potuta inverare l’unità dei cattolici. Proprio per questo, l’elemento disciplinare viene collocato all’esterno dell’arena più propriamente politica: concepita come «disciplina cattolica» e mai come disciplina di partito.

Sul terreno istituzionale se ne ricava la ferma difesa del primato delle istituzioni rispetto ai partiti in un approccio che per certi versi può essere ricondotto al modello britannico; a una scala gerarchica per la quale è il governo che comanda sui gruppi parlamentari che, a loro volta, segnalano la centralità del momento parlamentare ponendosi come cinghia di trasmissione tra l’esecutivo e il partito c.d. “extra-parlamentare”.

Infine, e non da ultimo, la politica internazionale basata sul riscatto della posizione italiana dopo la guerra, sulla adesione al blocco occidentale e sulla costruzione di una unità europea che finisce per ricordare molto, almeno nelle aspirazioni, quel modello di convivenza tra Stati sperimentato negli anni di appartenenza all’Impero.

Queste convinzioni non vivono in uno spazio separato. In De Gasperi esiste una forte connessione tra la dimensione interna della politica e quella estera, al punto che la seconda, per i vincoli imposti dalla evoluzione degli equilibri internazionali alla luce della graduale affermazione delle dinamiche di guerra fredda, appare la condizione imprescindibile per comprendere l’attuazione del disegno politico degasperiano e come in esso si saldi la discrasia tra elaborazione formale e realizzazione materiale.

Si può a questo punto concludere che il De Gasperi di Craveri è, per molti aspetti, un De Gasperi «nuovo», dai tratti atipici, difficilmente riconducibile entro gli schemi prettamente italiani del cattolicesimo politico di matrice liberale o sociale. Sconta certamente il paradosso d’essere un national builders per alcuni aspetti estraneo alle vicende nazionali eppure profondo conoscitore delle dinamiche italiane. Infine – e forse questo è il tratto più interessante dei suoi studi -, la stagione degasperiana è finalmente letta prescindendo del tutto dalle categorie di “reazione” e di “stagnazione” che a lungo avrebbero contraddistinto la storiografia su quella stagione politica. Il De Gasperi di Craveri è, insomma, un riformista che opera all’interno di un quadro di garanzie istituzionali e formali, che un ordine democratico impone di difendere anche a fronte di pressioni che giustifichino l’attuazione di misure forti.

Quest’impianto non può essere messo in dubbio. O, quanto meno, io non intendo metterlo in dubbio ritenendo che il suo concepimento da parte di Piero Craveri abbia rappresentato una vera e propria svolta storiografica, non soltanto nell’ambito degli studi degasperiani ma più in generale in quello delle indagini sul periodo repubblicano. Piuttosto, al suo interno, è possibile evidenziare qualche contraddizione e ricercare perciò qualche precisazione affinché l’impianto si rafforzi ulteriormente. Per questo, da ultimo, vorrei segnalare tre nodi interpretativi che interessano la ricostruzione del periodo repubblicano: quella che, forse, potrebbe approfittare ancor più della trama unitaria della biografia degasperiana che così bene è stata tessuta.

Craveri, come si è detto, legge l’ultimo De Gasperi all’interno di un percorso di maturazione di principi e convincimenti. Questo processo, però, trova conferma solo parziale nella descrizione che egli propone della sua politica nel corso della stagione repubblicana. In particolare per quanto concerne il tema della costruzione delle alleanze.

L’idea di una possibile apertura a sinistra, verso i socialisti, che è affermata esplicitamente nel saggio sulla leadership del politico trentino, proprio alla luce dell’iter biografico, non appare fondata. E con essa anche l’ipotesi della valutazione del centrismo come premessa per l’apertura al successivo centro-sinistra. Qui, a mio avviso, l’autore paga qualcosa a quella concezione darwiniana dell’evoluzione del sistema politico italiano che trova l’interprete più alto in Pietro Scoppola e che proprio il De Gasperi di Craveri, paradossalmente, contribuisce a smontare. E’ come se l’autore non abbia poi tratto tutte le conseguenze dalle premesse che egli ha fissato. Si avverte, sebbene distante, la eco di un suo precedente studio sul successivo periodo repubblicano – quello che s’inaugura col 1958 – che per altro verso, alla luce degli approfondimenti successivi, egli ha revisionato in molti dei suoi presupposti.

Il fatto è che De Gasperi non guardò, né poteva guardare, all’apertura verso il socialismo nenniano. Glielo impediscono l’esperienza dei Cln, quella della Costituente e del referendum istituzionale. Glielo impediscono, ancor più, gli equilibri internazionali e il patto d’unità di azione con i comunisti. Paradossalmente – e forse nemmeno troppo -, De Gasperi ritiene un interlocutore più credibile Togliatti, in particolare dopo la svolta di Salerno e la disponibilità del Pci a favorire il compromesso sulla continuità istituzionale. Lo stesso Craveri, d’altro canto, al fine di comprendere le peculiarità del disegno politico degasperiano ritiene vincolanti rispetto alle sue scelte politiche, la peculiarità degli elementi di una stagione interna e internazionale per molti versi eccezionale. Quelle peculiarità da un certo punto in poi, come si dirà infine, sarebbero in parte cambiate. Dunque, non possono essere lette come premessa di quel mutamento degli equilibri politici che sarebbe avvenuto negli anni seguenti.

