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Questo libro nasce dall’idea che per l’impegno politico dei cattolici sia giunto il tempo della ripresa, essendosi conclusi quello della resistenza e quello dell’attesa. Senza la pretesa di fare bilanci o di incasellare dentro schemi un lungo e complesso periodo della nostra storia recente, non posso esimermi dal gettare uno sguardo all’indietro perché solo così facendo la finalità di questo libro può essere pienamente compresa.

Il tempo della resistenza è stato quello degli anni Sessanta e Settanta, durante i quali la laicità della modernità ha lanciato verso la Chiesa e i cattolici una violenta guerra culturale che ha prodotto smarrimento e perplessità sulla propria identità e missione. Dall’associazionismo cattolico più impegnato emergevano prese di posizione neomoderniste fortemente critiche rispetto alla pretesa cristiana di avere qualcosa da dire al mondo, del magistero di avere ancora il compito di insegnare, della necessità di una coerenza tra fede e politica. Un aspetto molto vistoso di questo smarrimento è stata l’accusa di ideologicità rivolta alla Dottrina sociale della Chiesa, che di fatto venne messa da parte per tutto questo periodo. Il punto di vista per il discernimento sociale e politico non era più visto nella fede apostolica, ma piuttosto la prassi sociale e politica era assunta come criterio di discernimento per giudicare la fede apostolica. Le letture “in situazione” della Parola di Dio si sostituivano alle letture cum Ecclesia. La teologia cattolica era considerata occidentale, eurocentrica e borghese, la prassi politica avrebbe dovuto “inverare” il cristianesimo e la sua teologia doveva essere depurata dai residui metafisici e greci, visti come forme di violenza di una verità improntata alla staticità della natura rispetto ad una verità improntata alla novità della storia. Si diceva, sulle orme di Ernst Bloch, che Dio non è “Colui che è” ma “Colui che sarà”, l’essere non è mai vero. Se la teologia anziché dalla fede apostolica parte dalla “situazione” la teologia si frammenta “nelle” teologie del genitivo, assai fiorenti in quegli anni e potenzialmente infinite.

E’ stato un periodo difficile, durante il quale forse l’unica cosa possibile era resistere alle scosse e preparare il dopo. Per fortuna molti resistettero attivamente, ossia operando affinché le cose potessero cambiare in seguito. Prima di tutti resistette Paolo VI, fatto oggetto di incresciosi attacchi, che in fatto di dottrina e di morale non concesse nulla alle esigenze della secolarizzazione del cristianesimo. Egli non solo mantenne le posizioni, precisò e confermò, ma anche guidò la Chiesa intera ad affrontare con coraggio le sfide e le minacce. Nell’enciclica Caritas in veritate Benedetto XVI ha reso omaggio a questa “resistenza” di Paolo VI. Con la Humanae vitae, allora molto criticata, precisò la verità cristiana ed umana del matrimonio e della procreazione ed oggi, dopo la triste deriva che l’umanità ha subito in questi campi, ne vediamo tutto il valore profetico. Pose le basi per un rilancio della Dottrina sociale della Chiesa con la Populorum progressio e con la Octogesima adveniens e ribadì quindi che nel campo sociale non c’è vero sviluppo senza il Vangelo. Accanto a lui resistettero tutti quei teologi, intellettuali, politici, persone impegnate a vario titolo nella società che, pochi o tanti che fossero, non cedettero alle intimidazioni delle ideologie di allora, ma si tennero stretti alla Chiesa e ai suoi pastori e opposero alla sfida del secolarismo la dimensione anche storica della fede cristiana e la sua fecondità per la costruzione della società degli uomini. Non fu facile per loro, dato che proprio in quegli anni otteneva i suoi maggiori successi il progetto gramsciano dell’egemonia nella cultura e il generale modo di pensare negava la cittadinanza alla fede cristiana.

