Far partecipare i lavoratori agli utili d'impresa è un'impresa inutile
La proposta circolata nei giorni scorsi di fare partecipare i lavoratori agli utili dell’impresa è rischiosa per il lavoratore, inutile per l’efficienza aziendale, forse anche controproducente.
Esaminandola non possiamo prescindere dal ricordare che l’utile d’impresa è – grossolanamente – la differenza tra ricavi e costi; due grandezze incerte e variabili, che fluttuano nel tempo, determinate da una molteplicità di fattori (la domanda di mercato, i prezzi delle materie prime, il costo dell’energia, le tariffe di trasporto, la fiscalità ecc. ). Inoltre, la differenza tra costi e ricavi – l’utile che si vuole ridistribuire ai lavoratori – è ancora più incerta e variabile della due grandezze originali. Infine, cosa ancora più importante per la nostra valutazione, le determinanti dell’utile (costi e ricavi), e quindi l’utile stesso, sono per lo più assolutamente fuori dal controllo del lavoratore, sono cioè esogene rispetto ai suoi comportamenti.
In questo contesto legare una parte della remunerazione del lavoratore all’andamento dell’utile comporta introdurre un elemento di variabilità nella remunerazione e quindi una maggiore dose rischio per il lavoratore, rischio di cui per altro egli non è direttamente responsabile. Una prima conseguenza immediata di questa struttura del compenso del lavoratore sarà di fare lievitare il costo del lavoro. Chiunque, infatti, sarà disposto ad accettare un aumento del rischio solo a condizione che esso sia compensato da un incremento della remunerazione. In generale quindi l’introduzione di una tale fattispecie si accompagnerà con la richiesta di una remunerazione più alta.
Una seconda conseguenza della proposta, di più lungo termine, sarà di modificare le relazioni aziendali e la governace delle società. Mi sembra infatti inevitabile che i lavoratori chiedano di partecipare alla gestione della azienda per controllare meglio costi e ricavi che determinano l’utile complessivo e, quindi, una parte consistente della loro remunerazione. Si determinano quindi forti pressioni per introdurre l’istituto della cogestione, i cui limiti sono risultati evidenti nella recente crisi che non ha risparmiato il sistema industriale e finanziario della Germania.
La proposta sarebbe anche inefficace, e forse dannosa, dal punto di vista della produttività aziendale. Considerato che l’utile aziendale è largamente indipendente dai comportamenti del singolo lavoratore non scatta nessun meccanismo incentivante: lavoro meglio, perché ciò accresce gli utili che mi ritornano in parte sotto forma di remunerazione. Anzi, si potrebbe addirittura instaurare un meccanismo di tipo opportunistico: poiché una parte del mio compenso dipende perlopiù da ciò che fanno gli altri, preferisco non sforzarmi e lasciare che siano gli altri a determinare gli utili di cui beneficerò.
Sicuramente più efficace per la produttività sarebbe, invece, prevedere premi di produttività legati specificamente al comportamento dei singoli lavoratori, o gruppi, tramite un’adeguata contrattazione aziendale di secondo livello. In questo caso il rapporto tra maggiore sforzo e premio sarebbe diretto e trasparente; il lavoratore si vedrebbe compensato per i suoi comportamenti virtuosi, con un effettivo beneficio in termini di produttività per l’azienda nel suo complesso.
Sarebbe, infine, da rifiutare l’impiego di incentivi fiscali mirati a sostenere forme specifiche di strutture remunerative – partecipazione agli utili o quant’altro – per gli inevitabili effetti distorsivi che ciò comporta. Se ci sono risorse da destinare a sgravi fiscali, meglio sarebbe se queste venissero utilizzate per detassare tutto l’utile di’impresa o ridurre la fiscalità sul lavoro.
(da www.loccidentale.it)