Una seconda riflessione riguarda l’attribuzione a De Gasperi del «merito» di aver imbrigliato la dinamica del sistema in un contesto interno e internazionale, gettando così le basi per la ripresa del Paese. Ma se Craveri considera questo un merito, al contempo ritiene che fu anche l’anello debole delle sua strategia. Nella scelta tra democrazia dell’alternanza ed equilibrio al centro, in un sistema bloccato, che la legge del 1953 avrebbe voluto blindare, starebbero i germi di quella democrazia incompiuta, di quel «congelamento costituzionale» che poi avrebbe caratterizzato tutta la storia della repubblica, almeno fino al 1992. Vorrei avanzare, a questo proposito, due precisazioni. La prima è che, date le premesse dell’iter politico degasperiano, non era possibile immaginare che De Gasperi scegliesse la strada dell’alternanza. Non apparteneva alla sua concezione della democrazia e della dinamica istituzionale. A fronte della presenza di partiti estremi, il sistema per lui non poteva che trovare il suo equilibrio al centro. Su questo punto va anche specificata la tesi che Craveri a un certo punto avanza, per la quale l’alleanza con i partiti cosiddetti laici fosse una «condizione di necessità». E’ stata questo ma anche molto di più. Lo dimostra il rapporto che egli ebbe con gli uomini provenienti dalla esperienza liberale: a tutti gli effetti una sorta di “guardia pretoriana” collocata al di fuori dei confini del partito. Lo conferma la lettura della documentazione relativa ai dibattiti che portano alla formazione del suo primo esecutivo laddove, nelle riunioni dei rappresentati dei sei partiti, tra il novembre e il dicembre 1945, avrebbe insistito con tutte le sue forze per mantenere la formula a sei, non rinunciando all’appoggio dei liberali. Lo attesta, infine, la scelta di tenere ferma la formula centrista anche a fronte dell’ampio successo elettorale della Dc dopo il 18 aprile. E si viene così al terzo elemento di riflessione: quello che mi sta più a cuore perché ancor più degli altri investe il nodo del 1953 del quale, in tempi non lontani, mi sono occupato.

Craveri sottolinea come il disegno degasperiano si sia in un certo senso trovato costretto a resistere ad una serie di contraddizioni, segnate dalle pressioni vaticane, dalla polemica interna al suo partito, dal condizionamento esterno. Sottolinea, quindi, come i suoi eredi, che avrebbero preso la guida del partito e del paese, avrebbero potuto superare queste contraddizioni in un clima internazionale meno teso e avendo innanzi un’Italia diversa da quella che aveva preso in mano il leader trentino. Lo fecero solo in parte, lasciando che quel sistema in un certo senso perdurasse. In questo passaggio, come anche nell’ascesa di Fanfani alla guida della Dc e del Paese, Craveri individua un elemento di continuità. Io ritengo, invece, che non si riesca ad inquadrare appieno la figura degasperiana senza sottolineare la profonda rottura che il 1953 avrebbe creato, tanto rispetto al sistema politico e partitico, quanto rispetto al rapporto tra religione e politica, quanto, infine, al quadro delle relazioni internazionali.

Craveri afferma che De Gasperi scelse “Iniziativa democratica”, la corrente che nasceva almeno in parte dalle ceneri del dossettismo e nelle cui file militava quella generazione di giovani cattolici così distanti dal leader trentino, e “Iniziativa democratica” scelse De Gasperi. Forse il significato di quella duplice scelta andrebbe considerato in una prospettiva diversa dalla mera continuità. De Gasperi era troppo accorto per non capire che la sua successione avrebbe aperto una nuova fase nella vita del partito, almeno quanto quella che si era aperta nel Paese in conseguenza della sconfitta elettorale del 1953. Alcune delle sue ultime lettere attestano la drammatica considerazione che egli aveva di questo doppio passaggio e delle sue correlazioni interne. Nel 1953, insomma, le due fratture si sommarono. Craveri sostiene che la Dc non fu sconfitta in quella circostanza ma che, al contrario, vide affermata la sua forza elettorale e politica. Quella data, non di meno, segnò la sconfitta di De Gasperi, della sua esperienza e del suo disegno politico. La storia successiva non può più essere letta come una continuazione, nemmeno parziale, della precedente. Dopo quelle elezioni “fatali” De Gasperi era altra cosa, altra cosa era l’Italia, altra cosa era la classe dirigente cattolica, questa volta sì, integralmente italiana.

De Gasperi trattò la sua uscita di scena alla luce di queste consapevolezze. Sicché, prendendo in prestito una terminologia del moderno linguaggio istituzionale, si potrebbe infine affermare che la sua fu assai più una “devoluzione” che non la trasmissione di un’eredità.