A ripercorrere con il pensiero quegli anni ricordiamo, tra i tanti, tre grandi esempi di libertà di pensiero, che la fede cristiana provvidenzialmente non cessa mai di alimentare, di indifferenza alle lusinghe del tempo che invece tanto condizionarono il ceto intellettuale. Questi esempi trovarono espressione in tre notevoli libri usciti proprio negli anni Sessanta, gli anni della resistenza.

Il primo esempio è “Il problema dell’ateismo” di Augusto Del Noce. Vi si conduceva una diagnosi lucida su come il razionalismo moderno sia confluito nel nichilismo passando attraverso il marxismo, così in voga in quegli anni negli ambienti cattolici. Con la negazione del peccato originale, la laicità della modernità ha presunto possibile una natura pura e quindi ha estromesso dalla società e dalla storia la sovranatura considerata come utile ma non come indispensabile. Bisognava ripartire dal “primato della fede” che ha il compito – così diceva Del Noce molto prima della Deus caritas est – di purificare la ragione. La laicità della modernità non è laicità, perché il razionalismo è un assunto, una specie di dogma fideistico.

Il secondo esempio è “Il Contadino della Garonna” di Jacques Maritain. In età ormai avanzata, il grande filosofo francese scrisse un libro preoccupato e preoccupante, tutto incentrato sulla verità del Cristianesimo e sul bisogno di salvezza del mondo. Si trattava di un giudizio sul mondo e di una riaffermazione della verità cristiana drammaticamente diversi da quanto molti altri proponevano in quegli anni, quando sembrava che la salvezza della Chiesa consistesse nell’assimilarsi al mondo.
Il terzo esempio, ancora più luminoso dei precedenti per le potenzialità di ripresa in esso contenute è “Introduzione al cristianesimo” di Joseph Ratzinger. Non le situazioni del mondo, ma la fede del Simbolo apostolico è il luogo teologico da cui partiva il giovane teologo tedesco. La fede cristiana, che si fonda sull’invisibile e su quanto permane, piuttosto che su ciò che è misurabile e che diviene, entra in collisione con lo storicismo e l’empirismo moderni. Contro la tesi, allora molto considerata, della deellenizzazione del Cristianesimo, Ratzinger giudicava provvidenziale l’incontro del Vangelo con la ragione greca. Collocando l’origine stessa della relazione, e quindi della società, nella Santissima Trinità, egli assegnava un essenziale ruolo storico e sociale al Cristianesimo.

Era un pensiero potente che metteva in luce tutte le potenzialità di orientare il nuovo presenti nella tradizione, ossia nelle verità da sempre professate dalla Chiesa. Se oggi possiamo dire dipanate, anche se non dissolte e forse sul piano pratico più efficaci che non allora, le nebbie del neomodernismo di quegli anni, ciò è dovuto a quanti, e tra tutti specialmente chi abbiamo qui sopra ricordato, sono rimasti fedeli al Cristianesimo annunciato dalla Chiesa piuttosto che dai teologi allora di moda: hanno resistito ed hanno atteso i frutti.

Con gli anni Ottanta e Novanta l’attesa si è fatta più trepida, l’orizzonte si schiariva sempre di più fino a che è cominciata la ripresa. E’ stato questo il lungo periodo del grande pontificato di Giovanni Paolo II. Egli ha ricollocato la Dottrina sociale della Chiesa nel posto che le conviene, considerandola elemento essenziale della missione della Chiesa e già nel 1979 a Puebla, nel periodo più caldo della teologia della liberazione, ribadì quanto Benedetto avrebbe affermato tanti anni dopo ad Aparecida: il punto di vista cristiano non è la storia o la sociologia, non la prassi né l’oppressione o la povertà sociologicamente intese, ma la fede della tradizione apostolica. Fu infatti proprio lì, a Puebla, che Giovanni Paolo II ricominciò ufficialmente a parlare di Dottrina sociale della Chiesa, rilanciandola senza più possibilità di tornare indietro. Con il suo antropocentrismo cristiano – l’uomo è la via della Chiesa – ha ribadito la pretesa della Chiesa di annunciare in Cristo la salvezza integrale dell’uomo. Ribadendo il profondo rapporto che la fede cristiana detiene con la cultura, la nazione, i processi con cui ceti e popoli lavorano per la loro dignità di persone, ha inserito a pieno titolo la Chiesa dentro la difesa e promozione degli autentici diritti umani, iniziando un confronto serrato con la modernità dal quale appariva sempre più che non le élites radicali ed illuministe, ma la Chiesa era stata accanto al popolo per riempire di contenuto veramente umano le rivendicazioni di diritti di cui la modernità andava fiera, ma che rischiava di vanificare nell’individualismo e nel nichilismo.

