Dimenticare Bush, ma non troppo
La svolta è avvenuta il 31 gennaio scorso. George W. Bush è a Wall Street per pronunciare un discorso sullo stato dell’economia americana. Fox News, il canale di Rupert Murdoch vicino all’amministrazione repubblicana, snobba l’evento e manda in onda una trasmissione sulle presidenziali del 2008. La voglia di voltare pagina è forte e non solo tra i Democratici. Un sondaggio commissionato da Newsweek, qualche settimana fa, ha rilevato che il 58 per cento degli americani desidererebbe che la presidenza Bush fosse già conclusa. Ecco allora che sulle copertine delle riviste scompare il presidente e compaiono con sempre maggiore insistenza i candidati alla sua successione. Obama, Hillary, Giuliani e McCain fanno notizia con poco, mentre Bush torna alla ribalta solo quando c’è di mezzo una crisi internazionale come quella del nucleare iraniano. Network e quotidiani hanno già sguinzagliato i propri inviati per seguire, passo dopo passo, le star dei due partiti. Si percepisce in modo tangibile che le prossime elezioni saranno differenti da quelle del recente passato. Innanzitutto, per la prima volta dal 1928, tra i candidati non ci sarà il presidente in carica (Bush avrà esaurito i due mandati) né il vicepresidente (Cheney si è tirato fuori dalla contesa). La competizione del 2008 potrebbe, inoltre, consegnare all’America il suo primo presidente donna o il suo primo presidente afroamericano. D’altro canto, sebbene le possibilità siano minori, potrebbe anche essere eletto il primo presidente mormone (il repubblicano Mitt Romney) o latino-americano (il democratico Bill Richardson).
Altro dato inedito delle presidenziali del 2008 è il largo anticipo con il quale i Big sono scesi in campo. Quindici anni fa, l’allora governatore dell’Arkansas, Bill Clinton, annunciò la propria candidatura alla Casa Bianca quattro mesi prima dei caucases in Iowa. La moglie Hillary, e con lei gli altri principali contendenti, hanno iniziato a fare campagna elettorale addirittura con un anno di anticipo sull’inizio delle primarie. Troppo presto, secondo Karl Rove, “l’architetto” delle vittorie elettorali di Bush dai tempi in cui era governatore del Texas. Intervistato dal giornale The Politico, a metà febbraio, Rove ha sottolineato che i candidati sono troppo impegnati a raccogliere fondi e non hanno il tempo per delineare un progetto politico. Non solo. Secondo il guru repubblicano, in una campagna elettorale lunga due anni si corre il serio pericolo che la gente si stanchi e perda interesse nella sfida per la Casa Bianca. Sfida che si preannuncia già come la più costosa della storia americana. Su questo terreno, Cinton e Giuliani sembrano avvantaggiati, anche se Obama può far valere dalla sua il sostegno di Hollywood.
Tuttavia, nessuno di loro può competere con il fundraiser George W. Bush, che nonostante i livelli di popolarità calati a picco è ancora capace di raccogliere fondi come ai tempi in cui era all’apice del successo. A fine febbraio, con un solo ricevimento, è riuscito a mettere assieme oltre 10 milioni di dollari a favore dei candidati governatori del partito repubblicano. Sull’appeal del presidente, in casa repubblicana, è ancora più significativo il risultato di un sondaggio commissionato da Gallup e pubblicato il 26 febbraio scorso da USA Today, il quotidiano più diffuso negli Stati Uniti. Secondo la ricerca demoscopica, l’operato di Bush viene giudicato positivamente dal 76 per cento degli elettori repubblicani, mentre il 72 per cento ritiene tuttora che la guerra in Iraq non sia un errore. L’avvertimento per i candidati è chiaro (soprattutto per McCain): una linea dura nei confronti del presidente e del conflitto iracheno potrebbe non pagare, così come la ricerca troppo spinta del voto degli indipendenti. Alle primarie sarà decisivo il voto della base repubblicana. Dimenticare Bush, dunque. Ma non troppo.