L’enciclica Fides et ratio ripropose il tema della verità, e non solo della carità, come centrale nel cristianesimo; invitava a riprendere la metafisica senza affidarsi alle sole scienze umane oppure alle sole scienze scritturistiche, che nel periodo della resistenza era invece uno dei principali cavalli di battaglia della nuova teologia che tentava di sostituire Sant’Agostino e San Tommaso con Nietzsche ed Heidegger. Sostenendo che la teologia ha bisogno della grammatica della metafisica e che, anche se la rifiuta, non può non adoperarne una anche se sbagliata, la Fides et ratio chiudeva i conti con il lungo periodo teologico della resistenza, quando sembrava che solo il pensiero moderno avrebbe permesso al cristianesimo di essere se stesso.

Con l’enciclica Evangelium vitae il lungo (e contestatissimo nell’età della resistenza) magistero sul matrimonio, la sessualità e la procreazione esprimeva tutte le sue potenzialità di costruzione (o di distruzione se disattese) della società. Solo il rispetto del diritto alla vita può liberare dall’ideologia il lavoro per la giustizia e per i diritti umani. Confermando e sviluppando l’insegnamento di Paolo VI, Giovanni Paolo II denunciava la cultura di morte di cui può essere capace la modernità, accanto a potenzialità positive se bene incanalate.

Con la Veritatis splendor veniva condannato il consequenzialismo in etica, veniva ribadita l’esistenza di assoluti morali negativi, ossia di azioni che non possono mai essere compiute, e si ribadiva il vero significato della coscienza personale, che non consiste nello stabilire autarchicamente le norme morali, ma nello scegliere i mezzi in vista dei fini.

In questo modo Giovanni Paolo II toglieva alcuni importanti argomenti adoperati da quanti non intendevano resistere, anzi avrebbero voluto procedere ulteriormente nella secolarizzazione del cristianesimo e proponevano una Chiesa “minima” (ipotesi che già Paolo VI aveva rifiutato nella Ecclesiam suam) che accompagna caritatevolmente il mondo ma rinuncia alla pretesa di volerlo orientare e salvare. Se il consequenzialismo è una prospettiva sbagliata, allora l’etica del cattolico in politica non sarà un’etica della responsabilità, ma un’etica della convinzione. Egli non si limiterà ad optare per il compromesso del male minore, perché ci sono dei mali che mai possono essere accettati, nemmeno per rispettare l’altrui coscienza o il metodo democratico. La laicità non sarà il luogo in cui la coscienza detta le proprie leggi e in cui la Chiesa non ha diritto ad entrare. Queste tre encicliche di Giovanni Paolo II hanno avuto una importanza formidabile e unite alla Centesimus annus formano un quadro di grande chiarezza che, se doverosamente accolto, avrebbe comportato l’impegno per una ripresa. L’inserimento, poi, della Dottrina sociale della Chiesa all’interno del Catechismo della Chiesa cattolica, di cui Giovanni Paolo II volle la redazione, conferiva alla presenza pubblica del cattolicesimo una indiscutibile natura teologica.

Anche i cattolici italiani iniziavano un lungo percorso di attesa e di ripresa, dopo lo smarrimento e la resistenza. Nel 1981 il bel documento dell’episcopato su la Chiesa italiana e le prospettive del Paese rivendicò il diritto-dovere ad una presenza, ma forse era ancora pervaso da un bisogno di giustificazione e quasi di discolpa: se le comunità cristiane si sono impegnate poco nella società non è perché sono cristiane ma perché lo sono troppo poco. Il primo Convegno ecclesiale di Roma su Evangelizzazione e promozione umana del 1976 ebbe il coraggio di porre il tema centrale, ma lo faceva ancora nell’ottica di una accentuata distinzione dei piani che troppo concedeva alla laicità della modernità e lasciava molto spazio alla teoria, allora ancora molto diffusa, secondo cui sarebbe integralismo pretendere di far passare nelle leggi e nelle istituzioni valori e principi cristiani. Ma negli anni Ottanta l’attacco culturale laicista era ancora molto penetrante, nel 1981 il referendum per l’abrogazione della legge 194 sull’aborto procurato era fallito. La contestazione nella Chiesa ancora molto accentuata, come pure l’onda lunga del fascino delle ideologie cattoliche degli anni Settanta.

E’ con gli anni Novanta che si passa dall’attesa alla ripresa in modo più evidente. Il secondo Convegno ecclesiale di Loreto (1985), grazie soprattutto all’intervento di Giovanni Paolo II, pone al centro il primato dell’annuncio di Cristo e supera gli eccessi della distinzione dei piani: tutta la storia della salvezza ha al centro Cristo. A Palermo, nel 1995, si fece un altro passo avanti verso una ripresa di una azione corale, grazie alla valorizzazione delle Scuole di formazione sociale e politica e di un più convinto utilizzo della Dottrina sociale della Chiesa. La parte più viva di questo processo – alcuni elementi non furono sostenuti a lungo – confluirono nel Progetto culturale della Chiesa italiana, voluto dal Cardinale Camillo Ruini, e di grandissimo valore per il nostro discorso.

Esso infatti si fondava e si fonda sull’idea che Cristo e la sua Chiesa siano presenti nella storia attraverso comunità vive anche sul piano culturale e sociale e rappresenta quindi un rifiuto della logica della Chiesa minima e della diaspora. Ricollegandosi alla Gaudium et spes, secondo cui una delle principali tragedie della nostre epoca è la frattura tra Vangelo e vita, il progetto culturale ribadiva l’idoneità della fede a farsi cultura e prassi in modo rispettoso dei differenti piani, ma con coerenza. Infine l’ultimo convegno ecclesiale nazionale in ordine di tempo, ossia quello di Verona del 2006, è stato caratterizzato da un grande discorso di Benedetto XVI che ha posto al centro il Dio “dal volto umano” che ha detto un grande “sì” all’uomo. Ciò significa che la religione cristiana è “amica della persona” e rivendica una pretesa di verità che non contraddice, ma conferma, illumina ed eleva, la verità dell’uomo. L’annuncio della verità cristiana non è arroganza, ideologia o integralismo in quanto mostra all’uomo e al mondo la risposta alle loro più profonde attese. Da qui il “diritto di cittadinanza” della Chiesa nella società, la conferma che “non esiste soluzione alla questione sociale fuori del Vangelo” e nello stesso tempo il dialogo con le realtà umane costituite nella loro legittima autonomia.

Questo lungo e fruttuoso periodo dell’attesa che si fa progressivamente ripresa ha un momento di grande significato nella Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede sull’azione e il comportamento dei cattolici nella vita politica del 2002. Si tratta di un documento di fondamentale importanza in quanto fa rientrare anche l’azione politica nel compito di evangelizzazione, assegna ai laici un diritto-dovere di agire nel contingente ma ben chiarendo che nel contingente si giocano significati e valori assoluti. Il pluralismo non si fonda sul relativismo ma sul fatto che il bene può essere fatto in molti modi, mentre non esiste pluralismo né discrezionalità della coscienza davanti al male. La Nota insiste molto sulla coerenza del cattolico impegnato in politica, impedisce di aderire a programmi che non rispettino la legge naturale e ribadisce la corretta interpretazione del pluralismo religioso contenuta nella Dignitatis humanae e nella Dominus Jesus e che ha anche un valore politico in quanto non elimina i doveri delle società verso la vera religione.

Questa Nota può essere vista come il passaggio all’epoca della ripresa vera e propria che ha cominciato a delinearsi pienamente con il pontificato di Benedetto XVI ma che, come abbiamo visto, ha alle proprie spalle la potente costruzione di Giovanni Paolo II. Con Benedetto XVI emerge con particolare forza il tema della verità del cristianesimo. Nella sua pretesa di essere la religio vera, il cristianesimo pone anche il problema della verità della ragione, accettando di essere da essa giudicato in quanto ha con essa stabilito un’alleanza originaria, e ponendosi a sua volta come suo giudice quando essa dimentica la propria verità. Il relativismo filosofico produce relativismo religioso in una spirale decostruttiva potenzialmente nichilistica. La ripresa non può derivare dalla sola ragione, deve venire dalla fede che, riscoprendosi come vera aiuta anche la ragione stessa a ricoprire a sua volta la propria verità. E’ possibile e necessario, quindi, un nuovo incontro tra cristiani e laici, a patto che la laicità accetti di essere liberata dalla fede cristiana dalle pesantezze del relativismo.

Il cristianesimo – religio vera – è consapevole della propria identità e della sua irrinunciabile dimensione storica e sociale, supera la separazione dei piani senza rinunciare alla distinzione, e dialoga con la laicità non dopo essersi spogliato di se stesso, ma con tutto il peso della propria verità. Con Benedetto XVI il cristianesimo comprende che il mondo ha bisogno di Cristo come di qualcosa di indispensabile e che gli autentici diritti umani rischiano, senza di esso, di essere schiacciati sotto il peso della dittatura del relativismo. Verità del cristianesimo, centralità dell’evangelizzazione, ripresa della missione, significato pubblico della fede cristiana, critica alla dittatura del relativismo, reazione alla versione individualistica e nichilistica della libertà, purificazione della ragione, liberazione dalle ideologie del pluralismo, del dialogo senza verità, della tolleranza senza criteri di discernimento, della assolutizzazione del diverso in quanto tale, recupero della nozione di legge morale naturale, denuncia della prostituzione della parola da parte di una teologia che guarda più al consenso che alla verità, rifiuto del bene comune inteso come minor male comune e della politica come compromesso al ribasso, rifiuto della ideologia della tecnica, emendazione dei temi dell’ambiente e della pace dal moralismo politico e dal messianismo senza Dio che spesso li strumentalizzano, confronto serio con una laicità non ideologica, coerenza nell’impegno politico … ecco alcuni dei principali elementi della ripresa nell’epoca di Benedetto XVI.

Una delle componenti principali dell’epoca della ripresa è la percezione diffusa tra i cattolici e non solo tra di loro che il moderno processo di secolarizzazione non è irreversibile e che non esiste nessuna legge storica che stabilisca in modo necessario che la religione debba estinguersi. Ciò non vuol dire far finta di non vedere i feroci attacchi contro il cristianesimo condotti oggi da più parti e la sofferenza e perfino il martirio che i cristiani devono subire sia ad opera dell’integralismo sia del nichilismo delle società postcristiane. Né vuol dire chiudere gli occhi nei confronti di una secolarizzazione di massa sempre più invadente. Considerare realisticamente queste situazioni è un’ulteriore spinta alla ripresa, a patto che una visione di fede non ceda al pessimismo della ragione: la linea che nella modernità ha finora prevalso può essere invertita. In questo lavoro i cristiani non saranno da soli. La cultura di morte sprigionata dalla laicità della modernità che ha voluto estromettere Dio dalla sfera pubblica ha raggiunto livelli di disgregazione del tessuto sociale veramente preoccupanti. Molti spiriti liberi, anche non cristiani, si interrogano profondamente, sentono il bisogno di recuperare ragione e buon senso e considerano che per far questo c’è bisogno dell’aiuto della fede cristiana, di un Dio che è amore e verità. Uno degli aspetti significativi di questa epoca della ripresa sono le molte nuove forme di incontro tra laici e cattolici, oltre l’ideologia della laicità come neutralità, ideologia talmente poco neutrale da imporsi con l’arroganza e la violenza.